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Autore: Kiki S    06/06/2015    1 recensioni
"Inverni dello stesso sangue" è una raccolta composta da cinque racconti, tutti accomunati dagli stessi punti chiave: il rapporto tra le sorelle e le stagioni fredde, le quali fanno da contorno alle singole vicende.
Ogni storia è un piccolo mondo che si snoda attraverso ricerche disperate, sogni coperti di polvere e, a volte, realtà incomprese e afferrate troppo tardi.
Ad accompagnare tutto questo solo il vento, la neve, il gelo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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LA CHIAVE DI PEZZA
 
I
 
LAURIE
 
Ciò che a Laurie più sembrava incredibile della neve, era il silenzio che produceva; un silenzio attrattivo e cullante. Ipnotico, si potrebbe dire.
Quella della neve che cadeva era la visione più rilassante che potesse esistere, e anche la più magica.
Sua madre le aveva detto di non allontanarsi dal cortile, ma si sa, i bambini sono fatti per disobbedire e Laurie, dall’innocenza dei suoi cinque anni, non faceva eccezione.
E poi quella neve era così soffice, così bianca e cristallina, che era stato impossibile per lei non lasciarsi travolgere dal suo richiamo insistente.
Sì, perché in quel silenzio esisteva un richiamo che spinge ad andare avanti, a voler scoprire se, lì dove non si arriva con gli occhi, la distesa bianca sia sempre la stessa, sempre uguale, oppure abbia un punto di fine; ma vista dalla sua posizione, la neve per Laurie sembrava coprire il mondo intero, non poteva esistere un luogo che non fosse baciato da quella coltre di ghiaccio.
La neve però era anche proibita: non poteva essere toccata con la mano nuda, e nello stesso modo sembrava custodire un segreto, quasi la risata trasparente dei giochi d’inverno di bambini ormai troppo cresciuti. La neve ricopre il passato, ma non lo cancella.
Così Laurie si era allontanata quasi senza pensare, seguendo quella melodia inudibile e quel senso di magico mistero che la attraeva come una calamita.
Era splendida la neve; era un sogno.
Indossava il suo cappottino rosso; anche cappello e guanti di lana erano rossi. Il rosso è il colore perfetto per il giorno di Natale.
Ma quel rosso si stava tingendo di bianco, perché i fiocchi cadenti dal cielo non sembravano intenzionati a demordere; pareva davvero che volessero scendere in eterno.
Cadevano e danzavano sulle note silenti di una risata appena accennata; e sul fruscio prodotto da quelle scarpette che avanzavano ormai completamente sepolte.
Laurie aveva freddo ai piedi: le si stavano congelando, perché la neve era penetrata nelle calze e si era fatta acqua gelida. Stava quasi pensando di tornare indietro; forse la mamma si era accorta della sua assenza, forse si stava preoccupando e, peggio ancora, arrabbiando parecchio.
Laurie non ci teneva proprio a prendersi una bella sculacciata il giorno di Natale e, poco ma sicuro, una bella pacca sonora sul didietro non gliel’avrebbe tolta nessuno se sua madre avesse perso le staffe, nemmeno Babbo Natale in persona con tutte le renne.
Sua madre Samantha era molto severa riguardo a questo genere di cose.
Generalmente era solo Leyla a prendere le sue difese, ma quel giorno sua sorella aveva preferito restare a casa con papà; lei non voleva mai andare a casa della zia, Laurie non sapeva bene perché. Anzi, non ne aveva proprio idea; non glielo aveva nemmeno mai chiesto.
Comunque stessero le cose, e nonostante ciò che la sua mente tentava invano di dirle, Laurie seguitò per la sua strada, dimenticandosi persino del pericolo – sculacciata.
Diventava sempre più difficile muoversi tra la neve: i fiocchi continuavano a cadere sempre più fitti, sempre più insistenti, e poi ora ci si era messo anche il vento, che ululando e agitandosi la respingeva indietro, come un guardiano posto dinanzi a una porta che non debba essere aperta.
Una porta che custodisca un segreto.
Ma quella curiosità interiore che non era vera curiosità, quell’attrazione indefinibile, le imponeva di sfidare quel guardiano immaginario perché si convincesse a lasciarla passare, anche con le cattive.
Un passo, due, tre. I piedi ghiacciati le facevano male e poi era così difficile andare avanti.
Lasciò che le ginocchia le si piegassero, e stancamente si sedette sulla coltre fredda e immacolata.
Si guardò intorno mentre si stringeva nelle braccia per via del gelo. Quanto si era allontanata? Ricordava ancora come raggiungere la casa della zia? Le sembrava di sì ed era quasi sicura che quel puntino in fondo in fondo, quello piccolo e marroncino, fosse proprio la sua dimora.
Sorrise tra sé e sé sentendosi rassicurata poi alzò lo sguardo al cielo, mentre con la manina ricoperta dal guanto sfiorava la neve in una soffice e inconsapevole carezza.
Socchiuse gli occhi quando la fitta tempesta bianca le si abbatté in viso; il vento che soffiava tutto attorno a lei sembrava quasi una melodia, una musica nostalgica propria dei tempi andati e a Laurie piaceva immaginare che l’inverno potesse durare per sempre.
Perché la stagione più fredda è la culla del cuore e delle sensazioni inafferrabili, e la neve è il loro lenzuolo.
Fu quasi senza accorgersene che aprì le labbra come per accogliere quei fiocchi cadenti, come se volesse sentirne il sapore, ma appena questi le si posavano sulla lingua subito si scioglievano, senza soddisfare la sua curiosità. Perché no? Si domandò allora. Non può far male. E con il guantino rosso sollevò un pugno di neve e se lo avvicinò alla bocca.
Lo addentò quasi fosse una mela o qualunque altro frutto gustoso e lasciò che il suo succo immaginario le colasse fin sotto il mento.
Quando inghiottì si rese conto che non era stato un granché: la neve era insapore e finiva con il far dolere qualche dente sensibile, però l’idea di assaggiarla era stata irresistibile.
Fu per questo motivo che la morse di nuovo, poi ancora, e un’altra volta.
Le veniva da ridere di se stessa, perché nonostante quel gioco fosse privo di senso non riusciva proprio a dissuadersi dal farlo.
La neve era un paradiso; sì, se davvero esisteva quel luogo, doveva essere ricoperto di neve, più che pieno di nuvole.
Anche perché non serviva avere sei anni, e quindi andare alle elementari, per capirlo: camminare sulla neve era possibile (anche se a volte un po’ difficile), ma sulle nuvole … diciamo che non era probabile.
Con la manina infreddolita afferrò un’altra manciata di neve, ma quasi subito la lasciò ricadere e rimase per qualche istante a osservare quella zampa di pezza che fuoriusciva dalla coltre bianca.
Era sorpresa, affascinata, ammaliata. Ma aveva anche un po’ di paura.
Le sembrò d’un tratto che il canto del vento si facesse più forte e più lugubre e avvertì un brivido.
Dopo qualche istante di stordimento mosse di nuovo la mano e, anche se un po’ titubante, afferrò quel piede di finto pelo e lo tirò verso di sé.
La neve che ricopriva il pupazzo corse via come se avesse ricevuto l’ordine di dileguarsi.
Laurie lo prese con entrambe le mani e lo guardò: era bianco, anche se forse un tempo lo era stato di più, e a forma di topolino. Le sue orecchie erano grandi e rotonde e dalla bocca sorridente (i topi sorridono? Non l’avrebbe mai detto) spuntavano due dentoni. Laurie li toccò: erano morbidi, di pezza anch’essi.
Il topolino portava un gilet marrone che lo rendeva davvero buffo; Laurie infatti si ritrovò a sorridere. Ma nel fondo del suo sorriso si nascondeva uno strano brivido. Che cosa ci faceva un topolino di pezza sepolto sotto la neve? Che un altro bambino l’avesse perso prima che iniziasse a nevicare? Laurie si guardò intorno, forse sperando che il proprietario del pupazzo si facesse vivo di gran corsa, forse sperando proprio il contrario.
Sorrise di nuovo al topolino di pezza, poi rivolse ancora lo sguardo in direzione del cielo e della neve che da esso continuava a cadere.
Improvvisamente si accorse di avere davvero freddo e, non seppe perché, sentì l’impulso di muoversi verso la casa della zia.
Prima di cominciare a tornare indietro, si infilò il topolino di peluche nella tasca interna del cappotto rosso ormai ricoperto di bianco.
Poi tentò di correre sulla neve candida, mentre il vento sembrava quasi contento di sospingerla lontano da lì.
 
*
 
Arrivata a casa della zia le era toccato fare i conti con la madre disperata. Doveva essere mancata per un bel po’, perché lei si era accorta della sua scomparsa e, in lacrime, era in procinto di chiamare la polizia. La zia cercava di tranquillizzarla, ma pareva non ci fosse verso.
Quando poi Laurie entrò in casa, ormai imbiancata da capo a piedi, Samantha le era corsa incontro visibilmente sconvolta e, dopo i primi baci e abbracci dettati dalla gioia, immancabile era arrivata la sculacciata, più qualche parola detta ad alta voce. Qualcosa tipo: ma si può sapere come ti è venuto in mente? Non devi allontanarti da sola, Laurie. Mai più. Dio, che spavento!
Ma per fortuna la zia si era dimostrata clemente (forse perché era il giorno di Natale) e aveva tranquillizzato la sorella, facendole notare che era tutto a posto, non era successo nulla.
In effetti era così, Laurie non comprendeva molto quella reazione esagerata della mamma, ma immaginò di averla fatta davvero spaventare.
Forse il richiamo della neve attirava a sé soltanto i bambini, solo loro potevano capire.
Comunque fosse, Laurie sistemò meglio il topolino di pezza nella sua tasca, poi si tolse giacca, guanti e cappello.
Non voleva che nessuno vedesse il suo piccolo tesoro; non sapeva perché, eppure le sembrava quasi di aver fatto qualcosa di sbagliato. Il pupazzo era sommerso di neve, ma lei aveva quasi l’idea di averlo rubato, di averlo sottratto a un bambino che in quel momento doveva essere in lacrime.
Era come se se lo fosse preso con la forza, ma sapeva che quella sensazione non aveva senso.
Indirizzò un ultimo sguardo fuori dalla finestra, alla distesa di neve che pareva infinita e mentalmente domandò scusa al legittimo proprietario del topolino, ovunque questo si trovasse, poi si impose di non pensarci più. Dopo essersi scusata con la mamma, questa volta a voce, per la sua marachella, si dedicò al progredire del giorno di Natale.
Aiutò la zia a preparare i biscotti al burro, mise lo zucchero a velo sugli altri dolci (e ne mangiò un po’ di nascosto) e si riempì la pancia a sazietà con le prelibatezze cucinate da zia Sarah.
Ricevette anche i regali da parte della zia (quelli di mamma, papà e Leyla li aveva aperti quella mattina a casa): scartò una bambola vestita di azzurro, un cavallo di pezza e una gonnellina scozzese con i quadri rossi. In Scozia, un po’ d’orgoglio nazionale non mancava mai, specialmente nei giorni di festa.
Per il resto della giornata si era giocato, cantato e ogni malessere sembrava essere stato cancellato. Solo ogni tanto a Laurie pareva che il sorriso della madre si incupisse, e che d’improvviso fosse scossa da un brivido. Forse ripensava alla paura che aveva provato quando non l’aveva più vista nel cortile. A ogni modo, quando Laurie vedeva quello sguardo che si faceva d’un tratto assente, le veniva istintivo rivolgere il proprio fuori dalla finestra, in direzione della neve che non aveva ancora smesso di cadere. E anche lei sperimentava un brivido a quel punto; si trattava solo di una scossa veloce, appena percepibile e svaniva subito. La sentì tre o quattro volte, ma se ne dimenticò, perché non sembrava per nulla importante.
Fuori però la neve continuava a cadere. Soffice, silenziosa, morbida e pacata. Forse anche un po’ insensibile. Laurie si ritrovò a sperare che il topolino di pezza, nella sua tasca interna del cappotto, non cominciasse improvvisamente a squittire.
Perché la bimba aveva l’impressione che questo volesse, dovesse farlo, come se fosse naturale per lui attirare su di sé l’attenzione.
Se la neve doveva essere davvero una porta chiusa e inaccessibile, sembrava che quel pupazzo sorridente e con gli incisivi sporgenti ne fosse la chiave.
Ma no, è solo un topolino di pezza. La tranquillizzò una voce nella sua testa. Solo un topolino di pezza.
Trascorse tutto il pomeriggio a casa della zia; ogni tanto pensava a Leyla e a che cosa questa stesse facendo da sola a casa con papà. Si augurò che anche loro stessero passando un bel Natale, anche se forse la neve non doveva essere così bella, vista dalla finestra del loro appartamento.
Niente a che vedere con un letto bianco tanto grande da sembrare infinito.
Ma forse erano abbastanza felici anche loro. Leyla lo era quella mattina: prima che uscisse con la mamma l’aveva abbracciata e, sorridendole, le aveva detto di comportarsi bene.
Era vero che si era allontanata disobbedendo alla mamma, ma a parte quel piccolo particolare era stata un angioletto.
E poi quella camminata improvvisata sulla neve non era stata una sua idea; le gambe si erano mosse da sole, era stato davvero come essere attratta da una calamita.
Quando finalmente, in serata, salutò la zia e salì in macchina con la mamma per tornare a casa, stava nevicando un po’ di meno, ma a madre e figlia ci volle comunque un po’ per tornare a Edimburgo. Normalmente, a percorrere quei tredici chilometri da Bonnyrigg non si impiegava più di una ventina di minuti, ma quella sera, per via della neve, ci vollero più di due ore.
Sul sedile posteriore, mentre osservava il manto bianco velato dal mistero attraverso il suo finestrino, e tenendo una mano appoggiata sul topolino di pezza nascosto nella sua tasca, Laurie si addormentò.
E fece un sogno.
 
Si trovava sulla neve, così come era avvenuto realmente quel giorno, ma era molto più lontana dalla casa della zia. Non c’era nessun punto marrone nelle vicinanze.
Camminava rendendosi conto di essere lì da ore, senza però ricordare nient’altro che precedesse quel momento.
Il vento soffiava forte e sembrava quasi che parlasse; la sua però era una lingua incomprensibile.
Senza perdersi d’animo e senza piangere (Laurie era una bambina coraggiosa: non piangeva quasi mai) si era fatta coraggio e aveva ripreso a camminare per trovare la via.
Forse quella volta la mamma si sarebbe arrabbiata sul serio se non l’avesse vista arrivare a breve; altro che sculacciata, si diceva la bimba, quella volta ne avrebbe beccate parecchie.
E la prospettiva non era delle migliori.
Eppure era certa di non essersi allontanata da casa di zia Sarah, non quella volta. Era stato qualcos’altro a condurla lì, e l’aveva fatto senza che lei se ne fosse accorta.
Non ricordava niente, ma il pensiero di star dormendo non le sfiorò mai la mente.
Camminava e sentiva la neve che leggiadra le si posava addosso, percepiva chiaramente il freddo gelido penetrarle nelle calze. Stava anche diventando più difficile camminare.
Fu d’improvviso che le sembrò che la neve iniziasse a parlarle. Dapprima si trattò solo di un sussurro, poi la voce cominciò ad alzarsi.
La invitava ad avvicinarsi.
Laurie tese l’udito, anche se era difficile ascoltare con il vento che faceva tutto quel baccano, per assicurarsi che non ci fosse nessun altro lì, ma no, quelle parole provenivano proprio dalla neve che ricopriva il suolo.
-Vieni qui. Vieni Laurie, ti manca poco-. La bambina avrebbe voluto scappare e lasciarsi quella voce alle spalle, ma fu con orrore che si accorse di non poter più indietreggiare.
Era come trovarsi all’interno di una palla di vetro, di quelle ornamentali, con la neve dentro. Esisteva una parete trasparente che non le permetteva di allontanarsi.
Qualcuno da fuori l’avrebbe vista?
-No, Laurie, non scappare, non devi avere paura. Vieni da me- riprendeva intanto la voce -ho bisogno di te, avanti vieni!-.
Così Laurie si ritrovò a muoversi di nuovo in avanti, tutta tremante, e non per il freddo.
Sentiva il vento che le tagliava le labbra, lo sentiva arrossarle le guance.
Sentiva anche la neve farsi più molle, come se fosse in procinto di aprirsi sotto i suoi piedi. Cosa sarebbe esistito là sotto? Il vuoto? Le fiamme? Dei mostri con le fauci spalancate? Nessuna tra queste idee le pareva entusiasmante.
Non sapeva se fidarsi di quella voce: non sembrava cattiva, ma tutto era così strano.
Persino la neve si stava facendo strana: anziché cadere dall’alto verso il basso, aveva iniziato a girare in tondo, disegnando circoli grandi e piccoli sopra e davanti a lei.
E il vento urlava sempre più forte.
-Ci sei quasi, Laurie, avanti, avanti! Sono qui!- proseguiva la voce, e si stava facendo concitata. Ma era dolce; forse anche un po’ impaurita.
Intanto Laurie si muoveva con cautela, a piccoli passi, sempre spaventata all’idea che quella neve, all’improvviso fragilissima, decidesse di cedere inghiottendola in un lampo.
-Brava Laurie, ci sei! Ora scava, scava più che puoi- così la bambina obbedì. Si inginocchiò sulla neve, come aveva fatto quel giorno da sveglia, senza che in quel momento ne serbasse memoria, e cominciò a scavare con frenesia.
Non indossava i guanti e la neve le gelava le dita, ma non le importava. Quella voce veniva proprio da lì sotto e la incitava, le stava dicendo di liberarla.
Ed era la voce di una bambina.
Laurie scavò e scavò, anche se le mani ormai le facevano male, fino a quando non le apparve dinanzi, distesa nella neve, quella bambina bionda vestita di verde. Aveva le gambe scoperte dal ginocchio in giù, ma non sembrava che il freddo le desse fastidio.
La stava guardando e intanto sorrideva.
Al petto stringeva il topolino di pezza, quello bianco con il gilet marrone che Laurie ricordava di avere, non sapeva perché, nella tasca interna del suo giaccone.
D’istinto vi mise dentro la mano per cercarlo, ma non lo trovò.
Stranita ricambiò lo sguardo della bimba stesa nella neve; doveva avere la sua età.
-Mi hai trovata, Laurie, grazie, ora guarda la neve- le diceva dolcemente.
Laurie eseguì senza pensare e guardò in su per un tempo interminabile; la neve non vacillava più sotto i suoi piedi e quella che cadeva dall’alto era così fitta e soffice che, come doveva esserle già capitato non ricordava quando, le venne voglia di assaggiarla.
-Come ti chiami?- domandò tornando ad abbassare lo sguardo sulla bimba che aveva trovato sepolta nella neve, ma questa era sparita.
All’improvviso, vide che dal cielo cominciavano a cadere fiocchi di neve rossi.
 
