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Autore: Malvagiuo    02/06/2015    1 recensioni
Racconti fantasy che narrano le gesta dei grandi uomini del popolo valigero, devoto a Yngrun, il Dio Drago, Signore delle Creature.
Figlio del fuoco - Un'oscura maledizione perseguita Rolgar, un demone fatto di fuoco e sofferenza che si annida dentro di lui e lo tormenta da quando è nato. La fuga dal villaggio sembra l'unica speranza di una vita migliore, ma c'è chi non è disposto a lasciarlo andare via, qualcuno che cova rancore, e che farà quanto è necessario per fermarlo. Quando una maledizione cessa di essere tale e si trasforma in opportunità?
La volontà del Dio Drago - La vita di Astyr viene distrutta nel modo più tragico: i temuti razziatori devastano il suo villaggio e uccidono sua moglie. Resta solo il figlio Volfin nella sua esistenza, ma Astyr non intende correre il rischio di perdere l'ultima cosa che gli rimane. Un potere oscuro è in agguato, un potere che si alimenta di dolore e di desiderio di vendetta, che può persuadere Astyr a cedere la propria anima in cambio del più terrificante dei poteri.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Astyr osservò Volfin seduto di spalle sul bordo dell’abbeveratoio. La schiena curva, il capo chino, i capelli sciolti che ricadevano sulla nuca. Per qualche oscuro motivo, quella vista gli impedì di procedere oltre. Si sentì la testa completamente vuota. Gli parve di non avere nulla di significativo da dire a suo figlio prima di congedarsi. Aveva preso la sua decisione, niente l’avrebbe fatto vacillare. Fece appello al proprio coraggio e costrinse i piedi a staccarsi da terra.

«Volfin, figliolo...»

«Perché vai via?»

La voce di Volfin non era incrinata dal pianto, o scossa dai singhiozzi. Al contrario, era ferma e glaciale, impregnata di tutta la rabbia che poteva contenere il cuore di un bambino di otto anni. Astyr sentì un pesante fardello gravargli sul petto. La mano destra cominciò a tremare, senza spiegazione. Lentamente, si avvicinò al bambino e gli si sedette accanto.

«Devo farlo.»

«Ma perché?»

«Perché amavo la mamma, e non posso perdonare chi le ha fatto del male.»

«La mamma non avrebbe voluto che mi lasciassi solo. Portami con te!»

Astyr sentiva la propria voce impastata, articolare le parole diventò difficile.

«Non posso, Volfin. Non posso e basta.»

Il labbro inferiore di Volfin cominciò a tremolare, ma i suoi occhi rimasero asciutti. Il piccolo si sforzava con tutto se stesso di non cedere, di non piangere.

«Prima la mamma, e adesso anche tu. Io che cosa faccio?»

«Tornerò presto, Volfin. Non ti abbandonerò mai.»

Ma Volfin si era già alzato, allontanandosi con passo rabbioso. Astyr rimase seduto, voltandosi a guardarlo. Voleva alzarsi e corrergli dietro, abbracciarlo e dirgli che non sarebbe partito, che sarebbero saliti insieme su quelle maledette navi e avrebbero cercato una nuova casa. Immaginò Volfin sciogliersi in lacrime contro la sua spalla, felice che il padre rimanesse con lui e lo consolasse della perdita della madre. Ma Volfin continuò ad allontanarsi, e lui continuò a rimanere seduto, in silenzio, senza fare nulla.

Rimase in quella posizione a lungo, circondato da rovine incenerite e dal tanfo di bruciato ancora presente, in quel luogo che fino a pochi giorni prima era la sua casa.

 
***
 
Astyr aveva sperato di trascorrere le ultime ore prima della partenza in compagnia di suo figlio, ma Volfin era fuggito nei dintorni del villaggio, una terra piena di boschi e anfratti, che il bambino conosceva molto bene. Non sarebbe mai riuscito a trovarlo prima dell’alba.

«Ritornerà, Astyr. Non è di lui che mi preoccupo» aveva detto Gîrkal, appoggiandosi al bastone. Astyr era di fronte a lui sulla battigia, in procinto di salpare sulla barca da pesca.

