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Autore: Harryette    27/05/2015    3 recensioni
[...] Ci fu un silenzio imbarazzante, prima che Margareth si decidesse a riprendere e concludere il discorso.
‘’Questa sono io. Sono Margareth, la stessa persona che era affacciata sul balcone di quel ristorante italiano e la stessa persona a cui hai detto che, andandosene, si rinuncia non solo alle cose brutte ma anche a quelle belle. Sono contenta di averti dato ascolto, perché – io – l’ho trovata una cosa bella. E scusami, davvero perdonami, perché io sono innamorata di te e non so neanche perché te lo sto dicendo adesso’’
Dall’altra parte ci fu, ancora una volta, silenzio. Le parve di udire un sospiro, ma non ne era proprio sicura.
‘’Ho finito’’ disse. ‘’Mi dispiace per l'ora, e...''
Stavolta, però, lui la interruppe. ‘’Stai piangendo?’’ le domandò.
''Cambierebbe qualcosa?'' chiese.
''Non piangere'' lo sentì addolcirsi. ''Non piangere, Marge''.
[SPIN-OFF DI ''MORS OMNIA SOLVIT'', DA LEGGERE ANCHE SEPARATAMENTE]
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Gli inarrivabili del Bronx'
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| Capitolo Trentesimo |
50


Dan Grey la guardava dall’alto in basso, come aveva sempre fatto dall’alba dei tempi e come non avrebbe smesso di fare mai. Aveva i capelli più bianchi dell’ultima volta, prima che partisse per la Danimarca, e delle rughe marcate sotto gli occhi. Fu in quel momento che Margareth pensò che, dopotutto, non dovesse essere così facile gestire un intero Paese e avere così tante responsabilità sulle spalle.
Celine gli era accanto, stretta nel suo tailleur scuro, e non proferiva parola. Tutta via Maggie sapeva bene da che parte fosse sua madre e, almeno per una volta, poteva tirare un sospiro di sollievo. Dopo la sua festa aveva passato il giorno antecedente al ritorno di suo padre pensando a se avesse dovuto parlargli. Era stata Celine a consigliarle di farlo, anche perché prima o poi sarebbe venuto tutto a galla e sarebbe stato solo peggio. In più, Maggie non se la sentiva più di nascondere Carl.
Non dopo quella poesia – Amnesia – e non dopo che il suo diario segreto era custodito gelosamente sotto il suo cuscino. Non dopo che le aveva implicitamente consegnato una parte di se e che lei aveva fatto esplicitamente lo stesso. L’aveva ammesso velocemente, ad altissima voce in modo da evitare di ripeterlo, senza esitazione nel timbro vocale e mentre ostentava una personalità che non credeva le sarebbe mai appartenuta.
Dan non rispose, la guardò come sue solito – il cipiglio aggrottato sulla fronte, lo smoking che sembra improvvisamente troppo stretto e la cravatta che sembra scoppiare per quanto si siano ingrossate le sue vene sul collo – e poi sospirò.
Un semplice sospiro che valse anche più di mille parole.
Era sempre stato quello il problema alla base del loro rapporto: lui non comunicava mai se non per richiamarle qualcosa, lei non gli parlava mai se non per dirgli qualcosa per cui l’avrebbe richiamata. Era un circolo vizioso, una catena, un movimento rotatorio e circolare infinito. E Margareth era stanca dello sguardo accusatore e deluso di suo padre, era stanca di sentirti limitata perché arrivava perfino ad immaginarselo ad occhi aperti, era stanca di fingere di essere la figlia perfetta – quella che lui tanto desiderava – quando era chiaro che non fosse così.
L’attimo seguente fu lei a prendere la parola, a sorpresa di se stessa.
‘’So che non approvi’’ affermò, sicura, alzandosi da tavola e poggiando il tovagliolo avorio sulla superfice lignea. ‘’Però non posso farci niente. Non questa volta, purtroppo, perché non voglio. Non voglio più rinunciare a niente per far felice te. Sembra che…non vada mai bene nulla di quello che faccio.’’
Era uno sfogo privato, nel suo piccolo Margareth si sentì alleggerita. Basta bugie, basta scuse, basta parole campate in aria. L’assoluta ed unica verità, senza mezze misure né mezzi termini.