Quando Laurie spalancò gli occhi di scatto, la mamma stava parcheggiando l’auto sotto casa.
Ricordava il sogno, anche se non più il volto della bambina che aveva trovato tra la neve e istintivamente toccò il topolino di pezza nella sua tasca. Era ancora lì.
Forse era stata la sua paura a formulare quel sogno: quella di aver sottratto quel pupazzo con la forza, l’idea pulsante che non le appartenesse, motivo per il quale aveva scelto di non parlarne con nessuno.
Le vennero improvvisamente in mente una porta e una chiave e subito si rese conto che non voleva più pensarci.
Aveva trovato un pupazzo, d’accordo; l’aveva raccolto anche se non era suo, fin là tutto era chiaro. Ma non l’aveva rubato a nessuno, in fin dei conti non era di certo colpa sua se qualche altro bambino (o bambina) sbadato non aveva prestato attenzione e se l’era fatto scivolare di mano.
Ma forse quel bambino (o bambina) sarebbe presto andato a cercarlo, scavando tra la neve, immaginando che il suo topolino di pezza lo stesse chiamando per farsi trovare.
Un po’ come aveva fatto quella bimba bionda nel sogno.
Ma poi quel bambino (o bambina) non avrebbe trovato niente tra la neve.
A Laurie dispiaceva, ma ormai che cosa poteva farci? Lei aveva fatto soltanto ciò che qualsiasi altro bambino avrebbe fatto al suo posto, e non c’era niente di male.
Per il momento però, voleva che il topolino di pezza restasse un suo segreto.
Scese dall’auto, si lasciò prendere per mano dalla mamma e con lei entrò nel portone del loro condominio; presero l’ascensore, e raggiunsero il quinto piano.
Leyla aprì loro con un sorriso e subito prese in braccio la sorellina, baciandole la guancia.
Leyla e Laurie si volevano molto bene, erano molto legate, sebbene si passassero ben undici anni di differenza: la maggiore ne aveva compiuti sedici in ottobre.
Laurie salutò anche suo padre, che subito chiese alla mamma come si era comportata la leprotta, come la chiamava lui. La mamma non alluse al fatto che si fosse allontanata senza permesso (e quindi nemmeno alla sculacciata, pensò Laurie con soddisfazione), e la bimba lo prese come un buon segno.
Questo significava che sia la rabbia che la paura dovevano esserle passate.
Andò fino alla sua cameretta per togliersi il cappotto, così poté estrarre dalla tasca il topolino di pezza senza farsi notare. In silenzio lo adagiò in mezzo a tutti gli altri suoi pupazzi posti sul letto, lì dove non sarebbe stato così facile fare caso a uno solo e, convinta che nessuno l’avrebbe notato, almeno per un po’, decise di tornare da sua sorella. Pensò che voleva farsi raccontare da lei la favola della buonanotte.
 
 
 
 
II
 
HILLARY
 
La sera di Capodanno Leyla era andata a una festa a casa di una delle sue compagne di classe, ma quando si era resa conto che gli altri non pensavano ad altro che a ubriacarsi e a fare gli idioti se n’era tornata felicemente a casa, e questo ben prima che scoccasse la mezzanotte.
Leyla aveva sedici anni, ma se c’era qualcosa che non poteva proprio soffrire era la sconsideratezza dei ragazzi. No, comportarsi come una demente, rischiando magari di farsi del male (o di farne a qualcun altro) non faceva proprio per lei.
Così aveva preferito restare in compagnia dei suoi e di Laurie; Leyla non avrebbe cambiato nessuno di loro, nemmeno per tutto l’oro del mondo.
Quella sera, tutti insieme in salotto, si erano raccontati barzellette, storielle e aneddoti divertenti riguardanti l’anno che si preparava a dare a tutti l’addio definitivo.
Tutto sommato era stato un Capodanno divertente, e la ragazza compativa quei poveretti che non avevano niente di meglio da fare che riempirsi il fegato d’alcool.
Lei stava meglio così.
Erano stati svegli fino a tardi; lo era stata anche Laurie, anche se non quanto gli adulti, e così, di conseguenza, si erano svegliati tardi il giorno seguente.
Il primo di gennaio era sempre una giornata strana, tutti gli anni; forse era perché si doveva fare l’abitudine all’anno nuovo, forse perché invece ci si aspettava sempre un cambiamento significativo che però non si faceva vedere. Stava di fatto che si percepiva sempre qualcosa di strano quel dato giorno dell’anno.
Dopo aver pranzato (sempre tardi), si erano ritirati tutti quanti a fare gli affari loro: papà a leggere un libro, la mamma a lavorare, Laurie a disegnare e Leyla a finire i compiti delle vacanze.
Solo in serata la maggiore si trasferì in camera della sua sorellina per farle un po’ di compagnia.
Laurie aveva tirato fuori i suoi animaletti giocattolo: quelli piccoli piccoli e che trovava come regalo nei giornaletti. Ormai si poteva dire che avesse un intero zoo a disposizione.
Insieme alla sorella, la bimba aveva scelto di catalogarli: da una parte i carnivori, dall’altra gli erbivori.
Leyla si occupava della prima sezione: davanti a sé aveva sistemato un lupo, un leone, una tigre e una pantera; Laurie aveva messo da parte un elefante, una zebra, una gazzella e un rinoceronte.
Poi fu la volta del maialino. Laurie era convinta di doverlo inserire nella categoria degli erbivori, ma la sorella le spiegò che si trattava di un animale onnivoro, ossia capace di mangiare sia carne che vegetali; come l’uomo, le precisò, così la bambina decise subito di creare una suddivisione diversa che comprendesse queste specie.
E fu anche contenta di aver appreso qualcosa di nuovo.
Il maialino fu così posizionato nel mezzo, a parte, separato sia dai carnivori che dagli erbivori.
Avvenne la stessa cosa quando fu trovato lo scimpanzé, e poi si ripeté di nuovo quando giunsero al topolino.
Laurie era rimasta per svariati secondi a fissare l’animaletto giocattolo dal momento in cui se lo ritrovò tra le mani; la sorella aveva creduto che stesse rimuginando sulla categoria in cui fosse giusto inserirlo. Eppure anche lei si perse per un po’ in quella strana atmosfera silenziosa e si ritrovò a osservare inebetita prima il topolino, poi sua sorella, infine fuori dalla finestra, dove cadeva ancora qualche leggero fiocco di neve. Non che nevicasse ininterrottamente dal giorno di Natale: dopo il venticinque dicembre aveva smesso, per poi riprendere l’ultimo dell’anno.
Quel primo gennaio non restavano che i rimasugli di quella perturbazione bianca.
-Va tra gli onnivori- riuscì a dire infine, quando finalmente si scosse. Laurie alzò lentamente lo sguardo su di lei e le sorrise lievemente, ma dall’espressione degli occhi sembrava frastornata.
-Ah … okay- rispose distrattamente, e andò a porre la nuova riproduzione della bestiolina insieme al maiale e allo scimpanzé.
Mentre faceva ciò il suo sguardo era corso alla montagnola di peluche che si trovava sul suo letto; uno sguardo fugace, quasi colpevole e impaurito.
Uno sguardo che sembrava una supplica a non farsi vedere. Fu così che Leyla si stranì: -Tutto a posto?- domandò alla piccola. Questa rispose subito di sì, ma la sorella maggiore non tardò a rendersi conto della nuova occhiata indirizzata al mucchio di pupazzi.
-Che cosa c’è qui in mezzo?- domandò, e incuriosita allungò la mano verso di esso.
-No, Leyla. Aspetta!- fece la bambina scattando subito in piedi e tentando in un lampo di fermare la sorella maggiore.
La prese per il polso.
-Aspetta un secondo, Leyla, aspetta. Ti devo dire una cosa- esclamò piagnucolante, ma l’altra si era facilmente liberata della sua stretta e aveva affondato la mano tra gli animali di pezza.
Le sembrava che fossero tutti quelli che aveva sempre visto: il cavallo, il leone del Re Leone, il coniglio, la volpe, la scimmietta e tutti gli altri che Laurie aveva collezionato durante i suoi cinque anni, ma poi le saltò agli occhi quello che prima d’allora non c’era mai stato.
Forse non l’avrebbe mai notato con la vista, se al tatto non avesse avvertito quella sorta di scossa elettrica accompagnata dalla sensazione di star toccando qualcosa di liquido e caldo.
Sollevò dal mucchio il topolino bianco con il gilet marroncino ed ebbe l’impressione che di dosso gli scivolasse via della neve.
Neve. Neve rossa.
Laurie intanto la guardava con aria colpevole.
La mano di Leyla che stringeva il topolino di pezza stava tremando.
Sentì un urlo nella testa, poi rivide la neve rossa. Neve rossa che cadeva fitta e silenziosa dal cielo e si posava tutta ai suoi piedi, assumendo la forma di una porta sbarrata sulla coltre bianca.
-Io non l’ho rubato, Leyla, te lo giuro. L’ho trovato per terra, sotto la neve, non so di chi è- spiegò la bambina; stava quasi piangendo.
Leyla si volse d’improvviso verso di lei con un brivido intenso, poi la guardò negli occhi, mentre si sentiva sbiancare in viso: per un momento non aveva visto Laurie di fronte a sé, ma la bimba bionda.
Quella bimba bionda.
-Laurie. Laurie, dove l’hai trovato?- le domandò con un filo di voce. E quel filo di voce le stava tremando.
-Sotto la neve, vicino a casa di zia Sarah, a Natale- rispose la piccola mentre piangeva -mi sono allontanata un po’ senza il permesso della mamma, ma non tanto, e poi l’ho trovato- fece una pausa per asciugarsi gli occhi.
-Lo so che non è mio, Leyla, ma non c’erano altri bambini così ho pensato che lo potevo tenere-.
Leyla guardò di nuovo il topolino di pezza, poi serrò gli occhi con forza, come lottando contro un ricordo; o come tentando di ricondurlo a sé.
-L’hai detto alla mamma, Laurie? Gliene hai parlato?-
-No, io avevo paura che si arrabbiava, perché avevo preso una cosa che non è mia-.
Leyla tornò a guardare fissamente la bambina negli occhi. -Non devi dirle niente, d’accordo? Questa è una cosa che sappiamo solo tu ed io, per adesso, va bene?- fece concitatamente.
Laurie la osservava stranita; la sorella maggiore allora le prese la mano nella sua.
-Laurie, devi ascoltarmi bene. Tu non hai fatto niente di male a prendere questo pupazzo, ma mi devi promettere che non dirai niente a nessuno, capisci? Non deve saperlo nessun altro. Me lo prometti?- e negli occhi di Leyla era viva la supplica; Laurie capì solo che doveva trattarsi di qualcosa di molto importante, così si affrettò a rispondere di sì.
Leyla strinse forte il topolino di pezza e disse alla sorellina che l’avrebbe tenuto lei, perché l’avrebbe nascosto meglio.
Fu proprio mentre si apprestava ad andarsene per raggiungere la sua stanza che Laurie la chiamò:
-Leyla, se non ho fatto niente di male a prenderlo, allora perché lo dobbiamo tenere nascosto?- le domandò -perché forse so a chi appartiene- furono le parole spente che la sorella maggiore le rivolse uscendo dalla stanza.
 
Leyla aveva chiuso a chiave la porta della sua camera ed era piombata nelle tenebre più assolute.
Se ne stava al buio, seduta sul pavimento freddo, stringendo in mano quel topolino di pezza con il gilet e ascoltava il suono inudibile che produceva la neve che cadeva nella sua testa.
Neve fitta, che sembrava non dover smettere di scendere mai più; neve bianca, ma che a tratti si colorava di rosso.
E poi, in sottofondo, sentiva delle risate.
Respirava a fondo cercando di catturare le immagini sfocate che la mente le proponeva. Lei sapeva a chi apparteneva quel pupazzo; ma lo sapeva davvero? O meglio, lo ricordava?
La neve cade, ricopre, ma non cancella. Però nasconde, alla vista come alla memoria, e lei voleva che quella neve prendesse a sciogliersi. Ne era caduta parecchia durante tutti quegli anni, quanto avrebbe dovuto scavare per richiamare a sé i ricordi? Eppure sentiva che era pronta a farlo.
Aveva visto il suo viso per un attimo al posto di quello di Laurie.
Già, ma per quello non ci voleva poi molto, bastava che rivedesse se stessa all’età della sua sorellina più piccola. Loro erano identiche; gemelle identiche.
Strinse più forte il topolino di pezza e si sforzò di ricordare: il suo volto lo rammentava, fino a quel punto non c’erano problemi, ma quand’era successo? Avevano entrambe cinque anni, come Laurie in quel momento, però non era Natale; era febbraio.
Chi si era allontanata per prima dalla casa di zia Sarah, lei o Hillary? Una delle due bimbe nella sua testa correva davanti all’altra, ma non riusciva a distinguersi. Sapeva solo che ridevano entrambe.
Fuori dalla sua finestra esplose un primo tuono sommesso che sanciva la fine della neve e l’arrivo imminente della pioggia.
Lei e Hillary erano anche vestite uguali quel giorno: indossavano entrambe il vestitino verde, quello che avevano voluto avere per forza identico, e sopra avevano il cappotto a quadri. E poi la sciarpa, anche quella era verde.
Guardò ancora il topolino di pezza, sperando di trovare nei suoi occhietti neri di filo una risposta ai suoi interrogativi, oppure una strada da seguire.
Subito ricordò: la bimba che stringeva il pupazzo era quella che correva davanti; lei seguiva Hillary, era stata sua sorella a volersi allontanare, e Leyla le stava dietro di buon grado, perché era divertente correre sulla neve. E poi sentivano quell’attrattiva speciale, quel richiamo silenzioso.
Perché Leyla ricordava di averlo sentito, ed era sicura che fosse valso lo stesso per la sua gemella.
Loro ridevano. Questo Leyla lo ricordava bene. Ridevano, e le zampe posteriori del topolino di pezza pendevano dalla mano della bimba che correva per prima.
Come si chiamava quel topolino di pezza? Qualcosa con White. Sì, White perché era bianco (come la neve), ma al colore era stato abbinato qualcos’altro.
Non ricordava, poi le tornò in mente la porta rossa disegnata sulla neve.
White Key. Perché nel taschino del suo gilet era stata nascosta una chiave, quella del diario segreto che la mamma le aveva regalato. Un diario che Hillary non era mai arrivata a usare, perché era scomparsa prima che imparasse a scrivere.
La chiave bianca. Pensò Leyla. La chiave bianca di pezza per aprire la porta rossa. E allora tutto fu molto più chiaro; si mise in piedi mentre fuori il vento si alzava e i tuoni si facevano via via più vividi, e si intervallavano ai primi lampi.
Stava per piovere, invece quel giorno nevicava. Neve bianca. La neve rossa era venuta solo dopo.
Camminò fino a raggiungere il proprio letto, poi si chinò, e tirò fuori da sotto il bauletto impolverato: quasi non ricordava più che si trovasse lì e, soprattutto, aveva dimenticato quel che c’era dentro; o per lo meno non ricordava una parte di ciò che c’era dentro. Perché sapeva che lì erano contenute le fotografie di quando era bambina, ma ormai aveva cancellato Hillary dalla sua memoria, come se non fosse mai esistita. Come se non avesse mai avuto una sorella gemella.
Eppure da quel giorno non era mai più voluta andare a casa della zia; ricordò in quell’istante di essersene chiesta il motivo a un certo punto, quando a Natale era rimasta a casa con papà, anziché andare a Bonnyrigg con sua madre e Laurie. Si rese conto che non era stata in grado di rispondersi.
Ma come aveva potuto dimenticare?
Aprì lo scomparto, raccolse e accese la piccola torcia che teneva sempre a lato del letto e cominciò a guardare le fotografie. Ce n’erano alcune in cui erano piccolissime; in una erano sedute sul passeggino e portavano entrambe un cappellino ridicolo con i campanelli.
Erano sempre identiche, in ogni foto, tanto che Leyla fu certa che nessuno, forse a parte lei stessa e sua madre, avrebbe saputo distinguerle. Ma poi tutto cambiava nell’arrivare alle istantanee dell’ultimo anno di Hillary; lì lei aveva sempre con sé il topolino di pezza. Leyla ricordò che non se ne separava mai, non lo lasciava prendere nemmeno a lei, anche se facevano sempre tutto insieme ed erano tanto unite.
Guardò la bimba con i capelli biondi nella fotografia, quella che stringeva la mano all’altra bambina bionda identica a lei, e non poté trattenere le lacrime.
Leyla pianse non perché Hillary era scomparsa undici anni prima senza mai più essere ritrovata, ma perché si era dimenticata di lei. Aveva dimenticato di aver stretto la sua mano nella propria.
All’improvviso percepì una scossa e, chiudendo gli occhi e continuando a stringere il topolino di pezza, cominciò a vedere quelle immagini. Anzi, a rivedere.
Perché ricordava di aver già fatto quel sogno, tante volte, quando Hillary era appena scomparsa. Non ne aveva mai parlato con nessuno, perché non aveva mai capito ciò che vedeva e poi ne aveva sempre avuto paura.
 