«Sono stato io a fabbricarti questo guscio di noce, vent’anni fa» mormorò il vecchio, accarezzando con la mano ustionata la superficie di legno liscia e sbiadita. «Se avessi saputo dove l’avresti condotta, l’avrei fatta a pezzi seduta stante.»

«Ma ora è troppo tardi» rispose Astyr, con un sorriso mesto sulle labbra.

«Ma ora è troppo tardi» confermò Gîrkal, scuotendo la testa. «Vecchio amico, presta fede a quello che ti dico. Il Dio Drago non consegue i nostri fini, ma i propri. Se mai ti concederà qualcosa – e prego perché non lo faccia –, il suo favore avrà un prezzo, un prezzo enorme.»

«Lo so bene. Gli darò quello che vorrà.»

«È questo che mi preoccupa, Astyr. So che lo farai.»

 
***
 
Le acque erano placide, il viaggio di Astyr procedette senza intoppi. Era come se il Dio Drago volesse facilitargli il percorso fino alla propria dimora. Astyr non sapeva se interpretare ciò come un segnale del favore del dio o come qualcosa di più sinistro.

Sbarcò la sera stessa, tirò in secca la barca e si guardò intorno. L’oscurità avvolgeva buona parte dell’isola, ma fulgidi bagliori rossastri divampavano sui fianchi della montagna, ruscelli infuocati che scorrevano con una sinuosa immobilità. Aguzzando le orecchie, Astyr percepì il tetro gorgoglio della lava che scivolava verso i crateri dell’entroterra. Sarebbe stato saggio attendere la luce del giorno, per cercare la strada attraverso i ripidi sentieri che conducevano alla valle di fuoco. Ma Astyr non poteva più attendere.

La terra era calda sotto i suoi piedi. La scarna vegetazione presto lasciò il posto a un selciato duro e brullo, inframmezzato da alberi spogli e montagnole di sabbia fumante. Man mano che si addentrava nel cuore dell’isola, Astyr percepì un netto cambiamento nell’aria che respirava. L’aroma salmastro della sponda era stato sostituito da una coltre di nebbia fuligginosa, permeata da un forte odore di zolfo. Astyr fu costretto a coprirsi la bocca e le narici con un lembo del proprio vestito, mentre gli occhi cominciavano a lacrimare. Continuò ad avanzare per tutta la notte, seguendo le rive fiammeggianti dei fiumi di lava.

La mattina dopo, raggiunse il tempio. Non era una costruzione eretta dall’uomo, ma era impossibile non notare la sua diversità rispetto al resto del paesaggio. Due alberi giganteschi stagliati contro il cielo, ritti nonostante fossero morti, costeggiavano l’ingresso a un avallamento che sprofondava nel terreno. Sul fondo della conca, un lago di lava rossa come sangue, dove non si immetteva alcuno dei rivoli di fuoco provenienti dal vulcano.

L’Occhio di Yngrun.

Come ogni uomo del popolo del drago, Astyr ne conosceva l’esistenza, anche se non avrebbe mai pensato di trovarsi un giorno al suo cospetto. Ancora indeciso se avvicinarsi, i suoi piedi si immobilizzarono quando vide una sagoma muoversi nel fondo della conca, lungo il bordo frastagliato che costeggiava l’Occhio. Una figura nera e ricurva, avvolta nell’ombra, si muoveva cautamente, come un animale sorpreso in trappola nella propria tana.

«Chi è là?» domandò Astyr, con una nota di nervosismo nella voce.

La creatura non rispose. Lentamente, scivolò fuori dalle ombre e il suo aspetto fu delineato dal bagliore rossastro del fuoco liquido. Astyr comprese che doveva trattarsi di un uomo, ricoperto di stracci neri e ridotti a brandelli. Una cappa dai bordi sfrangiati gli celava il volto, il resto del corpo era molto magro e annerito da strati di cenere. Astyr ebbe la sinistra impressione di uno scheletro dalle cui ossa penzolavano i residui carbonizzati della propria carne.