Dan rispose quasi immediatamente, la sua voce era stanca come se fosse sottoposta ad uno sforzo immane, quasi sfibrata. ‘’Non è vero che non mi sta bene niente di quello che fai, non dire fandonie. Io voglio soltanto il tuo bene. Sei tu che prendi sempre le decisioni sbagliate’’
Tipico di suo padre, rigirare la frittata e far magicamente ricadere la colpa su di lei. Per anni Maggie si era sentita sotto pressione, sottovalutata, sotto tono. Per anni aveva vissuto nell’ombra di Morgan, nel continuo terrore di deludere suo padre, di deludere la sua famiglia, di infangare il suo prestigioso cognome. Ricordò di quando, da bambina, con la tata, imparava ad usare le posate d’argento: da sinistra a destra, quelle per il caviale, la pasta, la carne, il pesce, la frutta, il dolce.
Quando sono mai stata me stessa?
‘’Non sta a te decidere se le mie scelte sono giuste e sbagliate’’ era stata la rabbia a prendere parola, ad occupare ogni centimetro del suo corpo. Solo qualche tempo prima, non si sarebbe sognata mai di rispondere a suo padre con quel tono saccente. ‘’Ho diciotto anni, questa è la mia vita. Non ti ho mai mancato di rispetto, non ho mai fatto qualcosa di disonorevole, sono sempre stata presente a tutte le feste programmate e a tutte le tue stupide cene di lavoro. Non ho mai detto una singola parola, mi sono fatta pettinare i capelli e scegliere i vestiti e truccare, mi sono fatta pilotare, soltanto per compiacerti. E non è mai stato abbastanza. Sono esausta di navigare controcorrente, di cercare di accontentare qualcuno di incontentabile, di sentirmi costantemente ferita ed inadatta. Ora mi sento bene, finalmente, e non ti lascerò rovinare anche questo, mi dispiace.’’
Dan sgranò gli occhi, perfino la sua corazza impenetrabile di indifferenza si ruppe. La guardò esattamente allo stesso modo in cui guardò Morgan quando gli disse di voler andare – di esigere di andare – alla scuola pubblica. Gli occhi azzurri, gli stessi che aveva anche lei, erano vitrei ed incolore, eppure c’era qualcosa nel suo volto grazie al quale Maggie riuscì a leggerlo: non era arrabbiato, non era neanche deluso. Proprio come quella volte di tanti anni prima, in una casa che non sembrava nemmeno più la stessa, era sorpreso. Sgradevolmente sorpreso. Dan si rese conto in quell’esatto istante che, purtroppo, si era avverato il suo peggior incubo: non aveva più niente sotto mano, tutto stava sfuggendo al suo controllo. La lontananza di sua moglie, la distanza di sua figlia, il lavoro pesante. Ogni cosa.
Sospirò per l’ennesima volta, poi si alzò.
Margareth si convinse che volesse avvicinarsi per darle un sonoro schiaffo: suo padre non aveva mai alzato un dito sulle sue figlie, neanche da bambine e anche perché era sempre impegnato, però quello sarebbe stato il momento giusto. Anche Celine dovette pensare la stessa cosa, perché scattò anche lei in piedi e raggiunse suo marito. Gli poggiò le mani curate sulle spalle, era teso come le corde di un violino. ‘’Calmati’’ sussurrò.
Per cui furono sorprese entrambe nello scoprire che, semplicemente, si fosse alzato per andarsene. Uscì dal salone velocemente come vi era entrato, con l’andatura storta ed ingobbita di chi ha troppi pensieri per la testa e troppe responsabilità fra le mani. Si rintanò nel suo studio, come tutte le volte e come sempre, lasciandole sole.
Celine guardò Margareth, ancora immobile al suo posto, e la raggiunse con due falcate veloci. Fu lei, stavolta, la persona a cui poggiò le mani sulle spalle. Maggie era sicuramente meno tesa di suo padre, ma non riusciva ad articolare parola. L’aveva sconvolto al punto da metterlo a tacere?
‘’E’ arrabbiato?’’ domandò ingenuamente alla madre, perché se c’era qualcuno al mondo che conoscesse Dan Grey meglio di chiunque altro, quello era sua madre. Tuttavia neanche lei riuscì a trovare una risposta coerente.