C’era una bimba che vagava nell’oscurità: era lei. Sapeva di essere alla ricerca della sua sorellina, ma non aveva idea di come fosse arrivata lì né come avesse scelto di percorrere quella strada buia. Aveva paura, di questo era certa.
Sentiva il rumore dell’acqua sotto i suoi piedi; non acqua che scorre, ma acqua immobile che viene calpestata.
Le sembrava di sentire una voce in lontananza, ma non ne era sicura; era un suono lieve, impercettibile. Lei lo seguiva lo stesso, ma non era certa di sentirlo veramente. Forse voleva soltanto che quella voce ci fosse, perché questa sarebbe stata la sua speranza; la speranza di ritrovare Hillary.
Così camminava, non sapeva da dove venisse, né dove fosse diretta, ma procedeva passo dopo passo, un po’ lentamente e un po’ affrettandosi, sempre alla ricerca di quella voce.
Poi d’improvviso scoppiava l’urlo; era talmente forte che doveva coprirsi le orecchie con le mani per non diventare sorda. E quel grido durava tanto, sembrava infinito, per questo alla fine si lasciava cadere, sprofondando con le ginocchia nell’acqua.
Ma no, non era acqua. Se ne accorgeva in quel momento: era sangue.
Spaventata cercava di rialzarsi, invece vi cadeva dentro con tutto il corpo. Intanto l’urlo continuava, ma sembrava stesse volgendo al termine. La bimba piangeva, e si era macchiata i capelli biondi di sangue. Non riusciva ad alzarsi, così vi camminava dentro carponi, affondandovi le mani, ricevendone gli schizzi in viso.
Tratteneva il respiro perché quel sangue era orribile.
Leyla camminava nel sangue e seguiva l’urlo di sua sorella persa nel buio; ma poi l’urlo cessava e davanti a sé trovava solo un muro. A galleggiare nel sangue vedeva il topolino di pezza; ed era bianco, non si era sporcato. Il topolino di pezza di Hillary, la chiave bianca. Lo prendeva in mano e se lo stringeva al petto; non sapeva perché, ma ripeteva “Voglio venire da te. Sarò presto da te. Voglio venire da te. Sarò presto da te.”e mentre lo faceva teneva gli occhi chiusi.
Quando finalmente li riaprì si trovava tra la neve, non lontano da casa della zia, dove aveva visto Hillary per l’ultima volta.
Stava nevicando come il giorno della sua scomparsa. C’era tanta neve al suolo e altrettanta ne cadeva dal cielo.
Era in quel momento che cominciava a scendere la neve rossa: era fitta fitta, copiosa, quasi impediva che si vedesse nient’altro. Cadeva tutta ai suoi piedi.
Leyla la guardava impotente, senza sapere cosa fare o cosa stesse accadendo.
La neve rossa scendeva senza sosta, fino a quando formò l’immagine di una porta chiusa sul manto bianco che ricopriva il terreno.
La bimba bionda non seppe perché, ma le venne in mente subito il topolino di pezza. Si guardò le mani, ma il pupazzo di sua sorella non c’era più.
 
Era in quel momento che si svegliava sempre; ora lo ricordava bene. Era andata avanti a fare quel sogno per mesi, poi si era dissolto quand’era arrivata l’estate. Infine l’aveva completamente dimenticato.
Ma in quel momento la sua memoria si era risvegliata e rammentava ogni cosa, anche ciò che era successo quel giorno innevato, vicino a casa della zia: lei e Hillary si erano allontanate senza permesso, un po’ come doveva aver fatto Laurie in giorno di Natale. Entrambe avevano cinque anni. Si erano messe a correre, non sapevano nemmeno loro perché, ed erano felici di seguire il canto silenzioso della neve bianca.
La casa di zia Sarah ormai non era altro che un puntino marrone in fondo alla loro visuale, però erano tranquille, perché ricordavano la via del ritorno.
Hillary le aveva proposto di fare una gara: avrebbero corso e chi delle due fosse arrivata prima all’albero in fondo sarebbe stata la vincitrice; aveva vinto Hillary, perché Leyla era caduta sulla neve e quindi rimasta indietro.
Così Leyla aveva dovuto fare penitenza: sarebbe stato il suo turno della conta a nascondino. A Hillary toccava solo nascondersi.
Così aveva cominciato a contare. Fino a cinquanta, aveva insistito Hillary, altrimenti non avrebbe avuto tempo.
Si era appoggiata a un albero con il braccio destro e su di esso aveva nascosto gli occhi: lei era leale, e non sbirciava mai. Non accelerava nemmeno la conta per cercare di vincere.
Leyla preferiva perdere che giocare sporco.
Infine era arrivata a cinquanta; aveva cominciato a cercare sua sorella, ma non la trovava da nessuna parte. All’inizio l’aveva trovato divertente, ma poi aveva cominciato a spaventarsi, perché Hillary non uscì nemmeno quando lei si mise a piangere pregandola di farsi vedere.
Era stato quando la paura aveva preso totale possesso di lei che le era parso che il vento volesse sospingerla via di lì; così era scappata correndo a perdifiato.
Corse veloce fino a casa di zia Sarah, ad avvertire la mamma che non aveva idea di dove fosse finita Hillary. Da quel giorno non l’aveva mai più rivista.
Tra le lacrime lasciò cadere a terra la fotografia delle due bambine bionde e strinse a sé più forte il topolino di pezza. White key. La chiave bianca. La chiave di pezza.
Pensò che avrebbe dovuto chiamare Jamie.
 
III
 
JAMIE
 
Avendo ricordato tutto le era anche venuto in mente che lei aveva lavorato al caso undici anni prima; perché prima di trasferirsi a Edimburgo aveva vissuto a Bonnyrigg e aveva fatto parte della polizia locale. Era ancora una poliziotta, ma la capitale le offriva maggiori opportunità per la sua carriera.
In quel momento sedevano insieme a un tavolino del Beetlejuice (come il film di Tim Burton), piccolo caffè in Saint Nicolson Street, a sud della città, situato nella zona universitaria.
Leyla sorseggiava un frullato che senza dubbio non avrebbe finito, mentre l’altra aveva davanti a sé una tazza di caffè fumante.
Jamie Fullmoon era sempre stata una grande amica di sua madre, per quel motivo si era interessata tanto al caso di Hillary quando questa scomparve.
Leyla la conosceva bene: le era sempre stata molto vicina, e aveva anche vestito i panni di madrina alla sua cresima.
Per questo aveva scelto di parlarne con lei. L’idea di dire tutto a sua madre non le era nemmeno passata per la testa: lei non parlava mai di Hillary, probabilmente sarebbe stato troppo doloroso.
Aveva finito per accettare la sua scomparsa e la sua ormai più che probabile morte, e forse rientrare in argomento sarebbe stato devastante per lei; Leyla non voleva sconvolgerla e non voleva nemmeno spaventare Laurie.
Quella questione riguardava soltanto lei, e lei l’avrebbe portata fino in fondo, e nel caso non fosse poi giunta a niente, non avrebbe dovuto dare spiegazioni o delusioni a nessuno.
Hillary era affar suo. Era certa però che qualcosa avrebbe trovato, perché qualcosa, dopo tutto quel tempo, si era finalmente risvegliato.
E poi aveva la chiave, finalmente. Mancava solo da trovare la porta rossa.
-Come mai non l’hai mai raccontato a nessuno?- domandò la donna castana che guardava in viso la ragazza seduta di fronte a lei attraverso il fumo proveniente dal suo caffè.
Leyla teneva tra entrambe le mani il topolino di pezza.
-Ero piccola, e ciò che sognavo mi faceva paura; e poi non credevo avesse realmente un significato- fece una pausa e sospirò -credevo fosse solo … un sogno. Un semplice sogno-.
-E lo credi ancora?-
-No, ora sono certa che ci sia qualcosa di più-.
Leyla strinse forte le dita attorno al topolino di pezza fino a farsi sbiancare le nocche; lei e Jamie si trovavano lì da circa venti minuti e la ragazza, dopo aver mostrato alla sua confidente di quel pomeriggio il piccolo tesoro ritrovato da Laurie, le aveva raccontato fin nei minimi dettagli il sogno che faceva sempre da bambina e che associava senza dubbio alla scomparsa di Hillary.
Jamie l’aveva ascoltata senza battere ciglio. Mentre parlava, Leyla si chiedeva se l’amica più grande (ben più grande, ma sempre amica) avrebbe creduto che esistesse un collegamento reale tra il sogno e quel che era successo veramente. Dal suo sguardo e dalle poche parole che aveva appena pronunciato, pareva di sì.
-Ne sono sicura anch’io- la conferma della propria ipotesi risollevò l’animo e il morale di Leyla: se Jamie non avesse saputo vedere lontano non ci sarebbe stata speranza di giungere a capo di quella storia ancora sepolta sotto la neve. Perché la neve non cancella, ma ricopre e nasconde, e può celare a fondo.
-Penso che attraverso quel sogno sempre uguale Hillary cercasse di richiamarmi, di condurmi a lei, ma io ho preferito ignorare i suoi richiami. Allora ero troppo piccola, e anche se avessi provato a fare qualcosa non sarebbe servito a niente, ma ora devo fare qualcosa, Jamie. Devo, anche se Hillary è morta. Perché non sta riposando in pace, lo sento. E ne avrebbe bisogno. Tu mi aiuterai?-. Nonostante la forte emozione causatale dalle sue stesse parole, Leyla guardò serafica negli occhi dell’altra. Era decisa più che mai a spingersi fino in fondo, doveva dare a Hillary la pace che le spettava e sapeva di volerla regalare anche a se stessa.
Anche se lei aveva dimenticato sua sorella per tanti anni.
-Io sono disposta a fare qualunque cosa per te, Leyla, lo sai, e anche per Hillary e per tua madre- riprese l’altra in un sorriso incoraggiante -ti aiuterò, ma tieni presente che non lavorando più a Bonnyrigg non mi sarà possibile accedere all’archivio del caso. Potrei richiederlo da qui, ma inizierebbero fin da subito le domande a raffica e non posso certo dire che la sorella gemella di una bambina scomparsa più di dieci anni fa ha trovato un pupazzo che crede le appartenga, e all’improvviso si è anche ricordata di un sogno che faceva da piccola e che crede la aiuterà a scoprire cos’è successo all’altra bambina. Capisci, non è vero?- concluse.
-Sì, lo so. Ma non ti preoccupare, non volevo che mettessi in mezzo la polizia, sono sicura che loro non troverebbero niente. Anzi, forse ci intralcerebbero-.
-Vuoi che ce ne occupiamo solo noi due?-
-Sì. Tu ricordi qualche dettaglio del caso?-.
Jamie aggrottò la fronte e strinse le labbra mentre si sforzava di ricordare: -Allora, tua sorella è scomparsa il tredici febbraio del 2001, giusto? Stavate giocando insieme non lontano dalla casa di vostra zia a Bonnyrigg e all’improvviso tu non l’hai vista più-. Leyla annuì.
-Mi ricordo che abbiamo interrogato tutti nella zona, ma nessuno aveva visto una bambina che corrispondesse alla descrizione di Hillary aggirarsi da quelle parti, d’altra parte non doveva esserci nessuno nelle vicinanze- Jamie fece una pausa e deglutì a fondo, conscia lei stessa della probabilità che le cose fossero andate diversamente.
-Nemmeno tu hai visto nessun altro nei dintorni, no?-.
-Io non ricordo di aver visto nessuno, Jamie, ma se mi fossi sbagliata? Se qualcuno ci fosse stato? Magari questo qualcuno si era appostato da qualche parte, nascosto, pronto a fare la sua mossa quando fosse stato il momento-; Leyla si sentiva certa di quel che aveva appena detto. Non aveva visto nessuno quel giorno, ma non aveva dubbi sul fatto che lì sulla neve, oltre a lei e a Hillary, ci fosse stato qualcun altro. Ne era sicura per via del sangue nel sogno.
-Può darsi- sospirò Jamie -in ogni caso non abbiamo mai trovato alcun sospettato- e detto questo la donna concentrò il suo sguardo sul topolino di pezza che Leyla stringeva tra le mani.
-Quello lo aveva con sé quel giorno, ovviamente- costatò sebbene lo sapesse già; ma la sua voleva essere più l’inizio di una riflessione che una vera e propria affermazione.
Leyla si limitò ad annuire.
-Tu al tempo dicesti di averla cercata per un po’, non hai visto in giro il pupazzo?-
-No, da nessuna parte-
-Forse, quando Laurie l’ha trovato si è spinta più avanti; forse anche Hillary si era allontanata un po’ di più ed è lì che l’ipotetico lui potrebbe averla presa-.
La ragazza abbassò a propria volta lo sguardo sul vecchio pupazzo della sorella perduta. La chiave bianca. La chiave di pezza.
-Sì, credo che possa essere andata così- rispose più bianca in volto -noi stavamo giocando a nascondino, e dato che i posti per nascondersi non erano molti è facile che Hillary si fosse allontanata. Senza volere deve essere finita in una zona più isolata, così se è stata presa e la chiave le è caduta di mano, questa ha avuto tutto il tempo di ricoprirsi di neve. Quando poi la neve si è sciolta le ricerche si erano già interrotte. E nessun altro deve averla notata prima di Laurie-.
Leyla iniziava a sentire più freddo di quanto non ne facesse all’interno del locale. Era ancora così strano aver ripescato dopo tanto tempo quell’argomento; ma ciò che c’era di più sconvolgente non era il fatto di averlo ricordato, bensì di averlo dimenticato per così a lungo.
-La chiave?- domandò subito Jamie stranita.
-Come?-
-Hai detto che Hillary ha perso la chiave-. Leyla si accorse solo in quel momento di ciò che aveva detto poco prima.
-Intendevo il pupazzo- guardò di nuovo il topolino di pezza -credo davvero che la chiave sia lui- fece indirizzando un sorriso malinconico all’amichetto inanimato di Hillary; Jamie parve capire senza troppe difficoltà.
Le due si scrutarono per qualche istante negli occhi; Leyla vedeva la costernazione in quelli di Jamie, e forse anche un po’ di timore, questa vedeva solo la determinazione in quelli della ragazza. Eppure aveva paura anche lei. Una paura dannata.
-Leyla, sei sicura di voler venire con me a Bonnyrigg?-
-Sì. Lo devo proprio fare-
-Va bene. Ti faccio sapere domani quando possiamo andare-.
Leyla assentì con il capo -fai in modo che sia al più presto possibile- asserì -vedrai che sarà questione al massimo di due o tre giorni, non di più- la tranquillizzò l’altra.
Poi calò il silenzio per qualche istante; un silenzio in cui si udiva soltanto il brusio di sottofondo provocato dagli studenti, avventori del locale.
Fu Jamie a spezzarlo: -Non vuoi davvero che tua madre sappia nulla?- domandò sottovoce, quasi l’amica Samantha fosse nei paraggi e rischiasse di sentire.
Leyla scosse la testa.
-Assolutamente no! Mia madre non deve saperne niente, la angoscerebbe soltanto. Le diremo che mi porti a fare una gita di qualche giorno prima che finiscano le vacanze della scuola; non le diciamo neanche che andiamo a Bonnyrigg, altrimenti capirebbe qualcosa, perché io, dopo la scomparsa di Hillary, non sono più voluta tornarci-.
Jamie le sorrise e sorseggiò il suo caffè.
-Se è quello che vuoi. Anche se ti confesso che ho un po’ paura: tu sei minorenne e così dovrò prendermi tutta la responsabilità …-.
-Non preoccuparti- la interruppe la ragazza -non mi allontanerò mai da sola e faremo tutto insieme. Sarò prudente al massimo: voglio scoprire la verità su mia sorella, non mettermi nei guai-.
Jamie sembrò subito più sollevata da queste parole e dalla cauta valutazione che Leyla si proponeva per le sue azioni.
-Allora siamo d’accordo, domani ti chiamo per dirti tutto. Tu comincia ad accennare a tua mamma della nostra gita- affermò simulando le virgolette con le dita nel pronunciare l’ultima parola.
Jamie terminò il suo caffè; Leyla aveva ancora davanti a sé quasi tutto il frullato.
-C’è altro inerente a questa storia?- chiese improvvisamente la donna. Fu una domanda che non seppe spiegare nemmeno a se stessa perché le venne in mente; forse era stato per via dell’espressione velata negli occhi di Leyla: Jamie aveva idea che le premesse dire ancora qualcosa, ma che non trovasse il coraggio di farne parola. Fu in quel momento che il brillio della paura si notò chiaro immerso nella coltre illimitata della determinazione. Un po’ come la coltre di neve che nasconde ma non cancella.
Subito dopo Leyla abbassò lo sguardo e fu con voce tremante che riprese a parlare: -Ho fatto un nuovo sogno stanotte, erano così tanti anni che non succedeva più. Io ho ricordato le immagini di quello che facevo da bambina, ma non ricordavo che fosse così spaventoso-.
Jamie allungò la mano fino a quella della ragazza (che ancora si stringeva attorno al topolino di pezza), e intrecciò le dita con le sue.
-Che cosa hai sognato?- le domandò pacatamente e visibilmente interessata.
-Credi sul serio che questi sogni, - quello che facevo da piccola e questo di ieri notte - abbiano a che fare con la vera sorte di Hillary? Lo credi davvero?-.
-Non potrebbe essere altrimenti, Leyla. Ci credo perché è chiaro che non è solo il dolore per aver perso tua sorella a spingerti a fare quei sogni; ci credo perché sono certa che non sia stato un caso che proprio Laurie abbia trovato quel pupazzo; e non in ultimo, ci credo perché tra i gemelli esiste sempre una sorta di empatia e telepatia un po’ speciale. Come hai detto anche tu: Hillary tentava di chiamarti allora, ed è quello che ha ripreso a fare ora-.
Leyla allora si fece coraggio e iniziò a raccontare il suo sogno di quella notte. Non seppe per quale motivo, ma per sentirsi più tranquilla, mentre ne rivangava le immagini, volle pensare intensamente a Laurie.
-In questo sogno non ero più una bambina, ma sono come adesso. Mi trovo dove ho visto Hillary per l’ultima volta; o almeno, credo che sia così, non sono sicura: alla fine è un posto completamente innevato dove non esiste nient’altro. Comunque so che la sto cercando.
Questa volta ho già in mano il topolino di pezza ed è come se fosse questo a condurmi da qualche parte. Sento che mi sospinge, ma mi sembra di non far altro che girare in tondo.
Non ho visto sangue, almeno non come le altre volte, né ho sentito urla, ma è stato un sogno spaventoso lo stesso, perché avvertivo un’angoscia terribile, forse perché ero certa che non avrei trovato niente; e poi perché sapevo che c’era qualcuno che mi spiava, solo che io non lo vedevo.
Ma qualcuno c’era, te lo assicuro.
-Continuavo a camminare, intanto nevicava sempre più fitto. Poi c’era quell’oggetto che appariva all’improvviso, dal nulla, e se ne stava fermo a mezz’aria, come se fosse appeso a una parete invisibile-.
Jamie lasciò la mano di Leyla e intrecciò le dita della destra con quelle della sinistra e le pose pesantemente sul tavolo, di fronte a sé.
-Che oggetto?-
-Era uno di quei … cosi. Hai presente quei sole-luna da parete, fatti di legno, di terracotta, o che so io?- Jamie annuì -ecco, era uno di quelli: era completamente blu, e pendeva nel nulla, ma era immobile, per questo dico che sembrava fosse appeso a un muro invisibile-.
Leyla si fermò un istante per bere un sorso del suo frullato, ma fu più per riprendere fiato un attimo che per reale voglia di farlo. Jamie le fece allora cenno di continuare.
-Io l’ho guardato. Sembrava che il topolino volesse condurmi proprio lì, da quel sole-luna, ma quando ho tentato di toccarlo questo ha cominciato a gocciolare e a dissolversi. Ora: so che ho detto che era blu, ma non so perché, mentre si scioglieva, si disfaceva in gocce rosse, sembrava sangue, e forse lo era- la ragazza rabbrividì al suono delle proprie parole e anche Jamie sembrò farsi più bianca in viso. Entrambe temevano di sapere che quello fosse il sangue di Hillary, versato chissà come.
-Alla fine si è sciolto completamente e indovina cos’è andato a formare a terra?-
-L’immagine di una porta rossa?-
-Esatto. E quando ho alzato lo sguardo al cielo ho visto che anche la neve che cadeva si era fatta rossa. A quel punto sono tornata a guardare a terra, verso la porta rossa fatta di sangue; mi sono piegata sulle ginocchia e, guardandoci dentro, non so perché ho visto il mio riflesso, ma l’immagine che vedevo era quella di me bambina-.
Le dita di Leyla in quel momento si strinsero con tutta la loro forza intorno al topolino di pezza; e tremarono.
-E in quel riflesso ho visto anche qualcun altro: un’ombra indistinta, ma l’ho vista chiaramente, e so che era dell’uomo nascosto che sentivo che mi osservava- deglutì rumorosamente -mi sono spaventata ed è stato allora che mi sono risvegliata-.
Leyla alzò quindi lo sguardo su Jamie che la osservava sinceramente scossa.
-Leyla, io non so se riusciremo a trovare qualcosa andando a Bonnyrigg, ma sono sicura che hai ragione: c’era qualcun altro lì con voi quel giorno, qualcuno che ha portato via Hillary mentre tu non guardavi, o forse quando lei si è allontanata quel tanto che bastava perché tu non la sentissi più. Spero che questo viaggio ci porti a qualcosa- affermò in un sospiro; ma fu un sospiro risoluto.
-Lo spero tanto anch’io- rispose Leyla nello stesso modo.
Infine le due si salutarono. Jamie offrì alla ragazza il suo frullato, anche se questa l’aveva lasciato quasi intero.
Leyla tornò a casa sotto la pioggia scrosciante. Si infradiciò da capo a piedi, perché non aveva con sé un ombrello. Non che a Jamie fosse toccata una sorte migliore: quel pomeriggio si era diretta a piedi al Beetlejuice, e anche lei aveva un bel pezzo di strada da percorrere prima di raggiungere casa sua. Avrebbe avuto modo a sua volta di farsi una bella doccia naturale.
In quanto a Leyla, nonostante il notevole scroscio d’acqua, avanzò lentamente, stringendo forte tra le mani il topolino di pezza di Hillary. White key. La chiave bianca. La chiave di pezza.
Era più risoluta che mai ad accogliere e ascoltare il richiamo di sua sorella che finalmente tornava a farsi sentire. Leyla aveva bisogno di sapere; che Hillary fosse morta ne era ormai quasi sicura (e quel “quasi” era dato solo dalla speranza propria di una sorella), ma doveva sapere ugualmente, perché ne avevano bisogno tutti.
Anche sua madre, in fin dei conti; forse lei non voleva riaprire vecchie ferite e preferiva dimenticare, così come aveva fatto anche la figlia fino a quel momento, ma poi, sapere la verità, forse l’avrebbe aiutata a rassegnarsi e a potersi così concedere il beneficio di pensare a Hillary senza timore.
Perché Leyla ne era certa: erano undici anni che sua madre faceva di tutto per non rammentare la figlia scomparsa. Voleva cancellarla dalla memoria e dal cuore, non solo perché così sarebbe stato più semplice andare avanti, ma anche perché faceva meno paura.
Leyla aveva avuto paura nei suoi sogni e sapeva perfettamente che era sempre preferibile rifuggire quel sentimento.
Sotto la pioggia Edimburgo si fa ancora più fredda e misteriosa; in quell’istante pareva che la città sussurrasse qualcosa, ma doveva essere solo il vento.
Eppure le grandi strade intrecciate a quelle più piccole, le sue costruzioni antiche mescolate a un tocco improvviso di modernità, sembravano tutte possedere una voce.
Ma forse la voce esisteva solo nella sua testa e le diceva di farsi forza, di affrontare l’ostacolo più difficile della sua vita, perché dopo, e di questo la voce era sicura, sarebbe stato tutto migliore.
 