La creatura gli si avvicinò furtiva, strisciando come un verme. Astyr indietreggiò di qualche passo. Sebbene gli ispirasse perlopiù repulsione, un moto di pietà si fece largo nel suo cuore. Era un essere debole, provato dagli stenti e senza dubbio legato in qualche oscura maniera al Dio Drago.

Di colpo, una rivelazione si fece strada nella sua mente.

«Tu sei Igridyne.»

La creatura sollevò lo sguardo. Nel viso oscuro celato dalla cappa, Astyr scorse due occhi vacui, grigi come perle. Nessuna voce gli rispose.

«Capisci quello che dico?»

Dalla cappa non giunse alcun suono. Igridyne tuttavia rimase immobile, rinunciando ad avvicinarsi oltre. Il suo sguardo cieco rimase fisso su Astyr, mentre il resto del suo corpo indebolito rimaneva paralizzato.

Che cosa sei venuto a richiedere?

Un brivido scorse lungo la schiena di Astyr. Quelle parole non erano state prodotte da una bocca, ma le aveva sentite echeggiare nella propria mente. Era una voce che non apparteneva né a una donna né a un uomo, sembrava che qualcuno gli stesse parlando da molto lontano, attraverso una folata di vento gelido. Ricordava la voce di un essere umano, eppure ne differiva sotto ogni aspetto. Astyr non sapeva descriverla, poiché non aveva mai udito niente del genere. Esitò a lungo prima di parlare a sua volta.

«Desidero trovare l’uomo che ha ucciso mia moglie e distrutto il mio villaggio» disse, inginocchiandosi.

Cosa offri, Astyr di Drokval?

«Qualunque cosa desideri da me è tua.»

Igridyne ruppe la propria immobilità. Si sollevò in piedi, rimanendo inclinata da un lato, come se la schiena fosse spezzata in più punti.

Ti ho aspettato a lungo. Entra.

Astyr non ebbe bisogno di domandare a cosa si riferisse. Si spogliò e avanzò fino al bordo dell’Occhio. Il calore era insopportabile.

«È il mio sangue che è richiesto? Se è così, lo accetto. Ma in seguito sarò in grado di fare ciò che devo?»

Igridyne rimase immobile e silenziosa. Astyr pregò per una risposta, un cenno, qualunque cosa che potesse placare i suoi timori. Ma dalla vecchia ricevette solo un cupo mutismo. Non si sarebbe mossa e non avrebbe proferito parola, prima dell’offerta. Astyr esalò tutta l’aria che aveva nei polmoni e si gettò nel lago.

Sarai in grado di fare ciò che io mi aspetto che tu faccia.

 
***
 
Volfin sollevò la mano sopra gli occhi, riparandoli dalla luce abbagliante di mezzogiorno. Il mare era terso e rifletteva bagliori argentei, producendo una morbida sinfonia di scrosci e risacche sulla spiaggia. Nessuna barca all’orizzonte, nemmeno quel giorno.

Ormai venti giorni separavano Volfin dall’ultimo ricordo del padre. Poche ore dopo la sua partenza, una fitta di dolore aveva cominciato a gravare nel suo petto. Astyr era tutto ciò che gli rimaneva, e una cieca rabbia gli aveva impedito di fare ciò che veramente avrebbe voluto: abbracciarlo ancora una volta, baciarlo, supplicarlo di non partire. Ma non lo aveva fatto, se n’era andato senza voltarsi. E così Astyr.

Sarebbe tornato presto? La mancanza si faceva sempre più insopportabile. Il vecchio Gîrkal tentava di tenerlo impegnato in ogni modo, ma il pensiero del piccolo ritornava sempre al genitore, disperso chissà dove in mezzo all’oceano. Forse, già sul fondo del mare, assieme ai relitti di centinaia di altri uomini. Volfin scrollava la testa ogni volta, nel furioso tentativo di liberarsi di quell’immagine così opprimente.