‘’Io…non lo so’’ ansimò. ‘’Penso che abbia bisogno di restare da solo.’’
Margareth si voltò meglio verso sua madre: neanche il suo volto appariva tanto sereno, i capelli biondi tendevano ormai al grigio, eppure aveva una strana luce negli occhi. Un brillio che non le aveva mai visto prima. Preferì non indagare e non aggiungere nient’altro.
‘’Sì, forse hai ragione’’ rispose, scrollando le spalle. ‘’Io vorrei davvero che andasse d’accordo con Carl, ma credo sia matematicamente impossibile. Vero?’’
Celine le sorrise teneramente, come non aveva mai fatto quando era bambina, come se le avesse appena posto la domanda più sciocca del mondo. ‘’Anche io credo che sia matematicamente impossibile, però – a volte – il destino ci sorprende.’’
Margareth dubitava seriamente che nel suo destino suo padre e Carl Stymest – l’amore della sua vita – giocassero a carte insieme e bevessero brandy, dubitava perfino che si  parlassero senza far scoppiare una guerra fredda. Non se la sentiva di sbarrare tutte le possibilità, ma era solo realista. Tuttavia dedicò a sua madre un sorriso tutto particolare, perché l’aveva rincuorata dopo una vita. Aveva dimenticato – forse non aveva mai saputo – quanto sapessero essere confortanti le parole di una madre.
‘’Grazie’’ le sussurrò, anche se l’avrebbe urlato al mondo.
Grazie per essere ritornata da me, grazie per essere qui, per essere finalmente al mio fianco, per non farmi sentire più sola. Grazie, mamma.
‘’Di niente, tesoro’’ le rispose lei. ‘’Di niente.’’
 
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Cameron afferrò la tazza di cappuccino fumante che la cameriera gli aveva gentilmente portato, rischiando di ustionarsi una mano. Laurine scoppiò in una risata liberatoria per la goffaggine del suo fidanzato, che non sarebbe cambiata mai in vita.
Aveva tinto di nuovo i capelli di rosso, un rosso più tenue rispetto a quello dei primi tempi ma che gli copriva totalmente la ricrescita castana. Non indossava più le lenti a contatto amaranto, aveva deciso di lasciar respirare anche i suoi occhi. Ora erano color castagna, gli stessi di sempre, gli stessi con la quale era cresciuta e che l’avevano vista soggetto di una vita.
Cameron le aveva detto che la preferiva così, soprattutto ora che aveva tolto anche il piercing alla lingua, ma non sapeva in che misura fosse vero. Era palese che il ragazzo cercasse di farla sentire meglio, di risollevarla, di darle qualche sorriso. Era l’unico che ci riuscita.
I ricordi legati ad Holland, suo amico da una vita, torturavano entrambi. Non ne parlavano quasi mai, con Carl ancor meno, però sentivano tutti e tre quella strana presenza che alleggiava sulle loro teste. A volte, a Laurine, sembrava addirittura di sentire la scia lasciata dal profumo di Land, quell’odore acre e piacevole che aveva dato per scontato troppe volte. A volte le capitava di voltarsi di scatto, sicura di vederlo spuntare da qualche vicolo con una sigaretta fra le dita e i capelli platino e gli occhi brillanti. Cam non le parlava mai di lui, non faceva neanche il suo nome, ma c’erano giorni in cui Laurine riusciva a leggerglielo a caratteri cubitali sul volto. Avrebbe voluto aiutarlo, o almeno provarci, come lui provava con lei, ma non ne aveva le forze fisiche. Le faceva perfino male un innocuo ricordo, come avrebbe potuto fare i conti con l’assenza?
La cameriera li lasciò soli con un sorriso cordiale stampato sul volto. Starbucks era poco affollato, quel pomeriggio, forse perché l’estate stava per finire e il clima aveva smesso di essere troppo clemente. Era da quella mattina che una fitta pioggia scrosciava dal cielo, cadevano goccioloni enormi che sembravano voler bucare l’asfalto, e un nuvolone nero era fermo su New York City come fosse una cappa.