Arrivata a casa, Leyla andò in camera sua a togliersi di dosso i vestiti bagnati, che cambiò con una tuta rossa, poi si asciugò i capelli.
Più tardi accennò a sua madre della gita che si apprestava a fare con Jamie e quando la donna le domandò dove si sarebbero dirette, lei rispose che l’altra le aveva detto che sarebbe stata una sorpresa. Samantha non si era stupita di quelle parole della figlia: Jamie era sempre stata presente nella vita di Leyla e non era nemmeno la prima volta che la portava con sé da qualche parte durante le vacanze. C’era sempre stata affinità tra le due, fin da quando Leyla era bambina.
Fu soltanto dopo aver cenato e prima di andare a letto che la ragazza si decise a entrare nella cameretta della sua sorellina; non voleva che sua madre sapesse nulla, ma sentiva di dover dare qualche spiegazione a Laurie. In fondo era stata lei a trovare il topolino di pezza. La chiave di pezza.
-Ehi, piccola. Dormi di già?- iniziò a bassa voce quando, entrando, trovò tutte le luci spente.
-No. Vieni un po’ qui con me?- rispose la piccola. Leyla si mosse e si infilò sotto le coperte con Laurie; la abbracciò forte.
-Laurie, ti devo dire una cosa- riprese a bassa voce, -ma è una cosa che non devi dire a nessuno, d’accordo. La sapremo solo noi due in questa casa-.
-C’entra con il topolino?-
-Sì-
-Sai di chi è, vero Leyla?-
-Sì, lo so-.
Seguì qualche istante di oscuro silenzio. Ma a Leyla, in quel silenzio, sembrava di sentire qualcosa che gocciolava. Qualcosa di rosso, sangue o neve che fosse.
-Di chi è?- le chiese allora la bambina, non avendo ricevuto nessuna spiegazione esauriente.
Leyla la strinse più forte tra le braccia.
-Laurie, tu non lo sai, ma prima che tu nascessi, quando io ero piccola, avevo un’altra sorellina. Si chiamava Hillary, eravamo gemelle. Il topolino è suo, lo portava sempre con sé.
-Un giorno, mentre eravamo da zia Sarah a Bonnyrigg, eravamo fuori a giocare e lei è sparita. Non è mai più stata ritrovata- Leyla baciò la fronte della sorellina -ora che tu hai trovato quel pupazzo so di poter scoprire quello che è successo, per questo andrò a Bonnyrigg con Jamie-.
-Nevicava quel giorno?- domandò Laurie dal nulla; Leyla si stranì e sobbalzò a quelle parole.
Come faceva la bambina a saperlo?
-Sì, ma tu come lo sai?- le chiese con voce tremante.
-Perché io ho visto una bambina-
-Una bambina? Dove?-
-Nella neve, mentre sognavo. È stato dopo che ho trovato il topolino e stavo tornando a casa con la mamma: ho sognato che ero sulla neve e sentivo una bambina che mi chiamava, mi diceva che dovevo cercarla, scavare. Così ho scavato nella neve e alla fine l’ho trovata: era bionda, vestita di verde, ma non mi ricordo la faccia. Poi è sparita e ha cominciato a scendere la neve rossa-.
La neve rossa.
-La neve rossa ha formato una porta?- riprese Leyla sconvolta -no, quando ho visto la neve rossa mi sono svegliata-.
-E il topolino? Lui c’era?-
-Sì, ce l’aveva la bimba bionda-.
Laurie si pose supina, poi prese nella sua la mano più grande della sorella.
-Leyla, spero che la trovi quella bimba- esclamò sottovoce -ma posso chiederti una cosa?-; la sorella diede il suo assenso.
-Se quell’altra sorellina non si perdeva, tu adesso mi volevi bene lo stesso, come ora?-.
Leyla sorrise nell’oscurità -Non sarebbe cambiato niente, mai. Sei la mia sorellina e ti avrei voluto tantissimo bene in ogni caso, proprio come ora- e detto questo le baciò di nuovo la testa.
 
Jamie chiamò quella sera stessa: erano già le undici e mezzo quando il cellulare di Leyla squillò.
Le disse che sarebbero potute partire già l’indomani pomeriggio.
 