«Tuo padre tornerà presto» gli ripeteva ogni volta Gîrkal, ma ormai Volfin aveva imparato a decifrare il tono nascosto nella sua voce. Una triste rassegnazione covava dietro le parole del vecchio pescatore sfigurato.

Volfin si incamminò verso il villaggio. Molte capanne erano state ricostruite, ma i ruderi di quelle vecchie adombravano ancora il paesaggio, ricordando a tutti una ferita ancora aperta, rinnovando una paura mai sopita. Avanzando lungo i sentieri anneriti in mezzo alle case, Volfin si imbatté in un gruppetto di uomini che discutevano in toni concitati. In mezzo a loro c’era Gîrkal, che sembrava l’unico a non partecipare alla conversazione. Le voci erano così alte che Volfin non ebbe bisogno di avvicinarsi oltre per ascoltare i loro discorsi.

«Le isole a est sono in fiamme, le ho viste!»

«Non ci sono villaggi, laggiù.»

«Non è quello che ho sentito. C’è chi dice che sia proprio lì il rifugio dei razziatori!»

«E quindi? Vorresti dire che adesso i razziatori bruciano le loro stesse basi?»

«Assurdo» si intromise una voce.

«Impossibile» fece coro un’altra.

«Voglio dire» riprese parola l’uomo dal tono più euforico, che era appena stato interrotto «quelle isole appartengono ai razziatori, no? Per arrivarci, bisogna costeggiare Drokval, giusto? Sì, perché oltre le isole a est non c’è terra per migliaia di leghe! Quindi, chiunque abbia messo a ferro e fuoco le basi dei razziatori dev’essere passato davanti alla nostra isola senza sbarcare, altrimenti ci saremmo accorti dell’intruso. Questo che cosa vi dice?»

«Che quel qualcuno è cieco?»

Brevi risate proruppero dagli ascoltatori, eccetto che da Gîrkal e dall’uomo che era stato interrotto per la seconda volta, che finalmente Volfin riconobbe come un tale chiamato Beru.

«Vuol dire che qualcuno ha attaccato i razziatori e lasciato in pace noi!»

«Chi ti dice che i razziatori siano stati attaccati? Magari è stato solo un incendio...»

«Certo!» esclamò Beru, sarcastico. «Un incendio naturale su isole dove non ci sono foreste, propagato attraverso l’acqua da un’isola all’altra, dopo tre giorni di pioggia ininterrotta. Sul serio, Jorik, se fossi un po’ più acuto riusciresti a trovarti il buco del culo senza aspettare di dover cacare.»

Jorik non prese bene il commento di Beru, e quella che fino a un attimo prima era una conversazione animata degenerò in una rissa. Quando il primo pugno di Jorik si infranse contro il mento di Beru, Gîrkal si era già allontanato. Un’espressione dubbiosa aleggiava sul suo viso. Gli occhi erano rivolti verso terra, la fronte aggrottata, tormentata da chissà quali pensieri. Volfin gli si avvicinò, desideroso di sentire la sua opinione.

 
***
 
La dimora di Gîrkal era un luogo accogliente, benché spoglio di qualsiasi comodità. All’interno della piccola capanna trovavano posto solo un pagliericcio, un rudimentale tavolo di legno e una mensola sulla quale erano stipati tutti gli averi del vecchio pescatore. Le riserve di cibo erano seppellite nel rifugio scavato al di sotto del pavimento, una pietra piatta dove accendere il fuoco e cucinare era disposta all’esterno, a una decina di passi di distanza.

«Che cosa voleva dire Beru?»

Volfin fremeva d’impazienza. Aveva già intuito quello che potevano significare le parole che aveva udito, ma preferiva che fosse Gîrkal a fornire un’interpretazione. Il piccolo rispettava l’anziano amico di suo padre, anche se sapeva molto poco di lui.

«Difficile dirlo» disse Gîrkal, cedendo ad Volfin il proprio posto sul pagliericcio, mentre lui si accomodava sul nudo pavimento. «Forse nulla... forse tutto.»

«Spiegati. Per favore.»