Laurine aveva sempre amato NY. Aveva sempre amato l’America in tutte quante le sue sfaccettature, perfino per il clima rigido invernale. Eppure quell’anno sentiva che qualcosa fosse cambiato: aveva l’impressione che il tempo volesse prendersi gioco di lei – di loro – diventando ancora più nero del loro umore. Avrebbe voluto un raggio di sole, anche solo per illudersi. Guardò fuori le vetrate trasparenti che davano sulla strada trafficata e piena di taxi e semafori, e un flashback la investì come un camion. Lei, Cameron, Carl ed Holland seduti allo stesso posto, due anni prima, quando Carl era ancora inesperto del posto e quando tutto quello che gli era successo nell’ultimo periodo era un periodo lontano come i meteoriti.
Ridevano, nei suoi ricordi, tutti insieme.
‘’A cosa stai pensando?’’ Cameron interruppe il flusso dei suoi pensieri, mentre osservava la cioccolata calda che la ragazza aveva ordinato ancora piena e quasi fredda. Lo capiva subito, Cam, quando Laurine si perdeva nel suo mondo e nei suoi pensieri. Era qualcosa di automatico.
E, proprio come qualcosa di automatico, Laurine gli disse la verità.
‘’Ti ricordi quando, due anni fa, eravamo nello stesso posto a sorseggiare le stesse bevande?’’
Non aveva bisogno di fare nomi, Laurine capì all’istante che Cam aveva capito. Erano pochissime le cose che sfuggivano a Cameron Kyle, anche se voleva sforzarsi di risultare simpatico e tonto. Era acuto come un falco, vigile come un’aquila.
‘’Certo che mi ricordo’’ rispose, con un sorriso nostalgico sulle labbra. Fu allora che Laurine si rese conto del fatto che mai – mai – qualcuno avrebbe potuto sentire la mancanza di Holland Todd più di quanto la sentisse Cameron. E non perché gli volesse più bene degli altri o altro, semplicemente perché avevano uno di quei legami – di quei pochi legami – che non si possono spiegare neanche in dieci vite consecutive. ‘’Perché ci stavi pensando?’’
Si aspettava una domanda del genere, per cui non dovette neanche ponderare più di tanto sulla risposta. Scrollò le spalle e: ‘’Mi manca.’’
Cameron sapeva bene quanto Land mancasse a Laurine, perché la conosceva come le sue tasche tanto quanto lei conosceva lui. E si ritrovò a ridere fra se e se per la situazione esilarante: il ragazzo che odiava il mondo più di chiunque altro, era quello che il mondo più amava. Era impossibile non voler bene ad Holland Todd, non legarcisi un minimo, non pregare per il suo bene e per la sua salute. Perché Land ce l’aveva scritto negli occhi chiari sin dal primo giorno, fin dal primo respiro, che fosse oltre anche prima di morire.
‘’Manca anche a me’’ le rispose serafico Cameron, afferrandole la mano con le unghie laccate di nero sul tavolino di legno. Laurine gliela strinse così forte che temette che gli bloccasse la circolazione, ma non fiatò né si mosse. ‘’Però sono fiducioso.’’
Cameron non si faceva scalfire mai, neanche quando rischiava di cadere in pezzi. Trovava sempre il modo per rimettersi insieme da solo, senza chiedere niente nemmeno a lei, senza far trapelare il minimo sforzo. Se c’era una persona, al mondo, a cui Laurine avrebbe voluto assomigliare un minimo quella era Cameron Kyle. Ed era così onorata di amarlo e di essere amata da lui che non riusciva neanche a dirglielo.
‘’Fiducioso…in che senso?’’ aveva bisogno di sentirlo parlare.
Cam sorrise, come quelle volte in cui era sicuro di avere fra le mani una battuta impressionante che avrebbe fatto ridere tutti, come chi la sa lunga e sa di saperla lunga.
‘’Credi davvero che ci siamo sbarazzati di Holland Todd, il rompi coglioni per eccellenza, così facilmente?’’ le domandò, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo. E proprio come tutte quante le altre cose più naturali del mondo, Laurine non potè fare a meno di seguire il suo sorriso e stringergli ancora di più la mano. Temette di fargliela andare in cancrena.