IV
 
LEYLA
 
Alle ore sedici di martedì tre gennaio, Jamie e Leyla si trovavano già a Bonnyrigg. Quella partenza inaspettatamente anticipata era avvenuta perché la prima si era messa in contatto con un suo vecchio collega residente nella cittadina, un certo Josh Scott, che aveva offerto loro ospitalità.
Sembrava che lui e Jamie fossero stati molto amici, insomma, se la fossero intesa a meraviglia quando lei aveva lavorato con lui al distretto.
Pareva anche che Josh vi lavorasse ancora. E questo avrebbe permesso loro di mettere anche mano all’archivio senza incorrere in scomode intromissioni.
Appena arrivarono, Leyla fu subito colpita dall’uomo che aprì loro la porta: era alto, dall’aria schiva e misteriosa anche quando mostrava il suo più largo sorriso. Aveva occhi e capelli neri, un perfetto ovale del viso e grandi mani che sembravano molto forti.
Josh e Jamie si salutarono con un abbraccio di sincera gioia di rivedersi, e Leyla si sentì arrossire fino alla punta dei capelli quando lui le porse la mano e le propose uno dei suoi misteriosi sorrisi.
Avvertì un tremito e una scossa che le percorse tutto il braccio, fino alla spalla, quando Josh le strinse le dita nelle sue. Quell’uomo aveva fatto colpo su di lei fin dal primo istante: si sentiva persa e al contempo al sicuro accanto a lui, vulnerabile e turbata.
Il cuore le batteva all’impazzata quando gli posava gli occhi addosso, o quando era lui a farlo con lei, e sentiva che avrebbe voluto restare in quella casa in eterno.
Josh era fantastico.
Si sentiva avvolgere completamente dalla sua aura tenebrosa, dalla sua fragranza decisa. Era irrimediabilmente attratta da lui, anche se questo aveva già passato i trentacinque anni, mentre lei ne aveva soltanto sedici.
Leyla sapeva che avrebbe dovuto toglierselo dalla testa, anche perché lui non avrebbe mai considerato una ragazzina come lei; e dentro di sé sapeva che sarebbe stato meglio così.
Ma ciò che provò in quei momenti non volle dare ascolto alla parte più razionale di lei; le sue gote avrebbero continuato ad arrossire in sua presenza, i tremiti l’avrebbero invasa fino alle caviglie quando lui l’avesse sfiorata, anche involontariamente.
Dopo soli cinque minuti dal suo arrivo in casa Scott, Leyla quasi non ricordava più il motivo della sua visita. Si era lasciata catturare dall’ebano dei suoi occhi, e arrivò quasi a pensare che avrebbe voluto restare lì per sempre; con lui. Una piccola parte di lei, quella più impudente e folle, l’avrebbe desiderato sul serio.
Perché a Leyla sarebbe piaciuto davvero lasciarsi cullare tra le sue braccia; era certa che avrebbe incontrato una pace e una serenità infinite.
Ma sapeva anche che non era lì per quello: Leyla costrinse quelle sensazioni spiazzanti e quelle emozioni fortissime a relegarsi in un angolo, conscia di dover portare a termine il suo proposito di scoprire qualcosa riguardo a Hillary. Lo doveva a tutti, anche a Laurie, perché tutto quel mistero sarebbe rimasto sepolto sotto metri e metri di neve, probabilmente per sempre, se non fosse stato per lei. Finalmente esisteva l’opportunità, per l’intera famiglia, di saperne di più, di far luce su ciò che ormai era stato confinato nell’oblio e quella era una chance che Leyla non poteva assolutamente lasciarsi sfuggire.
Avrebbe fatto di tutto per Hillary, anche solo per darle pace.
Il cuore le aveva martellato prepotentemente nel petto quando Josh le aveva mostrato la sua camera: casa sua era piuttosto grande, le aveva raccontato Jamie mentre ancora si trovavano in viaggio e Leyla non aveva idea del tipo d’uomo da cui si stavano dirigendo, pareva che l’avesse ereditata dal nonno morto ormai da anni e, grazie al considerevole numero di stanze (non più di sei o sette a dire il vero, ma erano parecchie per un uomo che viveva solo), aveva deciso di ospitare a buon prezzo la gente di passaggio. Non che il suo fosse un vero e proprio albergo, ma ogni tanto riusciva a racimolare qualche utile monetina in più. Loro due, in ogni caso, le avrebbe lasciate alloggiare gratuitamente.
Doveva essersela intesa davvero bene con Jamie, pensò Leyla, e quando si trovò di fronte all’uomo che la turbava tanto sperò che tra lui e l’amica non ci fosse mai stato niente.
Mentre ancora erano in viaggio l’idea le era sembrata divertente, ma poi l’aveva trovata orrendamente fastidiosa. La solita parte di lei particolarmente impudente desiderava che Josh non dovesse mai frequentare nessuna donna. Anche se per Leyla fu subito difficile credere che una cosa del genere potesse accadere.
Mentre lo seguiva per il grande salone centrale, il corridoio che conduceva al vano-scala e in fondo al quale si scorgeva la porticina marrone dello scantinato, su per i gradini e infine al piano superiore, dove appunto si trovavano le camere (tutte vuote in quei giorni), Leyla si era ritrovata a domandarsi (e a immaginare), come sarebbe stato percorrere quei passi con un suo braccio intorno alle spalle, oppure stringendogli la mano. O direttamente tra le sue braccia.
Sapeva che tutto quello poteva essere soltanto un sogno, ma trovava che si trattasse del sogno più bello e affascinante del mondo.
Non riuscì ad alzare lo sguardo su di lui quando Josh le disse che era contento che lei e Jamie fossero sue ospiti e che in quella casa non avrebbe permesso loro di alzare nemmeno un dito per riassettare: loro dovevano solo mettersi a loro agio.
Quando infine Leyla si ritrovò da sola nella stanza si sentiva formicolare il corpo da capo a piedi; non sapeva se quella notte sarebbe riuscita a dormire sapendolo a poche pareti di distanza.
Ancora scossa e agitata, posò distrattamente la sua borsa contenente i vestiti per i giorni a venire su di una sedia posta vicino alla porta e andò a sedersi sul bordo del letto; subito la attrasse la statuetta che si trovava sul comodino: doveva essere in ceramica e raffigurava una donna e una tigre unite e avvinghiate nell’eleganza dei loro corpi. Sorrise pensando che avrebbe svolto volentieri il ruolo di quella donna, se Josh fosse stato la sua tigre.
Più tardi Jamie e Leyla furono accompagnate dall’uomo alla stazione di polizia di Bonnyrigg: Jamie gli aveva spiegato che stavano cercando informazioni su un vecchio caso, ma non aveva specificato di che cosa si trattasse, e gli aveva domandato il favore di condurle all’archivio. Era pur vero che Jamie stessa aveva lavorato, anni addietro, in quella centrale, ma era sempre meglio farsi precedere da qualcuno che fosse attualmente impiegato presso di essa per permettersi si scartabellare i documenti in santa pace.
Leyla si era sentita emozionatissima al pensiero di poter coinvolgere, seppur in maniera minima, anche l’uomo di cui si stava infatuando a gran velocità e, sebbene il pensiero costante di Hillary non l’abbandonasse e tenesse sempre con sé il topolino di pezza, non riusciva a non sentirsi felice ed estasiata per il solo fatto di averlo vicino. Lui era così misterioso, ma Leyla sperava di penetrare all’interno di quella tenebra e di scoprire qualcosa in più di lui. Qualcosa di certamente affascinante.
Non si era mai sentita così prima d’allora; a dire la verità, fino a quel momento, non si era mai innamorata di nessuno. Forse perché non era mai stata interessata ai ragazzi della sua età; Leyla cercava qualcosa di più: lei non voleva solo una storia come tutte le altre, ma anelava a ricevere protezione, sicurezza e a essere guardata con occhi che sapessero realmente leggerle dentro. Ma nonostante questo non avrebbe parlato a Josh di Hillary e non si aspettava nemmeno che durante quei pochi giorni di visita sarebbe nato qualcosa tra di loro.
Sperava solo di riuscire a conoscerlo, almeno un po’.
Per il resto si sarebbe sforzata di mettere da parte il batticuore (per quanto fosse possibile), e di concentrarsi sul vero motivo per cui si trovava lì.
Josh le aveva introdotte in caserma, dove tutti gli agenti presenti (tranne forse un paio, probabilmente entrati in servizio dopo il suo trasferimento) si ricordavano di Jamie e la salutarono calorosamente con baci, abbracci e battutine sulla sua promettente carriera nella capitale.
Leyla passò praticamente inosservata, ma a lei non importò più di tanto. Aveva in tasca il topolino di pezza e, stringendolo, aveva sperato che fosse realmente in grado di condurla da qualche parte. Perché la chiave doveva aprire la porta.
La porta rossa.
Lei e Jamie si erano poi dedicate allo sfoglio dell’archivio, questo senza Josh, che le aveva lasciate sole con la loro riservatezza. A dire la verità era stata Jamie a mettere le mani tra i vecchi fogli e tirare fuori senza difficoltà quelli inerenti al caso irrisolto di Hillary.
Leyla si concesse brevemente di aprire la cartelletta e di sbirciare le prime pagine: il nome Hillary Moores era scritto in alto, tra le generalità della bambina scomparsa. Sotto era stata allegata una sua foto. Di nuovo Leyla fu colpita dal disarmante senso di colpa per averla dimenticata per così tanto tempo. Forse, se avesse visto quella fotografia prima che Laurie avesse trovato il topolino di pezza che aveva sbloccato i suoi ricordi, avrebbe creduto di starne vedendo una di quando lei stessa era bambina. D’altro canto erano identiche, e in certi casi è più facile lasciare che la neve scenda e ricopra tutto. Non importa che non cancelli: a volte basta semplicemente fingere di non vedere perché qualcosa sparisca definitivamente. O almeno finché i vecchi scheletri non riemergono burlanti e pronti a rispedire indietro il malcapitato, convinto fino ad allora di aver superato tutto, di aver dimenticato.
Solo che Leyla non poteva realmente dimenticare, non più.
Aveva poi richiuso la cartelletta, decisa a leggerne il contenuto con attenzione più tardi, quando fosse tornata a casa di Josh (il suo adorato Josh), quando Jamie richiamò la sua attenzione.
Le mostrò dei fascicoli che aveva appena trovato, qualcosa di decisamente più recente rispetto al caso di Hillary: il primo recava le informazioni su una bambina scomparsa da circa un mese e mezzo, Mary Johnson, anche questa di cinque anni, di cui ancora non era stata rinvenuta alcuna traccia. Il secondo si riferiva a un caso chiusosi da poco: un uomo di nome Paul Gallant era stato arrestato il giorno sedici del mese precedente dopo essere stato sorpreso con, ancora tra le braccia, il corpo senza vita di Holly Fisher, una bambina di quattro anni scomparsa da casa da qualche giorno. Indagando sul conto dell’uomo si era appurato che questi aveva messo in atto diversi rapimenti di bambini, sia maschi che femmine, nell’arco di più di vent’anni e su tutto il suolo nazionale. Sembrava ormai certo che i minori in questione fossero destinati al commercio delle adozioni illegali.
Con Holly qualcosa doveva essere andato storto, fu il pensiero di Leyla mentre leggeva le deposizioni dell’agente incaricato al caso, forse la piccola si era ribellata e aveva tentato di scappare, per questo motivo il suo sequestratore si era sentito costretto a stringerle le dita intorno al collo fino a soffocarla. Doveva essere andata così.
Alla descrizione delle indagini facevano seguito le fotografie a esso correlate: quelle segnaletiche dell’assassino, della bimba strangolata, del furgone dell’uomo e della sua casa transennata dai nastri della polizia.
Fu l’ultima tra queste ad attrarre l’attenzione di Leyla: l’istantanea ritraeva la porta sul retro dell’abitazione. Era dipinta di rosso.
Leyla sussultò e istintivamente tirò fuori dalla tasca il topolino di pezza, che si strinse con forza al petto; in un attimo era sbiancata in volto.
La porta rossa. Era possibile che quella fosse la porta rossa che prendeva sempre forma nei suoi sogni? Deglutì rumorosamente e si impose di non iniziare a tremare.
-C’è la porta … la porta rossa- fece sconvolta, senza staccare gli occhi dalla fotografia -hai letto? Quest’uomo rapiva bambini da più di vent’anni e in tutto il paese, potrebbe essere stato qui quando è scomparsa Hillary- affermò decisa Jamie.
-E poi commerciava bambini per le adozioni illegali- riprese dopo qualche istante di silenzio. Leyla si sentì costretta ad alzare gli occhi su di lei.
-Quello della povera…- Jamie tirò verso di sé la cartellina e scorse velocemente il contenuto della prima pagina -Holly Fisher deve essere stato un incidente imprevisto, sai che cosa significa questo?-.
Leyla respirò a fondo prima di rispondere -che se per caso c’entrasse con la scomparsa di Hillary, lei potrebbe essere ancora viva, forse con un’altra famiglia- dedusse con il cuore in gola.
In quel momento spostò lo sguardo sulla vetrata che divideva la stanza dell’archivio dal resto della stazione di polizia e vide che Josh rivolgeva lo sguardo verso di lei. Quello sguardo tenebroso e affascinante. Si sentì scaldare il cuore nonostante l’idea sconvolgente che aveva appena formulato.
 
Dall’archivio riuscirono a sottrarre la cartelletta contenente i documenti relativi alla scomparsa di Hillary, e quella dov’erano riportate le indagini sul caso Paul Gallant, l’assassino della piccola Holly Fisher. Erano potute entrare in possesso del primo perché si trattava di un vecchio caso irrisolto e ormai gettato nel dimenticatoio (e perché Jamie era conosciuta al distretto, e le indagini le aveva eseguite lei a suo tempo, forse insieme a qualche altro collega), e del secondo perché ci stava lavorando lo stesso Josh.
Quando Jamie si era accorta del suo nome tra quelli degli agenti coinvolti nelle indagini gli aveva subito domandato la cortesia di portarsi via il fascicolo.
Leyla e Jamie avevano poi trascorso quasi tutto il pomeriggio a rileggerli entrambi e a discutere sulle loro impressioni: tutte e due si erano convinte che c’era una possibilità che Gallant, che aveva operato con i suoi rapimenti su tutto il suolo nazionale per più di vent’anni, fosse implicato anche nella scomparsa di Hillary. Ad animare Leyla e la sua convinzione c’era sempre quella foto: quella della porta sul retro dipinta di rosso. Forse quella era la stessa del sogno che appariva sulla neve.
Non trovarono particolari rilevanti riguardando le informazioni sul caso di Hillary; per lo meno niente che entrambe non sapessero già, nulla di significativo.
Dalla lettura approfondita del fascicolo su Gallant appresero che i bambini rapiti da quest’ultimo oscillavano da un’età compresa tra gli zero e i sei anni; Hillary c’era dentro.
Verso le sei Jamie andò a parlare con Josh, e quando tornò disse a Leyla che c’era qualche possibilità  che un paio di giorni dopo fosse consentito loro di incontrare il rapitore dei piccoli.
Mostrandogli la foto di Hillary, se davvero questa era stata presa da lui, forse avrebbero potuto saperne qualcosa di più; forse esisteva una possibilità di ritrovarla, e di ritrovarla viva.
A questo Leyla non aveva pensato, non l’aveva messo in conto. Questo era più spaventoso dell’idea di doverle solo concedere la pace. E poi, se Hillary era ancora viva, perché mai nei suoi sogni aveva sempre visto il sangue? E poi quell’urlo? Ma valeva comunque la pena provare, anche se, di certo, nel caso in cui Hillary fosse stata viva e avesse fatto parte di un’altra famiglia, non l’avrebbe più riconosciuta; o meglio, si sarebbe chiesta per quale motivo quella ragazza era totalmente identica a lei. Forse invece non avrebbe tardato a ricordare tutto; perché d’altra parte quei richiami nascevano da qualche parte e non di certo dalla totale inconsapevolezza.
Leyla si chiedeva cosa avrebbe significato per tutti sapere che Hillary era ancora viva: sarebbe stata un’emozione, sì, ma sconvolgente. In fondo l’intera famiglia si era ormai abituata alla sua assenza, e poi c’era Laurie, che non l’aveva mai conosciuta.
Come avrebbe reagito la bambina vedendosi piombare d’improvviso in casa quella nuova sorella mai vista prima, esteriormente uguale a quella che stava sempre con lei, ma che in fin dei conti era una perfetta estranea? Forse Hillary, dopo tutti quegli anni, sarebbe stata una sconosciuta anche per la stessa Leyla. Era stato più facile accettare l’idea che fosse morta da tanto tempo, in fondo era ciò che aveva sempre creduto, non la atterriva più di tanto.
Ma Leyla voleva sapere a ogni costo, per questo accettò di buon grado l’idea di incontrare Gallant per mostrargli la foto della sorellina scomparsa, nella speranza che questo la riconoscesse e svelasse loro qualcosa. Perché se era giunta fin lì dopo tutti quegli anni, a qualcosa doveva pur arrivare.
 
Quella sera lei e Jamie cenarono con Josh al grande tavolo della sala, accanto al camino scoppiettante; lui aveva preparato dell’haggis, dimostrando di essere anche un ottimo cuoco. Leyla mangiò con gusto e avidità, più perché il piatto tradizionale era stato preparato dalle grandi mani del suo adorato che per vero e proprio amore per la pietanza, ma la trovò comunque squisita.
Era emozionante per la ragazza permettersi di osservare Josh di sottecchi, quando questo si voltava per parlare con Jamie; quando invece posava lo sguardo su di lei o le rivolgeva qualche parola, abbassava gli occhi e fingeva di concentrarsi sul proprio piatto.
Ancora una volta, quella dispettosa parte di lei particolarmente impudente le urlava nella testa che sarebbe stato davvero magnifico poter restare lì per sempre. Avrebbe voluto provare in eterno quella sensazione di avvampo che dal petto le saliva in viso fino alla fronte.
Il formicolio che la invadeva al suo contatto visivo era quasi doloroso, ma al tempo stesso era assuefacente come una droga: Leyla non voleva rinunciarvi, voleva continuare a sperimentarlo ancora e ancora, finché avesse avuto vita.
Si sarebbe accontentata di annegare nei suoi occhi scuri in eterno, senza mai avere niente di più, le bastava poterlo avere accanto.
La sua priorità in quel momento era Hillary, e di scoprire qualunque cosa le fosse accaduta undici anni prima, ma voleva concedersi quella piccola illusione dolorosa e irrinunciabile, voleva goderne fino all’ultima goccia, perché sapeva che presto sarebbe svanita: in fin dei conti aveva a disposizione soltanto quattro giorni per restare a Bonnyrigg, perché sarebbe dovuta rientrare a Edimburgo in tempo per quando fossero riprese le lezioni.
Quattro giorni per scoprire qualcosa sul conto della sorella scomparsa.
Quattro giorni per drogarsi con il pensiero di un uomo che, razionalmente, non avrebbe mai dovuto infestarle la mente.
Quando si coricò nella sua stanza strinse forte a sé il topolino di pezza; sognò di nuovo Hillary.
Questa volta si vide da bambina, stesa insieme a lei in un letto ghiacciato ricoperto di neve. In mezzo a loro stava il topolino e i suoi occhietti neri si erano fatti scintillanti, come se non fossero più fatti soltanto di filo per cucire.
Le due bambine tremavano e si guardavano in viso. Nevicava su di loro; prima neve bianca, poi fu di nuovo la volta della neve rossa, e quest’ultima finì per ricoprire interamente Hillary fino, in qualche modo, ad assorbirla completamente in sé.
Quando la sorella non le fu più visibile, Leyla si alzò a sedere sul letto di neve e, guardando nel punto in cui Hillary si era trovata fino a pochi istanti prima, vide che si era venuta a formare la solita porta rossa. Alzò lo sguardo e, sopra di lei, aveva preso forma ancora il sole-luna blu; sempre fermo come se fosse affisso a una parete invisibile.
Tornò poi a guardare sul materasso gelido e scoprì che il topolino si era trasformato in una chiave. White Key. Quando la sollevò si accorse che non aveva cambiato la sua consistenza: era sempre fatta di pezza. L’avvicinò in quell’istante alla porta rossa scolpita dalla neve accanto a lei e la portò all’altezza della serratura. Entrò e girò due volte senza forzature.
Quando la porta rossa si aprì vide solo alcuni dei suoi capelli biondi.
 