«Sono dell’idea che Beru ha espresso, pur nella sua rozza maniera, in modo chiaro: dubito anch’io che l’incendio che i pescatori hanno visto a est sia dovuto a una causa naturale. Ma non saprei dirti di più.»

«Menti, Gîrkal. Non sei bravo a dire bugie.»

«Deve essere vero, visto che non riesco a mentire a un bambino» disse Gîrkal, mentre un sorriso amaro si delineava sotto i folti baffi grigi. «Vuoi sapere se credo che tuo padre sia coinvolto in questo strano episodio? Ebbene sì, lo temo.»

«Ma questo vuol dire che papà è vicino! Sta tornando a casa!»

Gîrkal non ribatté. Il sorriso era di nuovo scomparso dalle sue labbra. Un’espressione angosciata si dipinse sulla sua faccia, rendendo evidente il suo sconforto. Nonostante la tenera età, un simile cambiamento non sfuggì ad Volfin, che ne avvertì la gravità.

«Perché sei preoccupato, Gîkki? Non vuoi che mio padre torni a casa?»

«Lo vorrei eccome, se significasse incontrare lo stesso uomo che era partito» sospirò il vecchio. «Ma tuo padre ha scelto un cammino senza ritorno. Giovane Volfin, io vorrei davvero risparmiarti i giorni che verranno, se fosse in mio potere. Ma devi essere preparato, per questo ti racconterò quello che so.

«Astyr è andato incontro al Dio Drago, si è immerso nel suo fuoco per riceverne la benedizione, un dono che ai più viene rifiutato. Lo so perché anche io, spinto dall’ardore della mia gioventù, cercai quel potere. Osserva ciò che ritornò da quell’isola.»

Volfin conosceva da sempre il vecchio Gîrkal, ma prima di quel momento si rese conto di non averlo mai guardato davvero a fondo. Per lui Gîkki era una figura esistente da sempre, qualcosa di cui non si poteva fare a meno, impossibile a immaginare in maniera diversa. Vederlo sotto una luce diversa era uno strano esercizio, era come immaginare l’aspetto della pianura che aveva preceduto l’ascesa delle montagne verso il cielo. Per la prima volta, Volfin si rese conto che Gîrkal un tempo doveva essere stato un uomo come suo padre, vigoroso, forte e agile. Qualcosa che non aveva nulla a che fare con il gracile vecchietto deforme che gli stava seduto di fronte sul pavimento di paglia, dalle pelle bruciata, le dita delle mani scomparse e gli occhi profondamente incavati nelle orbite. D’un tratto, Volfin ebbe paura per suo padre.

«Il mio corpo è stato distrutto, ma fui fortunato. Mi rimase la vita. Una vita mia» sottolineò Gîrkal. «A una donna che viaggiava con me non fu concessa una simile grazia. Sopravvisse al contatto del fuoco, a differenza di molti altri, e fu scelta. Di lei, su questa terra, rimase solo il corpo a testimoniarne l’esistenza. La volontà che lo guidava, i desideri che lo muovevano, non le appartenevano più.»

«Io non capisco.»

«Dalle Fauci gli uomini non tornano vivi. Non davvero. Spero che non sia successo a tuo padre.»

«Ti riferisci ai Non-Morti? Mio padre ha detto qualcosa su di loro.»

Gîrkal fissò il bambino con uno sguardo ormai vitreo.

«Se tuo padre è diventato uno dei Non-Morti del Dio Drago, non voglio vivere tanto a lungo da rivederlo.»

«Mi fai paura.»

«Io ho avuto paura ogni giorno della mia vita, da quando ho lasciato quell’isola.»

 
***
 
Quando il suono della campana echeggiò nell’aria, Volfin comprese immediatamente cosa significava. Navi all’orizzonte. Il terrore si diffuse nel villaggio a macchia d’olio, uomini e donne correvano a raccogliere le poche armi rimaste dopo l’ultimo assalto dei razziatori. Volfin udì bambini piangere, vide il panico negli occhi degli adulti. In mezzo alla confusione crescente, solo un vecchio rimase fermo e composto, come se le vicende del mondo ormai non fossero più cose che lo riguardassero. Gîrkal scrutava gli uomini affannarsi per approntare una difesa, gli occhi stanchi, lo sguardo perso nel vuoto.