‘’Hai ragione’’ sussurrò. ‘’Non ci sbarazzeremo mai di lui, temo’’
Cam scoppiò a ridere sinceramente e genuinamente, facendo comparire una deliziosa fossetta all’angolo della guancia destra. ‘’Hai afferrato il concetto, tesoro’’
Laurine ringraziò ogni Dio del mondo, di ogni singola religione, per aver fatto nascere una persona come Cameron. E ringraziò che fosse la sua persona.
 
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Oggi sono venuto a New York per la prima volta, ed è molto più grande di quel che pensavo.
Non appena ci ho messo piede, mi è saltato alla mente un aforisma di Bukowski: ‘’la gente si aggrappava ciecamente a tutto quello che trovava: comunismo, macrobiotica, zen, surf, ballo, ipnotismo, terapie di gruppo, orge, ciclismo, erbe aromatiche, cattolicesimo, sollevamento pesi, viaggi, solitudine, dieta vegetariana, India, pittura, scultura, composizione, direzione d'orchestra, campeggio, yoga, copula, gioco d'azzardo, alcool, ozio, gelato allo yoghurt, Beethoven, Bach, Budda, Cristo, meditazione trascendentale, succo di carota, suicidio, vestiti fatti a mano, viaggi aerei, New York City, e poi tutte queste cose sfumavano e non restava niente. La gente doveva trovare qualcosa da fare mentre aspettava di morire. Era bello avere una scelta: Io l'avevo fatta da un pezzo la mia scelta.’’
Anche io ho fatto da un pezzo la mia scelta. E non me ne pento. Mentre dormo in hotel, nell’attesa di cercare un appartamento, e guardo i grattacieli da lontano, mi rendo conto che è stata proprio la scelta giusta.
Ho sempre detto a Diana di non aver nessuna paura, a parte quella che avevo per le pistole e che ho superato per necessità. Ho mentito.
Le ho mentito.
Ho paura, una paura fottuta, dei rimpianti. Perché non voglio rimpiangere niente e anche perché non credo che sopravvivrei con il rimorso che mi divora dall’interno. Per cui, regola da ora in poi: no medicine for regret, no regret.
Spero solo, con tutta la mia anima, che New York mi riservi qualcosa di positivo. Che mi porti luce.

 
Lascia sempre vagare la fantasia,
È sempre altrove il piacere:
E si scioglie, solo a toccarlo, dolce,
Come le bolle quando la pioggia picchia;
Lasciala quindi vagare, lei, l’alata,
Per il pensiero che davanti ancor le si stende;
Spalanca la porta alla gabbia della mente,
E, vedrai, si lancerà volando verso il cielo.
-John Keats
 
Carl Pearson
 
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La macchina di Carl profumava di pino. Doveva aver comprato uno di quei portachiavi profumati, perché l’odore delle sigarette era praticamente scomparso. Margareth, sul sedile accanto a quello del guidatore, lo guardava mentre – concentrato – teneva ferme le mani sul manubrio e sogghignava sotto i baffi.
‘’Non mi dirai dove stiamo andando, quindi?’’ si accertò lei.
Carl scosse la testa, come un bambino. ‘’Neanche per idea, quindi risparmia il fiato e non fare domande.’’
Era così leggero, quel giorno, che Margareth non se la sentì di chiedere qualcos’altro e nemmeno di dirgli della discussione che aveva avuto con suo padre la sera prima. Voleva godersi gli ultimi giorni d’estate prima degli esami, voleva godersi Carl, voleva godersi quella serenità tanto inseguita e mai avuta.
‘’Va bene’’ scrollò le spalle. ‘’Per oggi ti faccio vincere.’’
Carl sorrise guardando sulla strada e, Margareth lo notò, quando avvicinò la mano al freno sfiorò la sua gamba. Oltre il jeans, lo sentì forte e chiaro, e lo sentì perfino trattenersi qualche attimo in più.
‘’Come stai?’’ gli domandò lui, con una naturalezza disarmante, mentre Margareth afferrava il cellulare che aveva trillato per un messaggio. Vide Carl aggrottare le sopracciglia, prima di cambiare radicalmente domanda. ‘’Chi è?’’ il tono era completamente differente rispetto alla domanda precedente. E Maggie sorrise vittoriosa, perché non riusciva proprio ad immaginarsi un Carl geloso. E così, imprudentemente, decise che avrebbe voluto vederlo.