V
 
PAUL GALLANT
 
 
Leyla si stava convincendo che il sangue che aveva visto più volte nei suoi sogni su Hillary fosse in realtà la trasposizione in immagini della sua paura che le fosse stato fatto del male. O si trattava di quello, oppure quel sangue doveva essere stato solo un simbolo, forse stava a significare soltanto che la bimba, con quell’uomo, aveva avuto paura.
Ci aveva pensato dopo aver nuovamente sognato di lei, e continuò a rifletterci per tutto il resto della giornata: forse Hillary era ancora viva da qualche parte, piano piano si stava abituando all’idea, per quanto ne fosse atterrita, e fremeva per l’impazienza di incontrare finalmente Paul Gallant faccia a faccia. Perché forse lui avrebbe saputo rivelare qualcosa, avrebbe saputo di più.
Esisteva davvero qualche possibilità che Hillary fosse finita tra le sue grinfie; ma i suoi erano artigli arrotondati, che facevano paura, ma che non potevano ferire a fondo, anche se questo non era valso per la piccola Holly Fisher.
Forse però con Hillary era andato tutto bene; forse lei non si era ribellata e il suo sequestratore non le aveva fatto del male.
In questo modo poteva essere finita tra le mani di una nuova famiglia, che forse le aveva anche voluto bene, rendendola un’estranea ai suoi occhi. Ma questo non le importava, non più di tanto, anche se il solo pensiero era spaventoso. Perché forse avrebbe lasciato Hillary tranquilla a vivere la sua vita, qualunque essa fosse, anche lontana da lei, ma sarebbe stata comunque felice di averla ritrovata, di sapere che, anche se non la riconosceva, la sua gemella stava continuando a vivere.
Forse in quel caso si sarebbe accontentata soltanto di vederla da lontano, anche se nemmeno lei stessa credeva a una fandonia simile: perché Leyla si era convinta che i sogni relativi a Hillary altro non fossero che richiami e quindi, in qualche modo, se sua sorella era ancora viva, doveva sapere della sua esistenza.
Eppure Leyla aveva già un’altra sorella; una sorella che la stava aspettando a casa.
In ogni caso non voleva andarsene da Bonnyrigg finché non avesse fatto luce su quella faccenda; e poi c’era Josh e, inutile negarlo, lui infestava di continuo i suoi pensieri, anche quando Leyla cercava di scacciare la sua immagine dalla mente.
E sentì un improvviso impulso di abbracciarlo quando, la sera del quattro gennaio, l’uomo informò lei e Jamie di avere ottenuto il permesso di far prendere parte a entrambe a un interrogatorio di Paul Gallant. Ovviamente si raccomandò con Leyla affinché questa si limitasse soltanto ad ascoltare e lasciasse che fosse Jamie a rivolgersi all’uomo.
Ancora una volta Josh avrebbe aspettato fuori perché, sostenne, non voleva intromettersi in questioni che non lo riguardavano. Affermò con calma e delicatezza che desiderava soltanto aiutarle rispettando la loro privacy; e Leyla lo amò ancora di più per quelle sue parole. Ovviamente la ragazza dovette trattenersi dal suo desiderio di stringerlo forte.
E l’incontro in centrale con Paul Gallant avvenne il giorno cinque, nel tardo pomeriggio.
Quella notte Leyla non era riuscita a dormire per l’agitazione, impedendosi così di tornare a sognare di Hillary. Eppure l’avrebbe voluto, perché forse avrebbe potuto conoscere qualche particolare in più; in quel modo non le restava che accontentarsi di ciò che già conosceva: la porta rossa, la chiave di pezza, il sole-luna blu di legno o terracotta, il sangue.
Già, quel sangue. Quello che forse era soltanto un simbolo o una sua suggestione negativa.
Comunque fosse, stava di fatto che aveva bisogno di saperne di più.
L’ansia si era accresciuta con il progredire della giornata, tanto che sia a colazione che a pranzo aveva fatto una tremenda fatica a ingurgitare il suo cibo; si era sforzata di inghiottire soltanto perché non voleva rischiare di essere vittima di un mancamento proprio nel momento decisivo.
Certo, un imprevisto del genere sarebbe stato quasi grottesco nella sua assurdità, però l’avrebbe irritata a morte. Così qualcosa aveva mangiato nonostante la mancanza d’appetito.
Infine, finalmente, l’ora prestabilita giunse.
Josh aveva fatto strada con la sua macchina alle altre due che lo seguivano con quella di Jamie a poca distanza. Era stata la donna (provocando una punta di stizza e fastidio in Leyla), a preferire che si avviassero separati al luogo dell’incontro: in auto voleva poter godere della riservatezza necessaria per parlare con la ragazza in santa pace, sia all’andata che al ritorno.
Soprattutto per quest’ultimo a dire il vero; perché forse, se qualche segreto fosse stato svelato, avrebbero avuto molto su cui discutere, come per esempio quale sarebbe stata la mossa successiva.
Anche perché, Leyla lo ricordava bene, dopo quel giorno ne aveva a disposizione soltanto altri due prima di essere costretta a tornare a casa per via della ripresa delle lezioni.
Lo ricordava perfettamente, ma non ci voleva pensare.
Aveva lo stomaco in subbuglio e il cuore a mille nel petto quando varcò la porta che poi le sarebbe stata richiusa a chiave alle spalle, che introduceva nello stanzino dell’interrogatorio.
C’era solo una piccola lampada da tavolo a illuminare l’ambiente e quell’artificiale fuoco arancione si rifletteva sul volto cupo dell’uomo ammanettato seduto a un lato della superficie di legno, e su di esso faceva nascere un’ombra spaventosa.
Tutto sembrava più oscuro di quanto fosse in quella stanza; in particolare l’espressione persa ma truce di Paul Gallant.
Come promesso, Josh era rimasto fuori dalla sala; sapeva che era meglio mantenere il silenzio sulla faccenda finché non fosse venuto a galla qualcosa di significativo, ma Leyla, o meglio la consueta e impertinente parte di lei più impudente, l’avrebbe voluto disperatamente accanto a sé. Perché permettersi di osservarlo e ricercare sicurezza nei suoi occhi l’avrebbe fatta sentire più a suo agio, più sollevata, meno terrorizzata.
Ma Josh era fuori, e Leyla doveva accontentarsi di Jamie. E doveva ricordare che a lei non era permesso rivolgere domande al carcerato.
Avrebbe soltanto osservato; e ascoltato.
Si sedette con Jamie di fronte all’uomo: barba incolta, capelli scarmigliati e sporchi, occhiaie, faccia scura. Le aveva fatto subito venire i brividi. Si era immaginata per un momento la sua sorellina, a cinque anni, in balia di quell’individuo orrendo e in quello stesso istante sperimentò la sua ipotetica paura. Si chiese anche perché aveva preso proprio Hillary e non lei.
-Paul Gallant, sono l’agente Jamie Fullmoon di Edimburgo, sono qui per rivolgerle alcune domande riguardo a un vecchio caso irrisolto svoltosi proprio  qui a Bonnyrigg, undici anni fa, nel quale, ho ragione di credere, sia implicato proprio lei- iniziò la donna decisa, lanciando alla ragazza un’occhiata rassicurante.
Leyla la incassò e apprezzò, ma avrebbe preferito riceverla da Josh; le avrebbe fatto certamente più effetto.
L’uomo che indossava la divisa carceraria alzò gli occhi vitrei ma cattivi su Jamie e la guardò intensamente per alcuni secondi. Anche se a Leyla diede più l’idea che non la osservasse realmente, ma le vedesse attraverso, come a una lastra di vetro.
-E mandano qui la polizia di Edimburgo per un caso così vecchio?-
-Sono qui in vesti non ufficiali, e comunque questi sono affari che non la riguardano- Jamie sosteneva fiera il suo sguardo; Leyla era certa che non avrebbe mai saputo fare altrettanto.
Leyla teneva gli occhi bassi e li alzava solo fugacemente, con timore; improvvisamente le era parso di essere tornata ad avere cinque anni. Era come se avesse preso il posto di Hillary quel giorno lontano. Le arrivava alle narici il suo odore sgradevole, quell’olezzo che sapeva di paura.
Paul Gallant ripose alla tenacia di Jamie con un grugnito, forse di disapprovazione.
-Lei veda soltanto di collaborare- aggiunse pacata mentre estraeva dal fascicolo che aveva con sé la fotografia di Hillary. Quell’immagine che subito causò un tuffo al cuore a Leyla; soprattutto perché, non appena l’uomo osservò i lineamenti della bimba della foto, posò subito lo sguardo su di lei.
-È lei?- domandò con voce gutturale facendo cenno a Leyla con il capo; la ragazza sussultò e per poco non si ritrovò a sobbalzare sulla sedia, o peggio ancora, ad alzarsi di scatto e a chiedere a uno degli agenti di sicurezza di aprirle la porta per lasciare la stanza. Non lo fece soltanto perché voleva sapere e perché Jamie fu subito pronta ad attrarre nuovamente l’attenzione dell’uomo.
Quanto avrebbe voluto però poter uscire e gettarsi tra le braccia di Josh. Quelle braccia forti che dovevano essere come il paradiso.
-Punto primo: qui le domande le faccio io, signor Gallant. Punto secondo: le ho già fatto notare che si tratta di un caso di sparizione irrisolto, quindi se quella foto raffigurasse la mia accompagnatrice non sarei certamente qui- esclamò la donna con freddezza.
Leyla sentiva il battito del suo cuore fin nelle orecchie e credeva che da un momento all’altro avrebbe smesso di respirare. Però voleva sapere; doveva sapere.
-La guardi bene- riprese quindi Jamie; l’uomo le obbedì e tornò a osservare la foto -ha mai visto quella bambina? Stiamo parlando di undici anni fa, quindi del 2001, si sprema bene le meningi-.
Paul Gallant mantenne gli occhi fissi sulla foto per più di un minuto, poi tornò a spostarli su Jamie. Dal suo angolo mentale che le fungeva da nascondiglio, Leyla notò che lo sguardo di lui sembrava più rilassato.
-Mai vista, no-
-Sicuro? Ci pensi bene-
-Una bimba così bella me la ricorderei- affermò e, detto questo, lanciò uno sguardo allusivo nei confronti di Leyla; il cuore della giovane saltò un battito.
Mentiva, si disse. Mentiva. L’aveva vista, l’aveva tenuta con sé e la ricordava benissimo.
Però forse il sangue c’era stato davvero; perché Hillary era una bella bambina e forse il mostro non aveva resistito. Forse lo faceva con le vittime dalle quali era attratto.
Forse era avvenuto lo stesso con Holly Fisher, per questo poi aveva dovuto ammazzarla. Non ricordava di aver letto informazioni inerenti alla violenza carnale nel fascicolo del caso, ma pensava che forse non ricordava bene. Avrebbe ricontrollato quando fosse tornata a casa di Josh. Il suo adorato Josh che si trovava fuori da quella porta.
-D’accordo. Allora mi sa dire dove si trovava il tredici febbraio di quell’anno? Visto che è in possesso di una così eccellente memoria da ricordare con tanta sicurezza chi ha visto o chi no, si concentri e risponda a questa domanda- Jamie non opponeva resistenza alle parole dell’uomo, ma aveva intenzione di andare fino in fondo.
-Il tredici febbraio del 2001?-
-Esatto-
-Allora vediamo … il tredici … il tredici febbraio … 2001-.
Leyla ebbe l’impressione che stesse cercando di prendere tempo.
-Risponda sinceramente. Con tutti i dati che sono stati raccolti sul suo conto non ci vorrà molto per venirlo a sapere di nostro- lo incitò Jamie.
-Sì … sì, mi pare che fossi qui a Bonnyrigg, anche se non sono sicuro che fosse proprio il tredici e non il quattordici. Vi consiglierei di andare a controllare- e detto questo Paul Gallant sfoggiò un disgustoso sorrisino ironico e sprezzante.
-C’è poco da fare dello spirito- riprese l’agente -se si trovava qui a Bonnyrigg, è un motivo in più per crederla coinvolto in questa scomparsa-. Lo sguardo di lui si fece torvo -ho detto che non ricordo se era il tredici o il quattordici- sbottò e la sua voce suonò talmente inquietante che gli agenti di sicurezza alla porta scattarono in avanti.
Jamie fece loro segno di desistere e lasciarla proseguire.
-Va bene, allora mi sa dire che cosa ha fatto questo famoso giorno tredici o quattordici?- domandò risoluta e per nulla intimorita. Al contrario Leyla si era presa un grosso spavento. Dentro di lei però cominciava a serpeggiare anche un altro sentimento oltre alla paura: la convinzione sempre più radicata che quell’uomo avesse a che fare con la sparizione di Hillary, che ricordasse tutto e stesse fingendo. Da qui scaturiva anche l’odio verso quest’ultimo.
Furtivamente aveva iniziato a farsi coraggio e ad alzare lo sguardo su di lui e stava cercando di leggergli dentro.
-Ero in affari con un tizio: un inglese, che mi pare si chiamasse Potter. Mi ricordo che avevo preso con me un marmocchio di due anni da quattro o cinque giorni e dovevamo incontrarci perché dovevo consegnarglielo- affermò sicuro.
Mente. Pensò Leyla con furore. Mente quel bastardo.
-E com’è che doveva incontrare un inglese proprio a Bonnyrigg?-
-Perché questo è un posto tranquillo e facile in cui operare, cara signora agente. Non si passano tanti anni in questo campo senza imparare quali sono i luoghi più sicuri per fare lo scambio tra merce e dindini- Paul Gallant sembrava ormai aver intrapreso la piacevole strada della canzonatura.
-A quanto pare però è stato proprio questo posto tranquillo a tradirla, o mi sbaglio?-
-Purtroppo gli imprevisti capitano-
-Già, vada a parlare di imprevisti ai genitori di quella bambina-.
L’uomo tacque e fermò le pupille su Jamie per diversi istanti. Leyla fu certa che la guardasse divertito, ma anche con un po’ di desiderio celato negli occhi. Probabilmente non avrebbe esitato ad approfittare di lei se ne avesse avuto l’opportunità.
-Sono qui per pagare per quello che ho fatto- riprese infine -ma non ho preso quella bambina, né l’ho mai vista in vita mia, ho solo notato che somiglia alla biondina qua, per questo chiedevo se fosse lei-.
Leyla a quel punto non ci vide più e si alzò in piedi di scatto, mandando al diavolo la sua parola di non fare niente e non aprire bocca. Il suo sguardo era furente e stringeva i pugni per la collera.
-Sì che l’hai presa tu, bastardo e te la ricordi anche bene- strillò.
Nel frattempo anche Jamie si era alzata dalla sedia e l’aveva presa per le spalle, cercando di calmarla e invitarla a ricomporsi.
-Te la sei anche fatta, vero? Anche se aveva solo cinque anni. E poi l’hai uccisa? Sì, forse sì, maledetto- e subito si fiondò in avanti, verso il tavolo.
-Cosa hai fatto alla mia sorellina, bastardo? Dimmi cosa le hai fatto!- urlò mentre le salivano le lacrime agli occhi.
Paul Gallant ebbe giusto il tempo di esclamare -è agitata la biondina!- che Jamie, spronandola a tacere, la stava conducendo fuori dalla stanza dell’interrogatorio.
 
Durante il viaggio di ritorno lei e Jamie avevano litigato. L’auto di Josh le precedeva di poco e la ragazza avrebbe preferito trovarsi sul sedile del passeggero accanto a lui, piuttosto che all’amica che in quel momento considerava una traditrice.
L’aveva accusata tra le lacrime di non aver fatto abbastanza, di aver dato troppo credito alle parole di Gallant. Perché lei sapeva che era colpevole, che mentiva, ma non aveva potuto provarlo; Jamie non era stata in grado di portare alla luce tutto ciò.
Dal canto suo, Jamie l’aveva rimproverata per non essere stata buona e in silenzio come aveva promesso di fare; le aveva anche dato della stupida, perché a causa del suo comportamento non le avrebbero certamente più fatte avvicinare al detenuto.
Leyla aveva contrattaccato dicendo che non le interessava vedere di nuovo quel delinquente bastardo, ma che voleva andare a casa sua, quella con la porta rossa sul retro (c’era la porta rossa, esisteva forse una prova più lampante?) perché voleva vedere se alla parete era affisso il sole-luna del suo sogno. Se l’avesse trovato avrebbe avuto la certezza di avere ragione riguardo al sequestratore di bambini.
Jamie però l’aveva disillusa subito, facendole notare che non poteva certamente immettersi in un luogo in cui si stavano svolgendo delle indagini; non le sarebbe mai stato premesso di entrare in una casa transennata, come le saltava in mente?
Leyla aveva risposto che per essere un’amica, Jamie non la stava aiutando affatto, anzi, non faceva altro che intralciare i suoi piani. Ripeté un’altra volta di voler accedere a ogni costo all’abitazione di Gallant, e di nuovo l’altra le aveva risposto con un no secco, rinfacciandole anche il fatto che forse avrebbero potuto fare di più se si fosse risparmiata la scenata di poco prima in centrale.
Da quel momento in avanti Leyla non le parlò più e non appena giunsero a casa di Josh non fece altro che correre nella stanza che le era stata assegnata e gettarsi a piangere sul letto.
Si rendeva conto che quel viaggio non l’aveva e non l’avrebbe portata a niente, lasciandola più disperata di prima. Perché se le cose dovevano andare così, se doveva convivere con la certezza di quello che era accaduto a Hillary, senza però avere la possibilità di dimostrarlo, allora avrebbe preferito continuare a non ricordare niente, a credere che Hillary non fosse mai esistita.
Sarebbe stato molto meglio.
Mentre sfogava nel pianto tutta la sua frustrazione aveva stretto a sé il topolino di pezza della sua sorellina scomparsa, quasi invocasse un nuovo segno, una svolta che imponesse a quel vicolo cieco una nuova prospettiva. Perché non riusciva ad accettare di essere andata fino lì per niente.
Le sarebbe bastato poter entrare a casa di Paul Gallant. Al diavolo le indagini in atto, lei non avrebbe toccato nemmeno un soprammobile; voleva soltanto guardare le pareti, vedere se c’era il sole-luna blu. Possibile che Jamie non capisse quanto per lei fosse importante?
Le sarebbe bastato trovare quel dettaglio e il quadro sarebbe stato completo; avrebbe avuto così la certezza che Hillary fosse stata tenuta prigioniera in quella casa e di sicuro, in quel modo, avrebbe trovato una soluzione che spingesse quell’uomo a confessare.
Se invece non l’avesse trovato (e Leyla dubitava che sarebbe accaduto), si sarebbe messa il cuore in pace, riconoscendo l’innocenza di Paul Gallant, e rendendosi conto che non c’era speranza di scoprire la sorte di sua sorella dopo tutti quegli anni e in così breve tempo.
Eppure doveva trovare qualcosa, perché lei finalmente aveva la chiave. La chiave bianca. La chiave di pezza. Le restava soltanto da aprire la porta rossa.
Fu più tardi, oltre un’ora dopo che non volle scendere per consumare la cena, che sentì bussare alla porta. Credendo che fosse Jamie si voltò su un fianco infastidita e non rispose.
L’uscio si aprì ugualmente.
-Si può?- fece dolcemente quella voce che subito la fece sussultare. Si mise a sedere frastornata mentre il cuore le batteva nel petto come una furia impazzita.
Josh, con stampato in viso il suo sorriso tenebroso, si stava avvicinando al letto.
Il cuore le saltò in gola quando si sedette sul materasso e la guardò negli occhi; quegli occhi arrossati per il pianto che la ragazza avrebbe preferito che lui non vedesse.
-Leyla, non voglio vederti soffrire- le disse accennando sul suo viso una delicata carezza. Leyla si sentì completamente invasa dai brividi. Era ancora abbattuta, ma avendolo così vicino si stava già sentendo meglio. Se solo avesse potuto restargli accanto anziché tornare a casa.
Non poteva pensare che mancassero solo due giorni.
Gli sorrise debolmente -non ti preoccupare- rispose poi con un filo di voce.
-So che è successo un mezzo pasticcio in centrale prima, anche se non ho capito bene cosa sia accaduto, visto che non so a quale caso tu sia legata- fece una breve pausa -non ti va di parlarmene?-.
Le sarebbe andato eccome, perché avrebbe voluto condividere tutto con lui, però sapeva che non era il caso, così si limitò a scuotere la testa.
-Voglio solo poter andare a casa di quell’uomo- iniziò, di nuovo sul punto di piangere -dovrei soltanto vedere una cosa, devo solo guardare le pareti- e detto questo strinse forte il pupazzo di Hillary.
-È  importante per te? Molto?-
-Sì, più di qualunque altra cosa- e Leyla lo guardò intensamente negli occhi, perdendosi nelle sue iridi nere come la notte. Una notte splendida.
-Hai detto che devi solo guardare una cosa? Non toccheresti niente?-
-No, devo solo guardare le pareti- ripeté. Lui la guardava stranito.
-Penso ci sia appeso un oggetto, voglio vedere se ho ragione- spiegò. Josh non sembrò capire, ma le sorrise lo stesso. Quel sorriso che riusciva a farla sentire bene.
Avrebbe soltanto voluto che restasse con lei in quella stanza per tutta la notte, o meglio ancora per sempre. Sì, perché no? Disse di nuovo la vocina impudente. Farlo quella notte con lui non sarebbe stato male, anche perché lei non voleva nessun altro.
-Io sto seguendo questo caso, lo sai, e domani devo trovarmi in casa di Gallant per proseguire le indagini- iniziò con calma -se vuoi puoi venire con me e guardare le pareti come desideri. Però devi promettermi che non toccherai assolutamente niente, nemmeno l’oggetto più insignificante-.
Leyla non poté credere alle sue orecchie. In un impulso dettato dalla gioia si lanciò verso di lui e lo abbracciò forte.
-Non toccherò niente di niente, te lo giuro, te lo giuro! Portami lì, ti prego!- esclamò tra le lacrime. L’uomo la rassicurò.
Lei lo ringraziò una, dieci, cento, mille volte e probabilmente l’avrebbe fatto in eterno se Josh non l’avesse allontanata da sé e, dopo averle sorriso di nuovo, non le avesse augurato la buonanotte.
A Leyla si strinse il cuore nel vederlo uscire dalla stanza, ma la gioia che provava all’idea dell’iniziativa di Josh era tanto enorme da renderla comunque felice.
Era certa che l’indomani avrebbe trovato il sole-luna del suo sogno appeso alla parete. Era certa che avrebbe fatto luce su tutta quella faccenda.
Sapeva, per altro, che da quella sera amava Josh ancora di più.
 