«Moriremo, Gîkki?»

Le parole di Volfin lo ridestarono dal torpore.

«Forse. Ma non sarebbe la cosa peggiore.»

«E cosa c’è peggio della morte?»

«Non lo so. Ma sento che qualcosa c’è.»

Il sole volgeva all’imbrunire quando le navi toccarono la terra di Drokval. Per tutto il giorno gli abitanti avevano fissato quelle imbarcazioni avvicinarsi alla riva, ondeggiando sulla cresta limpida dell’acqua, indecifrabili nei loro contorni neri e frastagliati. Le vele erano nere, ma non si trattava di una tintura, come avevano creduto da lontano: si trattava di macchie di cenere, e alcune non erano nemmeno nere. C’erano chiazze di un colore rosso scuro, una sfumatura sporca che ricordava sangue incrostato. I razziatori remavano senza sosta, spingendo in avanti le navi come se i tentacoli di Hyddraval li inseguissero per affondarli.

«Non è trascorsa nemmeno una luna!» gridarono delle voci. «Perché tornano? Si sono già presi tutto! Cos’altro sperano di trovare?»

Ma quelle domande non avevano importanza. Il nemico si avvicinava e non potevano respingerlo. Aste e coltelli non potevano nulla contro le corazze di cuoio e le asce dei razziatori. Raggruppati al confine della spiaggia, il villaggio osservò gli uomini che mettevano piede sulla costa.

Non erano i razziatori ai cui assalti erano abituati. O meglio erano loro, ma mai visti prima sotto un simile aspetto. Non c’erano corazze o elmi a proteggere i loro corpi, non portavano spade né asce. Molti di loro erano nudi, altri indossavano una semplice tunica ridotta a brandelli. Tutti erano ricoperti di fuliggine, gli occhi due cavità bianche in mezzo a volti distrutti dalle fiamme, alcuni privi di mani, braccia o gambe. Non parlavano, non emettevano versi. Barcollarono sulla spiaggia, stremati dalla fatica del viaggio, ma nessuno di loro crollò a terra, benché fosse chiaro che non desiderassero altro.

«Chi sono?» sussurrò Volfin, osservando impaurito le sagome di quegli uomini macilenti.

Gîrkal non rispose. Il suo sguardo spaziava da uno all’altro di loro, come alla ricerca di un volto conosciuto.

I razziatori, o quello che di loro era rimasto, rimanevano sulla spiaggia, sorvegliati a debita distanza dagli abitanti di Drokval. Erano in piedi, curvi come a sostenere un fardello, gli occhi fissi sui piedi, tremanti. Erano rivolti verso una nave ancora in acqua, che si avvicinava rapidamente. L’imbarcazione non era diversa dalla decine di altre che l’avevano preceduta, eppure i razziatori la attendevano come se portasse un carico preziosissimo. Lo scafo urtò contro il fondale, a un gruppetto di derelitti a terra vennero lanciate le cime affinché tirassero in secca il resto della barca. Quando questa fu assicurata sulla spiaggia, altri uomini sbarcarono, in condizioni del tutto identiche a quelle dei compagni prima di loro.

Poi sbarcò qualcun altro, e sia Volfin che Gîrkal compresero di chi si trattasse.

Il volto e il corpo erano nascosti, ma l’uomo che era approdato a Drokval con un seguito di razziatori non poteva essere altri che Astyr. Indossava una maschera di cuoi priva di qualsiasi carattere distintivo, salvo due fori per gli occhi, oltre i quali non si scorgeva nulla. Un mantello e un cappuccio di stoffa bagnati era tutto ciò che lo ricopriva, celando ogni parte di lui. Volfin, nel vederlo, fu scosso da una strana sensazione. Aveva percepito immediatamente chi si nascondeva dietro quella maschera inquietante, ma ciò non bastava a cancellare il senso di paura che suo padre ora gli incuteva. Era lui, eppure al tempo stesso era qualcuno di totalmente estraneo.