‘’Nessuno di importante’’ rispose, bloccando l’iPhone e tornando a guardarlo. ‘’Comunque sto bene, e tu?’’ sorrise.
Le sopracciglia di Carl si aggrottarono ancora di più e, quando si voltò verso di lei per una frazione di secondo, Maggie potè chiaramente vedere quel cipiglio infastidito che lo contraddistingueva.
‘’Non cambiare discorso, Marge’’ disse, serio. ‘’Chi era? Quell’idiota di Henry Andrews o qualche altro…?’’
Margareth gli aveva raccontato di Henry, tralasciando il dettaglio che i suoi genitori avevano sempre stravisto per lui e la sua famiglia, ma come qualcosa di non importante. Di secondario. E credeva che anche Carl l’avesse vista come una cosa futile, che avesse addirittura dimenticato il nome del ragazzo. Ed invece…
Sorrise ancora più ampiamente. ‘’Non è idiota’’ lo difese, divertita, scuotendo la testa.
‘’Non è idiota?’’ le fece eco Carl, continuando a guidare la sua Range Rover indisturbato. ‘’Per favore, credevo avessi gusti migliori.’’
Margareth cercò di trattenere una sonora risata e la domanda tipica ‘’tipo te?’’, invece si contenne e disse solamente: ‘’Non è questione di gusti, è questione di essere obiettivi’’
‘’E va bene’’ la interruppe bruscamente il moro. ‘’Allora salutamelo, quando gli rispondi.’’
Era così divertente vederlo fare l’offeso che Margareth non riuscì più a trattenere una risata e scoppiò fragorosamente a ridere. ‘’Te lo saluto quando lo vedo, al limite, perché non era lui. Era solo Robyn’’
Le sembrò che la faccia di Carl si rilassasse insieme ai suoi muscoli, prima di vederlo scuotere la testa come rassegnato. ‘’Non è divertente, Marge’’
‘’Oh sì che è divertente, invece’’
‘’E poi quando dovresti vederlo, scusa?’’
Era tipico di Carl Pearson poggiare il piede sull’acceleratore quando si innervosiva o si irritava, e difatti stavano correndo tantissimo. Fu in quel momento che Margareth decise che, come dimostrazione di gelosia, poteva bastare. Era più che sufficiente.
‘’Mai’’ sorrise, poggiando la mano sulla sua gamba. ‘’Non hai bisogno di essere geloso.’’
‘’Non sono geloso’’
Tipico di Carl anche negare l’evidenza, proprio come quando era terrorizzato dall’incontrare sua madre. ‘’Come vuoi’’ gli diede corda Maggie. ‘’Non ne hai bisogno comunque, ricordalo nel prossimo futuro.’’
Carl parcheggiò il secondo più tardi, si slacciò la cintura di sicurezza e si voltò completamente. Da quando si erano visti, quel pomeriggio, non si erano ancora guardati per bene. Carl aveva una t-shirt nera con la scritta Vans bianca e i pantaloni scuri, sembrava non sentire il freddo di quella giornata. Ed era sempre perfetto, comunque ed ovunque.
‘’Siamo arrivati’’ le disse. Margareth ebbe il sentore che fosse ancora offeso, e così pensò bene di rimediare prima di scendere dall’auto ed andare ovunque volesse lui. Si sedette sulle sue gambe, proprio come qualche tempo prima, nonostante fossero ormai cambiate un bel po’ di cose, e gli poggiò le mani fredde sul collo bianco. Dopo di che fece scontrare le loro fronti, ce l’aveva ad un palmo dal volto.
Cercò di non surriscaldare, perché Carl Pearson le avrebbe fatto sempre lo stesso – identico – effetto.