VI
 
LA PORTA ROSSA
 
Quella notte aveva fatto di nuovo il sogno del letto ghiacciato su cui lei si trovava insieme a Hillary; sopra di loro pendeva il sole-luna blu, poi scendeva la neve rossa che ricopriva la bambina scomparsa fino a inghiottirla. Il topolino di pezza che si era trovato in mezzo a loro per tutto il tempo si era tramutato in una chiave di pezza; con questa Leyla aveva aperto la porta rossa e, dentro, non aveva trovato altro che alcuni capelli di Hillary.
Il pomeriggio successivo era andata con Josh a casa di Paul Gallant, sicura che avrebbe trovato il sole-luna appeso a una delle pareti dell’abitazione, ma così non fu.
Cercò e osservò con attenzione, guardò più o più volte per essere sicura di non lasciarsi scappare nemmeno un frammento di muro, ma non scorse ugualmente l’oggetto che andava cercando e che avrebbe consolidato la sua tesi.
Era tornata a casa avvilita, distrutta e sentendosi tradita da se stessa, perché si rendeva conto che quel viaggio era stato totalmente inutile, che ormai Hillary era persa per sempre.
Si chiedeva anche come avesse potuto credere di risolvere il caso basandosi sulla forza dei suoi sogni, e per di più in così pochi giorni. Era stata una follia, un’inutile e tremenda follia, che le imponeva di doversi separare anche da Josh. Avrebbe perso per sempre anche lui.
Era vero che Bonnyrigg distava da Edimburgo non più di una ventina di minuti in auto, ma a quale scusa avrebbe potuto addurre per tornarci? Avrebbe dovuto dire qualcosa tipo mamma, la prossima volta che vai da zia Sarah vengo anch’io, ma prima vorrei passare a salutare un amico. Beh sì, un amico un po’ speciale che mi piace molto. Quanti anni ha? Mi sembra trentasette. No, non avrebbe sicuramente funzionato.
Le restavano soltanto quella notte e il giorno successivo per restare lì, non avrebbe mai concluso o scoperto niente. Era stata stupida a credere di poter trovare qualcosa, a pensare che bastassero i richiami di sua sorella per condurla alla verità.
Eppure Hillary la stava chiamando da qualche parte e per questo Leyla si sentiva una traditrice anche nei suoi confronti. Non era stata in grado di seguirla, di porre tutte le sue attenzioni sulla chiave di pezza. Aveva voluto fare d’istinto, di fretta, mossa dall’ansia di arrivare a qualcosa al più presto, convinta che la soluzione fosse a portata di mano.
Ma si era solo impuntata a seguire la via più semplice, quella che pareva risolvere tutto e subito, ma che non si era rivelata altro che una falsa pista.
Non era stato Paul Gallant a prendere sua sorella. Non l’avrebbe trovata mai più, forse Hillary non sarebbe nemmeno più tornata nei suoi sogni.
Quella sera era scesa per la cena, ma aveva mangiato poco; dopo era rimasta un po’ da sola con Jamie affinché potessero chiarirsi e ristabilire la pace tra loro. Si era scusata e l’amica l’aveva rassicurata con un abbraccio. Leyla, stretta in quell’abbraccio, si era lasciata andare a singhiozzi arrendevoli e rassegnati. Perché oramai aveva soltanto da aspettare che arrivasse l’ora di tornare indietro; avrebbe detto definitivamente addio a Hillary e anche a Josh.
Non le restava altro che cominciare ad abituarsi all’idea, anche se era inaccettabile.
Quella notte, prima di addormentarsi, aveva deciso di lasciare accesa la luce sul comodino e lo era ancora quando si svegliò di soprassalto, sentendo la porta aprirsi.
Si tirò a sedere spaventata e non riuscì a capire per quale motivo Josh stesse entrando, chiudesse a chiave, e le facesse segno di fare silenzio portandosi l’indice alle labbra.
Lo osservò avvicinarsi al letto con il cuore che le martellava come un tamburo nel petto.
-Leyla- la chiamò a bassa voce sedendosi sul materasso, un po’ come aveva fatto la sera precedente; Leyla lo ricordava. Deglutì rumorosamente quando lui le prese il viso tra le mani.
-Leyla, come posso pensare di lasciarti andare?- le sussurrò dolcemente. La ragazza era così stranita e stregata da quelle parole che non fu in grado di rispondere.
-So che non avrei dovuto- riprese dunque l’uomo, ora accarezzandole il viso -ma in questi giorni, da quando ti ho vista, non ho fatto altro che pensare a te, giorno e notte-.
-A-anch’io. Anch’io ti ho pensato sempre- rispose Leyla al colmo dell’emozione.
E dentro di lei, il solito lato impudente cominciava a eccitarsi.
Nel frattempo Josh si era posto in ginocchio sul letto; Leyla aveva fatto lo stesso di fronte a lui e in quel momento l’uomo la stava stringendo in vita.
-Tu sei una ragazza fantastica, non ho fatto altro che sognarti. So che sei troppo giovane per me, ma ho bisogno di averti prima che tu te ne vada per sempre-.
Leyla si sentì arrossire e cominciare a tremare.
-Ma non farò niente che tu non voglia- e detto questo avvicinò le sue labbra a quelle della ragazza, attendendo un cenno di questa per andare oltre.
Leyla sentì il suo respiro mischiarsi con quello di Josh e senza poter resistere oltre lo baciò con trasporto. Era il suo primo bacio, ma se la cavò bene. La passione che provava nei suoi confronti liberava con vigore il suo istinto femminile.
Josh a quel punto discese a baciarla sul collo, poi riprese a parlare.
-Te lo voglio chiedere, perché voglio essere in grado di fermarmi- ansimava -vorresti essere mia per questa notte, Leyla? Vuoi concederti a me?- e dicendolo le aveva stretto più forte i fianchi.
Lei si stese supina sul materasso -io sono già tua, Josh. Lo sono dal primo istante-.
Lui allora le sorrise e subito le fu addosso. Leyla percepì lo spessore del suo desiderio che, intrappolato nei pantaloni, ormai premeva su di lei.
Lo baciò di nuovo con foga e affondò le dita tra i suoi capelli, beandosi del suo profumo che sapeva di notte, così come simili alla notte erano i suoi occhi.
Passarono pochi istanti prima che entrambi si ritrovassero senza vestiti; lui le aveva allargato le gambe e, prima di prenderla, le aveva dato un nuovo bacio e le aveva sorriso.
-Ti amo, Josh- aveva sussurrato lei, poi l’uomo era entrato.
 
Quando si svegliò, quelle ultime parole pronunciate in sogno le risuonavano ancora nella testa: -Ti amo, Josh. Ti amo, Josh-. Al primo momento le era sembrato di sentire ancora addosso e tra le gambe il suo calore, ma poi si era resa conto che si trattava soltanto del suo stesso sudore.
La luce era ancora accesa sul comodino, così come l’aveva lasciata prima di addormentarsi e sognare Josh che entrava nella sua stanza per fare l’amore con lei.
Un sogno assurdo, folle, improponibile. Così come era stata assurda e folle l’idea di giungere a Bonnyrigg per trovava la verità su Hillary, quella sorella perduta che forse non sarebbe davvero più apparsa nei suoi sogni. Forse era stata lei stessa a volervi insinuare dentro Josh, perché non poteva accettare di lasciarlo; lei sentiva di amarlo davvero e con tutta se stessa.
Se lui si fosse davvero presentato sul suo letto, chiedendole di fare l’amore con lui, lei non ci avrebbe pensato due volte, anche se aveva soltanto sedici anni contro i trentasette di lui; anche se lei non si era ancora mai donata a nessuno.
Perché Leyla sentiva che non avrebbe potuto amare nessun altro per tutta la vita che non fosse Josh; lui era l’uomo per lei, l’unico che potesse farle provare quei brividi, l’unico che potesse svegliare in lei quel sentimento.
Ma la crudeltà del destino le imponeva di dimenticarlo per forza, di rinunciare a lui, così come sentiva di dover rinunciare a sua sorella Hillary.
Si voltò sul fianco con le lacrime agli occhi, stringendo in una mano il topolino di pezza.
Allungò l’altra verso il comodino e afferrò la statuetta in ceramica della donna e della tigre avvinghiate insieme. Leyla non era ancora una donna, ma si sentiva come una tigre in gabbia.
*
 
La mattina successiva era rimasta a letto fino a tardi, sebbene non avesse dormito quasi per niente in seguito al sogno su Josh. Se n’era stata lì distesa con lo sguardo rivolto verso il soffitto, a respirare profondamente, stringendo con forza al petto il topolino di pezza; la chiave di pezza che non aveva la sua porta da aprire.
Non aveva pensato in quei momenti, piuttosto si era sforzata di liberare la mente e di perdere il contatto con la realtà. Non voleva sentire più niente, non voleva più rendersi conto di niente.
Di lì a ventiquattro ore sarebbe dovuta tornare a casa con Jamie e, anche se non voleva che accadesse, non poteva farci niente. Ma forse era comunque meglio così: perché dopo il sogno di quella notte dubitava che sarebbe stata più in grado di guardare Josh in volto; già aveva sempre fatto fatica a farlo di suo, le sarebbe diventato totalmente impossibile dopo quell’incontro amoroso ma onirico con lui.
Si era sforzata di scendere all’ora di pranzo, ma quasi subito era tornata in camera; aveva trascorso lì il resto della giornata, un po’ stesa sul letto, un po’ guardando fuori dalla finestra chiusa.
Attendeva rassegnata che giungesse la morte del giorno, quel tramonto che segnava la fine di tutto; perché la volta successiva in cui avesse visto quel sole d’inverno sarebbe stato troppo vicino il momento dell’addio. Sapeva che doveva arrivare, ne era consapevole, ma faticava comunque a realizzarlo. Perché la mattina seguente avrebbe perso tutto.
Il mistero di Hillary sarebbe per sempre rimasto sepolto sotto la neve lucente di quel giorno lontano; una neve che non cancellava, ma avrebbe coperto ancora e ancora, finché non si fosse notato più nulla. Forse sarebbe tornata a dimenticarla e il pensiero era sconvolgente.
Leyla voleva portare Hillary dentro di sé, ma non sarebbe stato così facile, per quanto ancora la amasse, se non era stata in grado di scavare a dovere.
Avrebbe dovuto scavare nella neve rossa, ma non l’aveva trovata.
Addio Hillary. Addio per sempre. Si era ritrovata a pensare mentre già le sembrava che l’oblio le calasse addosso come un’agghiacciante sipario nero. Fine dello spettacolo. Fine dei giochi. Fine delle speranze. Quel che era perduto sarebbe rimasto tale.
Aveva proseguito il pomeriggio ascoltando la musica con il suo lettore mp3, e più volte era tornata indietro alla stessa canzone, quella che srotolava dolci parole relative a una fuga d’amore. E quella parte di lei, quella impudente, quella che si faceva sempre più forte e autoritaria, avrebbe davvero voluto poter scappare con lui. Se non poteva riavere indietro sua sorella, desiderava ricavare comunque qualcosa da quel viaggio. Sarebbe fuggita volentieri con Josh, se soltanto lui l’avesse mai considerata (e avesse avuto voglia di infrangere la legge portando con sé una minorenne), e a Leyla sarebbe dispiaciuto soltanto doversi lasciare indietro una persona: Laurie.
Soltanto quell’ultimo giorno si domandò come stesse; la povera piccola Laurie che aveva trovato la chiave che lei non aveva saputo usare e che senza dubbio la stava aspettando impaziente. La sua sorellina. Si rammaricava di aver perso una sorella, ma nel caso fosse mai scappata con Josh ne avrebbe persa un’altra. Avrebbe forse avuto il coraggio di farlo davvero? Non lo sapeva; era certa soltanto del fatto che stava perdendo tutto, persino il controllo di se stessa.
Arrivò a sera senza uscire dalla sua stanza se non per andare al bagno, poi si sforzò nuovamente di farsi vedere al piano di sotto per la cena. Ancora una volta si limitò a spizzicare dal suo piatto più che mangiare, ma pensò che forse, una volta tornata a casa e lasciatasi alle spalle tutta quella faccenda (e Josh. Poteva lasciarsi alle spalle lui, come se niente fosse?) le sarebbe tornato l’appetito.
Appena aveva potuto se n’era tornata in camera e svogliatamente e con rammarico aveva iniziato a preparare la sua borsa dei vestiti.
Cosa avrebbe pensato sua madre se avesse saputo il motivo del suo viaggio? Se avesse saputo che si era recata proprio a Bonnyrigg avrebbe avuto dei sospetti, forse. Leyla pensò che se aveva fatto una cosa giusta nei giorni precedenti, questa era stata proprio il fatto di non aver aperto bocca con sua madre al riguardo. Parlarle nuovamente di Hillary l’avrebbe sconvolta e averlo fatto per niente sarebbe stato inaccettabile e crudele.
Era meglio lasciare che tutto restasse sepolto dalla neve così com’era stato prima che la manina di Laurie scavasse per trovare il topolino di pezza.
Leyla lo teneva in mano, seduta sul bordo del letto, e lo osservava malinconica. Ancora una volta, come la notte prima, prese anche la statuetta sul suo comodino; la mise a confronto con il pupazzo: quelli erano i due simboli di ciò che più aveva amato e a cui era stata costretta a rinunciare.
Erano soltanto due semplici oggetti, ma le stavano facendo del male. Strinse forte il topolino al petto mentre, senza guardare, tornava ad appoggiare sul comodino la statuina della donna con la tigre. Ma senza accorgersene la appoggiò sul bordo; cadde e si ruppe in due, proprio all’altezza della testa del felino.
Le scappò un’imprecazione; una di quelle che i suoi non volevano assolutamente sentirle dire e che lei si guardava bene dal pronunciare in casa.
Nervosamente risollevò la statuetta da terra. E adesso? Le tremava la mano mentre lo pensava.
Quello sì che era un vero colpo di fortuna: era obbligata a lasciare Josh, questo lo sapeva, ma voleva che all’uomo restasse almeno un ricordo positivo di lei; e invece no, era andata a rompere una bel soprammobile che lui aveva accuratamente riposto nella sua stanza. Brava Leyla, davvero complimenti! E quasi le venne voglia di schiaffeggiarsi da sola per non essere stata attenta a quel che faceva. Non che si sarebbe proprio massacrata le guance: uno schiaffetto giusto per tornare in sé non le avrebbe fatto male; ma lasciò perdere, in fondo lasciarsi l’impronta delle sue stesse dita sulla gota non avrebbe rimesso insieme i due pezzi separati.
Ma la colla sì. Quella avrebbe potuto benissimo rimediare al danno, se non perfettamente, almeno un po’. E magari, in quel modo, Josh non si sarebbe accorto subito della statuetta rotta, e forse non avrebbe sospettato di lei.
Bella idea, restava il fatto che non sapeva dove trovare l’occorrente.
Ripeté un’altra volta l’imprecazione di poco prima e poi, in punta di piedi, uscì dalla stanza cercando di non far scricchiolare la porta.
Non si era nemmeno resa conto di aver portato con sé il topolino di pezza.
Mentre camminava si mordeva il labbro inferiore. Temeva che lui si svegliasse, percorresse i suoi stessi passi, e la scoprisse nell’intento di frugare tra le sue cose; a quel punto la scusa ti ho rotto una statuetta, sto cercando la colla, non sarebbe stata né utile né lusinghiera.
Il corridoio era buio, ma non così tanto da non poter scorgere nemmeno i propri piedi, così Leyla riuscì a raggiungere le scale e iniziò a discenderle. Piano. Un gradino alla volta. Certo, sarebbe stato antipatico farli tutti insieme e magari scendendo di faccia.
Ma fortunatamente arrivò di sotto sana e salva.
Soltanto a quel punto si concesse di accendere una prima luce. Muovendosi sempre con passo felpato pensò a quale poteva essere il posto migliore per cominciare a cercare: l’armadio della sala, i cassetti sulla scrivania, la cucina? Cominciò dal primo: aprì le ante, ma non trovò altro che libri, dischi e qualche vecchia videocassetta dei tempi che furono. Trovò anche qualche scatolina, ma erano tutte vuote o contenenti cose di poco conto.
I cassetti della scrivania le apparvero subito più probabili; aprendoli trovò una grossa confezione di graffette (di quelle che durano tutta la vita e si possono anche tramandare ai posteri), una pinzatrice, forbici, scotch e … la colla; ma era quella a bastoncino, e non avrebbe riattaccato un granché.
L’imprecazione le salì di nuovo alle labbra, ma in questo caso si sforzò di trattenerla.
Dove le restava da guardare? In cucina? Era meno possibile ma non di certo da escludere, anche perché in cucina si potevano trovare, a volte, le cose più disparate: una volta suo padre, in uno dei cassetti, ci aveva lasciato un calzino e questo era tutto dire.
Anche in questo caso, però, non ebbe fortuna: trovò solo gli attrezzi strettamente correlati alla stessa cucina come mestoli, spatole, forchette, coltelli e affini. Ma niente colla ultraresistente.
Uscendo dalla cucina spense la luce e cominciò a tornare verso le scale; stava quasi per risalire quando le tornò in mente la cassettiera vicina all’ingresso.
Un’ultima occasione: forse sarebbe stata quella buona.
Accese la luce del corridoio, spegnendo quelle accese in precedenza.
Aprì il primo cassetto: c’erano solo cavi che non si azzardò nemmeno a toccare per paura di combinare un disastro. Fece lo stesso con il secondo e lì poté concedersi di frugarvi dentro: trovò un vecchio telefono ormai inutilizzabile, vari documenti che non si scomodò a leggere, una pinza e dei dizionari tascabili (uno di questi era inglese – gaelico scozzese).
Il terzo cassetto era vuoto.
Se ne stava per tornare in camera quando le venne in mente che forse non aveva inserito bene la mano nell’angolo a destra del secondo cassetto. E con la fortuna che stava avendo nel trovare le cose, probabilmente la colla che cercava si sarebbe trovata proprio in quel punto.
Comunque stessero le cose, si disse che valeva la pena dare una seconda occhiata, così tornò indietro. Riaprì il cassetto, andò ad analizzare l’angolo che era rimasto oscuro, ma non trovò nulla. Dandosi della stupida spostò da un lato i documenti a cui poco prima non aveva prestato molta attenzione; le era sorto il dubbio di aver cambiato loro posizione inavvertitamente; e se Josh era un poliziotto ci avrebbe messo davvero ben poco per rendersene conto. E nemmeno quella sarebbe stata una gran bella cosa: aveva già fatto abbastanza, non voleva combinare altri disastri.
Ma fu proprio in quel momento che se lo trovò tra le mani.
Nella destra stringeva ancora il topolino di pezza, così vi venne a contatto; era rimasto proprio sotto a quei fogli, tra il terzo e il quarto, e poco prima non ci aveva fatto caso.
Era di terracotta, non di legno, se ne accorse toccandolo; ed era blu. Un sole e una luna sorridenti erano intrecciati nell’abbraccio della loro eclissi. Leyla notò che la cordicella in alto, quella che avrebbe dovuto essere posta sul chiodo affisso alla parete, era rotta da un lato, rendendo impossibile l’esposizione dell’oggetto.
Fin da subito le tremarono le mani. Un indizio da solo non è abbastanza, devono essere tutti uniti. Si disse nelle mente cercando di convincersi, ma le sue gambe iniziarono ugualmente a muoversi verso quella porticina che aveva notato di sfuggita il giorno del suo arrivo; quella dello scantinato che si trovava proprio accanto al vano-scala.
Quella porticina che però era marrone.
La porta rossa da sola non era bastata, lo stesso doveva valere per il sole-luna blu.
Quando vi fu di fronte si ritrovò a osservare la parete bianca proprio al di sopra dello stipite superiore: lì c’era un segno circolare nero, ma era poco calcato e si distingueva appena se non si guardava con attenzione. O meglio, se non si sapeva dove guardare.
Lo strinse forte tra le mani e, nello stesso tempo, strinse forte anche il topolino di pezza: la chiave bianca. La chiave di pezza. Aveva davanti una porta in quel momento e, anche se non era rossa, doveva comunque azzardarsi ad aprirla. Quando provò, constatò che era chiusa a chiave.
No. Non Josh. Non Josh. Tutti ma non lui. Io lo amo. Pensava tremando.
In quel momento le restava una sola cosa da fare: andare a chiamare Jamie e lasciare che fosse lei a prendere in mano le redini della situazione.
 