«Papà...»

Astyr si rispose. Si avvicinava con passo sicuro, ma lento, come se con ogni movimento dovesse spostare un oggetto particolarmente pesante.

D’un tratto, furono circondati da grida. Volfin e Gîrkal si guardarono intorno. La gente del villaggio era impazzita, colse lo sguardo di orrore sui volti delle persone, udì le loro parole sconnesse. Astyr cercò intorno la ragione di quel comportamento, ma vide solo suo padre, gli uomini che lo avevano seguito e nient’altro. Non c’era niente che giustificasse quell’accesso di follia.

In breve, Volfin e Gîrkal rimasero soli, mentre il villaggio fuggiva urlando da qualcosa che i due non capivano.

Astyr, il volto coperto, avanzava silenzioso tra due ali di rematori, inginocchiati o prostrati al suo passaggio. Alcuni erano scossi da sussulti. Tutti tremavano. I piedi erano l’unica parte del corpo scoperta, affondavano nella morbida sabbia del bagnasciuga, due appendici nere e scheletriche che fecero gelare il sangue nelle vene di Volfin.

«Papà!» gridò Volfin.

Avrebbe voluto corrergli incontro, ma qualcosa lo tratteneva. Di sbieco, Volfin si era accorto della rigidità di Gîrkal, un vecchio cacciatore all’erta in prossimità di un grave pericolo. Ma non era solo questo: Volfin, pur nella sua tenera età, intuiva la presenza di qualcosa di anomalo, di malvagio, nella presenza che si avvicinava sempre più.

Un sussurro rimbombò nella sua mente.

Vieni.

Volfin rimase immobile. Era sicuro di aver sentito quelle parole, ma da dove provenivano?

Vieni, figlio.

Volfin guardò davanti a sé. Non c’era nulla, oltre i fori in quella maschera di cuoio nero. Solo ombra e oblio.

«Papà, sei tu?»

La figura si arrestò, imponente. Astyr era alto, ma non era mai sembrato così minaccioso. Volfin indietreggiò. Nulla si muoveva nell’aria o nei dintorni. Le grida degli abitanti del villaggio si erano spente in lontananza. L’unico suono era lo sciabordio delle onde e il lento, ossessivo mugolare degli schiavi che Astyr si era trascinato dietro da chissà dove.

Senza che Astyr pronunciasse una parola, due dei derelitti alle sue spalle si mossero e trascinarono al suo cospetto qualcosa. Da lontano, Volfin e Gîrkal credettero che si trattasse di un mucchio aggrovigliato di stracci. Quando fu sotto i loro sguardi, videro che era un uomo. Ciò che restava di un uomo. Non aveva più arti, la pelle era completamente bruciata, la testa calva, le membra tremolanti. Un rantolo di agonia sibilava fuori da quella che un tempo era la sua bocca.

Gîrkal si soffermò a guardare quell’essere moribondo. I suoi occhi si riempirono di una profonda tristezza.

Uccidilo.

Volfin sollevò lo sguardo e fissò sgomento la maschera senza espressione.

«Perché?»

Costui è il motivo per cui mi sono allontanato da te. 

Il bambino osservò di nuovo la creatura mutilata abbandonata ai suoi piedi.

«È lui ad avere ucciso la mamma?»

Sì.

«No, Astyr» intervenne Gîrkal. Astyr rimase immobile. Non diede segno di aver udito le parole del vecchio. «Hai cercato vendetta, e l’hai trovata. Non coinvolgere tuo figlio in questo orrore.»

«Non voglio farlo, papà. Ti prego, non voglio farlo.»

Uccidilo.

«Astyr, vecchio amico, ascoltami» disse Gîrkal, sforzandosi di non zoppicare e frapponendosi fra Volfin e suo padre. «Abbandonarti al Dio Drago è stata una tua scelta. Non puoi trascinare anche tuo figlio in questa...»