‘’Hai ragione quando dici che ho gusti migliori’’ scherzò vicino alle sue labbra, mentre lo sentiva irrigidirsi sempre di più e mentre sentiva le sue mani ancorarsi sui suoi fianchi magri. ‘’Infatti non mi manca proprio niente, non hai bisogno di fare questi pensieri. Anche se non li fai. Non avrebbe senso, no? Lo sai che…’’
Carl sembrava aver paura, spesse volte, che lei pronunciasse quelle due paroline che gli aveva detto pochissime volte. Difatti la interruppe anche in quel momento, dandole un delicato bacio sulla punta del naso e sorridendo. ‘’Lo so, anche io. Ma resti comunque la persona meno divertente sulla faccia della terra’’ le fece l’occhiolino, ritornato quello di sempre. ‘’E ora scendiamo? Abbiamo un appuntamento’’
Margareth ubbidì senza fare altre domande, sentendo Carl afferrare la sua mano non appena misero piede sull’asfalto ed intrecciare le loro dita. Erano in un parcheggio enorme e rettangolare, che le ricordava tremendamente uno dei posti in cui erano stati insieme una delle prime volte. Sulla sinistra c’erano una serie di edifici enormi, che suppose fossero fabbriche, avendo riconosciuto la zona industriale di una frazione di New York, e sulla destra un piccolo negozio con un cartellone fluorescente che recitava Candice.
Ed era proprio il posto verso cui si stavano dirigendo. Il parcheggio, essendo appena le quattro del pomeriggio, era quasi vuoto, così come l’interno del negozio, che si rivelò essere addirittura più grande di quel che si era aspettata. Ed aveva capito, finalmente, dov’erano: un studio per tatuaggi. C’era una signora sulla cinquantina, magrissima e con i capelli di un rosa abbagliante, dietro quello che doveva essere un bancone nero ma che era sommerso dalle riviste di tatuaggi indù o all’henné. Quando il campanellino sulla porta suonò, segnando il nostro ingresso, la donna – piena di piercing sparsi per il volto, tra l’altro – alzò la testa e le sue labbra colorate di rosa si allargarono in un sorriso. Lo stesso che era nato su quelle di Carl.
Non si alzò dalla sua postazione, ma portò le braccia in avanti come ad invitarli ad avvicinarsi. Cosa che fecero.
‘’Carl!’’ esclamò sorpresa, con un sorriso a trentadue denti tatuato in faccia. ‘’Da quanto tempo, bambino! Come stai?’’
La sala d’attesa, quella in cui si trovavano, era piccola ma molto confortevole. Era piena di calendari di uomini tatuati appesi alle pareti e di disegni fatti a mano davvero validi, qualche volta c’era qualche quadro impressionista e un orologio proprio di fronte a Maggie.
Un separé divideva quella stanza da un’altra, che Margareth suppose essere quella dove ci si marchiava la pelle.
‘’Sto bene, Candy, grazie.’’
Continuò a stringerle la mano anche mentre parlava con la donna stramba e si dilungava in chiacchiere di circostanza. Fino a che la tipa con i capelli colorati non spostò il suo sguardo proprio su di lei e poi sulle loro mani intrecciate e poi, di nuovo, su di lei: sorrise ancor di più. Aveva due occhi del colore del carbone.
‘’Tu chi saresti?’’ aveva una tale curiosità nella voce che a Marge ricordò quelle vecchie pettegole che trovava nei paesini del Connecticut. Aspettò che Carl la introducesse, ma siccome ci mise troppo – come suo solito – prese la parola da sola.
‘’Margareth Grey’’ si avvicinò al bancone, tendendole la mano. ‘’Piacere’’
‘’Candice Truman’’ la afferrò. ‘’Ma chiamami Candy, altrimenti mi fai sentire vecchia.’’
Margareth le sorrise prima di ritornare il suo posto. Carl afferrò di nuovo la sua mano ed una sensazione di calore le si estese per tutto il corpo. ‘’E’ la mia fidanzata, te ne ho parlato l’ultima volta’’ aggiunse, sorprendentemente. Il cuore di Maggie si gonfiò fino a diventare sei volte più grande.
‘’Ah è lei, allora! Che carina che sei, proprio come ti avevo sempre immaginata. Devi essere un colonnello per aver messo in riga questo coglione!’’
Maggie scoppiò in una risata liberatoria e per niente nervosa. Tutto l’imbarazzo era improvvisamente svanito, Candy le sembrava una persona simpatica. Doveva avere, più o meno, gli stessi anni di sua madre.
