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Autore: Rory_chan    11/01/2009    10 recensioni
Lei sorrise, senza muoversi, e lo fissò con lieve imbarazzo. «dopo mi fai vedere il ritratto?».
«Sì, Sakura, sì. Adesso stai ferma e soprattutto zitta». La sentì ridere, per nulla offesa.
«come posso stare ferma e zitta se ho voglia di urlare e spaccare tutto per la felicità?».
{Focus On SasuSaku; accenni ShikaTema&NejiTen. Tracce angst}
{Fanfic classificatasi Seconda al contest "Into the Book" di Bambi88 e Kalanchoe, e vincitrice del premio "Giuria"}
Genere: Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sakura Haruno, Sasuke Uchiha
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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16 Dicembre 2009; ore 10
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16 Dicembre 2009; ore 10.27

 

L’orologio scandiva lentamente i secondi, i minuti, le ore.

Con quel ticchettio all’apparenza leggero e non poi così fastidioso, permetteva il movimento delle lancette, e con quelle, lo scorrere del tempo.

Il battito dell’orologio era coperto dallo scrosciare impertinente del getto d’acqua, segno che dopo ancora numerosi minuti, la doccia era ancora aperta. Aperta sì, ma senza nessuno dentro.

Sentì distintamente la stoffa della maglietta pizzicarle la pelle, renderla un poco più arrossata di quanto già non fosse, giusto per sottolineare quanto fosse fragile in quella situazione. 

Afferrò con una precisione quasi maniacale i lembi della maglia, sollevandola con lentezza e scoprendo il ventre piatto, sull’ombelico i segni di una vita ormai passata, defunta, sepolta.

La buttò a terra con noncuranza, al contrario della precisione usata per sfilarsela. L’osservò apaticamente cadere per terra con un tonfo secco, e accasciarsi sul pavimento per poi rimanere ferma. Sorrise senza divertimento. Come se quella maglia potesse muoversi, poi.

Quel capo non era particolarmente bello.

Era assolutamente semplice, di un colore totalmente rosso spento. La verità era che aveva perso il senso della moda qualche tempo prima. Non le interessava più così tanto, e tentava di giustificarsi in questo modo se per caso si vestiva con abbigliamenti dagli abbinamenti completamente sbagliati.

Non trovò ridicolo paragonarsi a quella maglietta senza vita buttata là a casaccio sulle piastrelle di marmo del bagno. Anche lei, una normalissima ragazza sulla ventina – anno più, anno meno. Non era mai stata puntigliosa sulla sua età – non dimostrava nessuna caratteristica così elettrizzante da poter risultare una persona minimamente interessante.

Stoffa che pizzica.

Sempre la stessa Sakura Haruno; ragazzina intelligente, certo, ma fondamentalmente irritante. Glielo avevano detto in molti, chi con ironia, chi con disprezzo. O chi con indifferenza.

Tinta unita.

Nella vita aveva ricevuto molte batoste. Oddio, forse non da compiangere la sua esistenza come la più difficile e sbagliata in tutto il mondo, ma il principio base era più o meno quello. Aveva avuto legami complessi con la gente, dispiaceri fra gli amici, delusioni con i fidanzati.

Eppure era rimasta sempre la stessa, solita, assolutamente non cambiata con il passare degli anni Sakura Haruno.

Accostamenti sbagliati.

Fisicamente non si era mai trovata un apogeo di bellezza. Era piuttosto vanitosa, ma non poi così tanto come lo era, a quei tempi, la sua migliore amica. I capelli corti le sfioravano a malapena le spalle, solleticandole la nuca e le guance. Erano di un colore strano, e lei stessa faticava a credere di poter essere così naturalmente: erano rossi, ma di un rosso così chiaro e sfumato da sembrare rosa. E gli occhi, dal taglio mediorientale, sfavillavano di un verde brillante. Questi colori su di lei stavano bene; sembrava la primavera personificata. Ma a quei tempi era giunto il momento in cui tutto ciò che riguardava la primavera, era ben lungi dal riguardare lei. 

Accasciata a terra.

Era ciò che avrebbe fatto anche in quel preciso istante, se solo avesse potuto. Osservò il pavimento lucido del bagno, il tappeto bianco a coprire le mattonelle che la distanziavano dalla doccia.

Aveva passato realmente troppo tempo a pensare, piangere e a stremarsi sul pavimento.

Lo scrosciare dell’acqua non l’aiutava a concentrarsi e, soprattutto, a pensare razionalmente. Molte volte aveva avuto quella voglia di urlare, di rompere tutto ciò che la circondava, di distruggere quello che gli altri avevano costruito proprio come era successo a lei.

Sentì gli occhi pizzicare, proprio come pizzicava la maglia sulla sua pelle, ma non pianse.

Sentì uno strano gorgoglio in gola, pronto ad esplodere in un urlo disperato, ma non urlò.

Sentì il corpo essere invaso da uno strano impeto di furore, ma non si mosse.

L’orologio scandiva i secondi, i minuti, le ore.

Ancora c’era tempo.

E lo maledisse.

 

L’Urlo e il Furore

 

8 Novembre 2008; ore 9.18

 

Fece scorrere con accorta delicatezza il pollice fasciato dal guanto sull’iPod, scorrendo le numerose canzoni contenute in esso. Sul viso era dipinta un’espressione insoddisfatta ed infreddolita, chiaro segno di non aver trovato ancora una canzone che riuscisse a riscaldarla a dovere.

Realisticamente parlando, il tempo non era dei migliori.