Volfin non seppe mai in cosa Gîrkal temesse che suo padre lo stesse trascinando. Ma un’idea molto nitida la ricevette da quello che accadde subito dopo. La pelle del vecchio cominciò a emettere fumo. I radi capelli bianchi si incenerirono e scomparvero, soffiati via da un vento caldo di provenienza ignota. E poi, di colpo, il fuoco. Un vortice di fiamme esplose a pochi passi dal bambino, inondandogli il volto con il proprio calore bruciante. Le fiamme avvolgevano Gîrkal, consumando la sua carne e le sue parole. Il vecchio crollò sulla sabbia, ridotto a poco più di un cumulo di cenere, lasciando Volfin solo di fronte a suo padre.

Il bambino sentì morire ogni parola in gola. Si accasciò al suolo, l’orrore dipinto in volto, gli occhi fissi sui resti di Gîrkal.

Uccidilo, figlio mio.

Volfin trovò la forza di scuotere il capo.

Ti prego.

Nonostante il terrore, Volfin percepì una supplica nella voce che gli parlava dentro.

«Non lo farò. Non ce la faccio.»

L’uomo mascherato si avvicinò di più. Si piegò verso di lui.

Uccidilo. Ti prego. Ti imploro. Uccidilo.

Volfin guardò attraverso i due fori nella maschera. Trovò il coraggio per porre la richiesta che non osava fare.

«Non lo farò, se a chiedermelo è un uomo mascherato. Solo mio padre, guardandomi negli occhi, può chiedermi di farlo.»

Non c’è niente di me, dietro questa maschera. C’è solo una voce.

«Allora è la voce di un morto che mi parla. Non posso uccidere perché è un morto a ordinarmelo.»

Volfin seppe di essersi spinto troppo oltre. Percepì la furia di un’entità misteriosa vibrare attraverso l’aria, tanto che la avvertirono anche gli oscuri servitori dell’uomo mascherato, che presero a urlare e nascondersi la testa tra le mani adunche.

Volfin chiuse gli occhi, non osando sostenere oltre la presenza fisica della creatura che un tempo era suo padre.

Calore. Vento. Onde che si infrangevano sulla spiaggia. Un crepitare roboante di fiamme.

Passò molto tempo prima che Volfin riaprisse gli occhi. Dinanzi ai suoi occhi, corpi senza vita bruciavano immobili sulla spiaggia, mentre le navi, in fiamme, affondavano lentamente nell’acqua bassa. Dell’uomo mascherato non c’era traccia.

 
***

Le navi furono pronte in meno di una settimana. Nessuno era disposto a restare oltre sull’isola. La minaccia dei razziatori era finita, ma questo non importava. Anche se era impossibile da spiegare a livello razionale, tutti percepivano qualcosa di diverso aleggiare sulla loro terra, un cambiamento che coinvolgeva tutti, la cui natura non poteva essere definita. C’era pace sull’isola, ma era una pace di morte, una sensazione con la quale nessuno riusciva a convivere. Volfin comprendeva più di tutti, ma non sapeva rivelarlo ai grandi. Gîrkal ci sarebbe riuscito, ma non poteva più farlo. Lo aveva seppellito il giorno stesso della venuta dell’Uomo del Mare, come a Drokval era stata chiamata l’oscura creatura che era giunta sui quei lidi. La mattina della partenza, Volfin si fermò a guardare la sua casa, la tomba di sua madre. La sua fine aveva portato sulla sua famiglia una sciagura ben più grande di quanto si potesse immaginare. Gîrkal giaceva sulla spiaggia, poco più lontano. Di suo padre, non c’erano notizie. Ovunque fosse, Volfin pregava perché la tomba in cui si era calato con le proprie mani non fosse troppo oscura, e riuscisse a ritrovare la luce della superficie.

La nave salpò, veleggiando sul mare placido, verso il sole nascente.




NOTE AUTORE
Eccoci alla fine del racconto. Spero che lo abbiate gradito, voi impavidi che l'avete letto fino alla fine. Concludo le note con un breve ringraziamento e un augurio di rivedervi presto! 
   
 
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