‘’In realtà non credo proprio di essere un colonnello’’ rispose. ‘’Mi dispiace sfasarle un mito’’
‘’Dammi del tu, zuccherino, altrimenti mi seppellisco stasera!’’
‘’Oh ma magari! Potrei seppellirti io, Madame’’ esclamò una voce maschile e roca esterna. Maggie voltò lo sguardo. Dal separè era uscito un uomo alto quasi il doppio di lei, muscoloso come pochi anche se aveva una pancia prorompente, e i lunghi capelli castani. La barba gli copriva quasi tutto il volto, ma non sembrava un brutto uomo. Teneva in mano l’affare per fare i tatuaggi, i guanti in lattice che gli avvolgevano le mani enormi.
‘’Sta’ zitto Steve, mi fai sempre fare brutte figure!’’ lo richiamò Candy, prima di guardare Maggie e sorridere di nuovo, cordiale. ‘’Lui è mio marito, il secondo padrone di questo posto e…’’
‘’Primo padrone’’
‘’Sta’ zitto’’ lo interruppe di nuovo. Non era cattiveria. Era amore. ‘’Dicevo, Maggie, che è un po’ tonto. Non farci troppo caso. Ad ogni modo, Carl, qual buon vento ti riporta qui?’’
Era chiaro che ci fosse andato innumerevoli volte.
Quarantanove volte.
Bastò una semplice occhiata a Steve, che capì tutto immediatamente. Lo fece accomodare, con qualche battuta, oltre il separè, dove c’era un lettino – che le ricordò terribilmente quello dei dottori – e tanti di quegli affari e di quei colori che si perse.
Carl sapeva già dove andare e come muoversi, Steve si era già seduto ed aveva cambiato i guanti. ‘’Cosa facciamo, stavolta? Cinquanta è un numero importante’’ ironizzò. Ricordava addirittura il numero dei suoi tatuaggi?
Carl sorrise, prima di sfilarsi la maglietta ed indicare il punto – uno dei pochi ancora puliti – dove voleva farlo. Esattamente in prossimità del cuore, non proprio in quel posto ma abbastanza vicino. Per Margareth, che aveva paura perfino di un prelievo, era allucinante anche restare a guardare.
Strinse i denti e non disse nient’altro.
‘’Una frase.’’
Margareth vide solo l’ago pungere la pelle, lei che voltava lo sguardo, piccole gocce di sangue che uscivano fuori man mano, ovatta sporca, lei che afferrava la mano di Carl. Lui che, sorridendo, le sussurrava di no quando lei gli chiedeva se gli faccesse male.
Gli faceva male.
E poi, prima che potesse anche solo rendersene conto, la scritta fu completa e spiccò sul petto di Carl – più brillante di tutti quanti gli altri tatuaggi – come l’insegna luminosa dello stesso negozio in cui si trovavano.
 
If you want to do it, you can do it.
 
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SCUSATE SCUSATE SCUSATE per il ritardo, giuro che ho pensato mille volte di scrivere
(visto che sono finiti i capitoli già scritti prima) ma Maggio, a scuola, è TREMENDO e non ho mai avuto modo.
Questo è solo un capitolo di passaggio, comunque, per definire alcune situazioni, tipo quella di Cam e Laurine
e Margareth e suo padre. A metà, spero ve ne siate rese conto, c'è una delle prime pagine
del diario che Carl ha dato a Margareth nel capitolo precedente. Ce ne saranno poche altre, credo, più che diario
è una specie di flusso di pensieri e poesie alla cazzo di cane ahahha
E, dal prossimo, entreranno in scena per l'ultima volta *rullo di tamburi*
Morgan ed Holland. Quanto mi mancano :(((( Volevo, inoltre, approfittare di questo tempo prima che inizi Game of Thrones (lol)
per ringraziarvi di cuore TUTTE, silenziose e non. Siete fin troppo buone e gentili con me e siete il motivo per cui, appena ho un'oretta libera,
mi pianto davanti al pc e mi obbligo a scrivere. Spero che questo capitolo sia stato di vostro gradimento.
Alla prossima, buon proseguimento dell'ultima settimana d'inferno.
Ed in bocca al lupo per chi ha la maturità. FORZAAAAAAA
Harryette
  
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