Quando le mostrò il sole-luna blu, Jamie si preoccupò che Leyla fosse sul punto di svenire: tremava vistosamente ed era pericolosamente bianca in viso. Anche lei si era quasi sentita mancare in quel momento, ma prendendo il controllo di sé si era diretta al piano di sotto con la sua giovane amica.
Con sé aveva portato una forcina per capelli: aveva detto che non si passano tanti anni in polizia senza imparare qualche trucchetto dai fetenti a cui si corre dietro; così, appena fu davanti alla porta, si adoperò per allineare con la forcina tutti i pistoncini della serratura. La sua mano, a differenza di quelle di Leyla, non tremava. Ma lei sapeva bene che Jamie era in grado di essere una donna di polso e mantenere il sangue freddo, per questo se l’era sentita, undici anni prima, di cimentarsi nelle ricerche di Hillary sebbene conoscesse sua madre, e questo rendesse il compito più arduo e sgradevole.
Non le ci vollero più di un paio di minuti. Per tutto quel tempo Leyla aveva continuato a pensare che dovesse per forza trattarsi di un sogno, perché quel che stava accadendo era assurdo; non certo meno dell’amore tra lei e Josh sul letto della sua stanza.
Quando la porta finalmente si aprì, Jamie tastò la parete adiacente per cercare l’interruttore; in breve lo scantinato fu illuminato da una debole e intermittente illuminazione arancione.
Non era un granché, ma fu più che sufficiente: ai piedi della scala che discendeva verso il sotterraneo, nell’angolo in fondo a sinistra, c’era una bambina legata e con il capo reclinato su una spalla. Sia Jamie che Leyla, dopo un primo istante di stordimento, si fiondarono verso di lei; la donna le sollevò la testa e cominciò a esaminarla. Per prima cosa le sentì il polso ponendole due dita sulla carotide: era viva, ma il battito era molto debole, per di più era priva di sensi.
Guardandola in viso Leyla riconobbe subito Mary Johnson, la bambina di cinque anni scomparsa da un mese e mezzo di cui aveva notato il fascicolo il primo giorno in centrale.
Quella centrale dove Josh lavorava. Dove lavorava anche undici anni prima.
-È quella bambina scomparsa, Jamie, ti ricordi? È Mary!- esclamò facendo attenzione a non alzare la voce, ma Jamie parve non ascoltarla: stava continuando a esaminare la bambina. Leyla seguì con gli occhi il percorso delle sue mani. Vide le vene del braccio bucate e si accorse solo in quel momento che la piccola non indossava la biancheria intima; e lungo le cosce le scendeva del sangue. Non Josh. Non Josh. Tra le dita dei piedi, invece, le stava camminando una cimice.
Jamie sciolse le corde che stringevano i polsi della bambina e la prese in braccio, poi sia lei che Leyla si alzarono in piedi. Fu proprio in quell’istante che, guardandosi per la prima volta intorno, notarono le ossa: c’era un teschio proprio a poca distanza, ma ce n’erano di tutti i tipi nell’angolo opposto dello scantinato; a Leyla salì in gola un conato. Non vomitò soltanto perché la porta sbatté chiudendosi e la distrasse. Entrambe sobbalzarono. Lo pensarono, anzi, ne furono certe: Josh si era svegliato, le aveva scoperte e le stava chiudendo dentro. Più tardi avrebbe fatto di loro ciò che preferiva, così come aveva fatto con la piccola Mary.
Jamie però si impose di ritrovare il suo sangue freddo e, sempre tenendo la piccola tra le braccia, avanzò lungo la scalinata. Portò la mano ora tremante verso la maniglia, la abbassò e tirò un sospiro di sollievo quando l’uscio si aprì.
-Presto, Leyla andiamo fuori di qui. Dobbiamo chiamare subito gli altri agenti- le intimò decisa, ma la ragazza non dava segno di volersi muovere o di averla anche solo sentita.
-Leyla, che ti prende, muoviti!- la incalzò di nuovo, questa volta con più impeto.
-La porta- rispose la ragazza con voce assente -cosa?- fece Jamie senza capire.
-La porta- ripeté l’altra, sempre con lo stesso tono. La donna più grande allora voltò lo sguardo verso il lato interno della stessa. Sgranò gli occhi quando se ne rese conto.
-È rossa- concluse Leyla in un sussurro gelido. E lo era, anche se solo internamente.
Il quadro si era completato: c’era la porta rossa, la chiave di pezza, il sole-luna blu. C’era anche il sangue, anche se in quel momento vedeva solo quello di Mary Johnson.
Era certa che tra quelle ossa nell’angolo ci fossero anche quelle di Hillary, ma non solo le sue.
Il suo amore per Josh si sgretolò tutto in un solo istante; insieme a questo però crebbe in lei, improvvisa e prepotente, la necessità di andarsene.
Corse sulle scale e raggiunse Jamie. Insieme a lei, e alla bimba svenuta tra le sue braccia, lasciò l’abitazione del mostro che aveva amato e al quale aveva sognato di unirsi.
Appena furono fuori chiamarono le forze dell’ordine.
 
EPILOGO
 
Josh Scott era stato arrestato e sottoposto, già quella notte, a un lungo interrogatorio. Verso le quattro del mattino aveva confessato il rapimento, lo stupro e l’assassinio di Hillary Moores, avvenuti undici anni prima, e con questi le sevizie inflitte ad altre sedici bambine nell’arco di quindici anni, compresa la piccola Mary Johnson, trovata ancora viva nel suo scantinato.
L’uomo rapiva le sue vittime, le teneva legate in cantina, drogandole affinché non si accorgessero di nulla e non fossero in grado di reagire o di farsi sentire, e così, non appena i suoi appetiti si risvegliavano, scendeva a violentarle senza che queste potessero nemmeno tentare di difendersi. Nel momento in cui si stufava di una di loro, o semplicemente ne trovava un'altra che lo attraeva di più, si sbarazzava della precedente sgozzandola come un maiale al mattatoio.
Aveva sempre lasciato le sue vittime nello scantinato a decomporsi, usufruendo di un depuratore d’aria perché ai piani superiori non giungesse l’odore dei cadaveri. Quel che Josh Scott amava di più, oltre a infliggere la violenza carnale alle piccole, era conservare le loro ossa come trofei; aveva sostenuto di amarle particolarmente.
Tra queste erano state rinvenute delle piccole costole recanti ancora addosso qualche brandello di stoffa verde; Leyla era stata certa fin dal primo istante che quelle fossero le ossa di Hillary, per questo non si sorprese quando il test del DNA lo confermò.
Non aveva sofferto per la sua scoperta, non aveva pianto né si era disperata: in lei non esisteva più la minima traccia del suo amore per Josh, come se questo non fosse mai esistito.
Il suo era rimasto un amore fantasma, destinato a dissolversi completamente nel nero di una notte simile agli occhi dell’uomo. Per lei non solo Josh non esisteva più, ma non era proprio mai esistito.
Quel che contava, ormai, era solo aver trovato Hillary, averle restituito la pace di cui aveva bisogno e che cercava disperatamente da quando era stata uccisa, e averle anche assegnato quel posto legittimo e insostituibile nel suo cuore, che le avrebbe permesso di portarla sempre con sé, andando avanti, ma senza dimenticarla.
Perché Leyla voleva che Hillary restasse per sempre una parte di lei, come era giusto che fosse.
Ma Leyla aveva anche scoperto che esisteva qualcosa di ancora più importante del ricordo di Hillary, anche se non se ne sarebbe separata mai più: era Laurie.
La sua sorellina, come immaginava, l’aveva attesa con trepidazione durante tutti i sei giorni d’assenza ma, nonostante questo, non aveva fatto parola ai genitori del loro segreto. Perché Laurie non si sarebbe mai permessa di perdere la sua fiducia.
Al suo ritorno, Leyla le aveva raccontato tutto, ovviamente all’interno dei canoni di quel che si può dire a una bambina di cinque anni: qualcosa come ho scoperto che c’era un uomo cattivo che ha fatto del male alla mia sorellina e l’ha uccisa, ma adesso è in galera e ci resterà per tutta la vita.
Laurie era stata felice per lei, perché aveva ritrovato quella parte mancante di sé che la rendeva incompleta. Anche a sua madre aveva fatto bene conoscere la verità: dopo lo shock iniziale si era rilassata, riuscendo ad accettare la conferma della fine di sua figlia.
Che fosse morta, Samantha se lo aspettava, quindi si sentì sollevata all’idea di poterle finalmente concedere una sepoltura decente. Questo almeno era ciò che aveva detto lei, ma Leyla credeva che fosse più serena perché finalmente sapeva dove trovarla, a ogni modo l’aveva vicina, e poteva pensare a lei senza farsi troppo male, perché il tempo aveva già lenito le vecchie ferite.
La cosa più dura da accettare per tutti non fu tanto la certezza della morte di Hillary, quanto l’idea delle violenze che aveva subito prima che il mostro la finisse.
Ma quel che più importava, dopo undici anni, era conservare il pensiero di lei come qualcosa di concreto, di esistente, e non più come uno spiffero d’aria gelido che porti a irrigidirsi. Hillary non sarebbe mai più stata relegata nell’oblio pur di sfuggire alla paura del suo ricordo.
Finalmente tutti potevano concedersi di pensare a lei.
E anche Laurie volle fare la sua parte, anche se non l’aveva mai conosciuta; era trascorso più di un anno quando Leyla si sentì pronta per affrontare concretamente il pensiero di Hillary. Fino a quel momento non aveva avuto più problemi a ricordarla, ma far visita alla sua tomba era tutta un’altra cosa. Si era finalmente decisa ad avvicinarsi al suo monumento proprio il tredici di febbraio, dodicesimo anniversario della sua scomparsa. Era stata Laurie a domandarle se poteva andare con lei, e Leyla ne era stata segretamente sollevata, anche se le sembrava assurdo pensare di attingere coraggio dalla sua sorellina di sei anni. Chissà come sarebbe stata Hillary a sei anni?  
E quel giorno, come quello lontano, c’era la neve.
Le due sorelle camminavano mano nella mano e si dirigevano in silenzio verso il luogo di eterno riposo di Hillary. L’unico suono era quello del vento, anche se, ascoltando attentamente, pareva di sentire anche qualcos’altro: era la melodia silente e incantatrice delle neve, quella che conduce a sé ed evoca la più immensa calma e allegria che si possano sperimentare.
Non che Leyla e Laurie fossero particolarmente felici in quel momento, ma serene lo erano di sicuro, ed era facile lasciarsi cullare dall’armonia percepibile solo nella totale assenza di suoni.
Leyla teneva in mano il topolino di pezza. Fino a quel momento aveva desiderato tenerlo con sé, non aveva permesso a nessuno di toccarlo, ma ormai aveva capito quale fosse il suo posto.
Perché quello era meglio di un mazzo di fiori: il topolino era di Hillary e spettava a lei. Era la sua chiave: la chiave bianca. La chiave di pezza.
La bambina e la ragazza si tenevano ancora per mano mentre osservavano la lapide che riportava il nome della loro sorella scomparsa; una sorella ritrovata per Leyla, una da scoprire per Laurie, ma in fondo la bimba sapeva di averla conosciuta. Lei l’aveva vista in sogno e l’aveva trovata: ormai ricordava i tratti del suo viso e le voleva bene già così, non le serviva altro.
Leyla chiuse gli occhi e volle assaporare quel momento come se si trattasse di un ultimo incontro; o forse era il primo: perché dopo tutto quel tempo trascorso prima a non ricordarla, poi a rievocare la sua immagine, essere lì era come averla accanto per la prima volta. Era come darle il permesso definitivo di insediarsi in lei.
Leyla e Hillary erano come un sole-luna di terracotta rottosi a metà tanto tempo prima, e finalmente rimesso insieme indissolubilmente.
Leyla amava l’idea di poter avere sempre con sé entrambe le sue sorelle; la sua Hillary, che non avrebbe mai più lasciato andare via dai suoi ricordi, e la sua Laurie, che non si sarebbe mai permessa di perdere.
Ed era stata proprio la piccola a rendere possibile tutto ciò: Laurie che aveva trovato la chiave e, inconsapevolmente, l’aveva spinta a cercare la porta.
Aveva avuto ragione Jamie: non era stato un caso se il topolino di pezza era stato trovato proprio da lei. Ma forse anche Hillary aveva la sua parte di merito: se Laurie non avesse trovato il topolino di pezza sepolto nella neve sarebbe andata avanti, si sarebbe allontanata di più.
Forse a Josh sarebbe piaciuta più di Mary Johnson, e l’avrebbe presa come aveva fatto con Hillary.
Leyla si chinò, posò un braccio attorno alle spalle della sorellina e le sussurrò qualcosa all’orecchio; la piccola annuì. Leyla le consegnò il topolino di pezza e Laurie si mosse piano, un passo alla volta, e andò ad adagiarlo accanto alla tomba.
Hillary aveva di nuovo quel che era suo; finalmente avrebbe dormito serena.
Quando Laurie si voltò verso la sorella, questa fu certa, per un istante, di vedere al posto del suo il volto di Hillary. Fu questione di un solo attimo, ma la visione fu nitida.
La neve nasconde, ma non cancella; se si scava a fondo la vita può tornare alla luce, anche attraverso la morte. Perché Hillary, Leyla non aveva dubbi, ormai stava vivendo in Laurie.
E dalla neve saliva ancora la melodia silenziosa.
   
 
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