Nella stagione invernale quel piccolo quanto piacevole e discreto paesino assumeva colorazioni chiare e pallide, quasi sempre ricoperto da sottili coltri di neve e brina. Nel cielo splendeva per quanto riuscisse a splendere un sole pallido, quasi stanco di illuminare le strade della città e intento con decisamente molta pigrizia a calare oltre l’orizzonte, per dare il cambio alla luna.

Ad ogni suo respiro, dalle labbra fuoriusciva una consistente nuvoletta di vapore, che si andava a disperdere qualche secondo dopo nell’aria satura di umidità. 

«Cristo santo, che freddo…» balbettò innervosita, sorridendo appena e – finalmente – schiacciando soddisfatta l’Ok sull’iPod, infilandosi con apparente grazia le cuffiette nelle orecchie, semi nascoste dal cappellino di lana. Rimise l’aggeggio nelle tasche, alzando lo sguardo di smeraldo sulla casa relativamente centenaria che si ritrovava di fronte.

Volse un ultimo sguardo indietro, in direzione della panchina coperta da una piccola cupola che fungeva da fermata del pullman, e sorrise quasi con nostalgia, ritornando a fissare la casa.

Quel piccolo paese nei pressi di Monza le sarebbe mancato, poco ma sicuro.

Non era di certo una metropoli frequentata da milioni di persone, piuttosto era una cittadinella anonima, colma di abitanti discreti e gentili, provvista di quei pochi elementi tecnologici e, se così poteva definirli, futuristici per permetterle di andarsene con un sorriso sulle labbra, una promessa strappata al cuore di ritornarci.

Batté ciglio, scotendo lievemente la testa al ritmo della musica che l’iPod le trasmetteva nelle orecchie, adocchiando con la coda dell’occhio un enorme muso arancione che non era altro che il pullman in arrivo. In ritardo come al solito, si sentì di aggiungere.

Con uno sbuffo attutito dal gas scuro che fuoriusciva dal tubo di scarico posto sopra al tettuccio, il pullman arrestò la sua corsa a pochi metri di distanza da lei, costringendola così ad una breve corsa per entrare prima che l’autista chiudesse le porte.

Appena salita si tolse il cappellino, rivelando la chioma rosata che si celava sotto di questo, vagamente arricciata e increspata a causa dell’umidità. Nonostante ciò i capelli sembravano a posto, quei boccoli leggeri le scivolavano fino alla vita ora che non erano più costretti nel cappellino.

Timbrò l’ultimo biglietto che avrebbe preso in quel paese, e si andò a sedere tranquillamente sul sedile infondo all’autobus, il suo preferito.

Costretta per un breve periodo di tempo di praticantato nella città di Milano, in quanto neolaureata in medicina, non aveva trovato alcun alloggio se non in quel paese di pochi abitanti, bensì lontano dal grande capoluogo lombardo, ma relativamente comodo in quanto a prezzi e mezzi.

Andando ogni giorno a farsi un’esperienza nell’enorme policlinico milanese, era ovviamente costretta ad usufruire di una quantità per nulla proporzionata alle sue ore di lavoro di mezzi pubblici. Perciò aveva avuto abbastanza tempo da adottare come suo preferito quel sedile nel fondo del pullman, proprio quello sotto o accanto (non era un’esperta di queste cose, francamente) al motore che surriscaldava il posto, regalandogli un lieve calore. 

Lì si sedette, accavallando con cautela le gambe ed appoggiando il gomito al bordo del finestrino. Per quanto le piacessero i pullman era ben consapevole della buona quanto cattiva gente ci poteva trovare sopra, perciò s’isolò così, rivolgendo la sua totale attenzione alle strade del paese che l’autobus percorreva, delle mura che racchiudevano quei simpatici cittadini che scorrevano dalla parte opposta alla sua e di quanto lì a Parigi, dove si stava dirigendo, le sarebbe tutto mancato.  

Un lieve torpore s’impossessò del suo corpo, rendendolo più rilassato di quanto avrebbe dovuto essere. Fece un veloce mente locale, ricordandosi che doveva scendere alla tredicesima fermata, attraversare la strada per arrivare a quella dell’altro pullman, salire su di questo e attendere un altro quarto d’ora per arrivare alla stazione di Sesto San Giovanni, dove lì avrebbe preso la metropolitana per una buona mezz’ora fino ad arrivare alla stazione centrale di Milano.

Da lì avrebbe visto la libertà per Parigi, dove avrebbe iniziato un ulteriore periodo di praticantato nell’ospedale della capitale francese, un’ottima occasione per migliorare anche la lingua parlata.

Sorrise, negli occhi una nota impaziente di intraprendere quella nuova “avventura” che i suoi studi le avevano proposto. Si morse le labbra a fatica per non urlare cantando le parole della canzone che stava ascoltando in quel momento, sentendosi invadere di una cieca euforia che le attanagliava di felicità il cuore e la mente. Due elementi che per la prima volta, in lei, si trovavano d’accordo.

 

S&S

 

9 Dicembre 2008; ore 18.37

 

Si guardò intorno con aria spaesata, i grandi quanto luccicanti di curiosità occhi verdi spalancati davanti a tale maestosità. Non aveva mai pensato a Parigi come una città così grande, imponente e dispersiva. Certo, aveva letto molto a riguardo, sapeva bene quali monumenti e musei visitare per l’occasione, ma vivere tutto dal vivo era completamente diverso. La gente passava velocemente accanto a lei, sorpassandola con noncuranza e sfiorandole più volte e senza alcun timore le spalle, spingendola alle volte in avanti e alle volte indietro. Sakura non ci fece caso: era troppo impegnata a guardarsi intorno e a connettere il cervello per intraprendere una ricerca di qualcuno o qualcosa di familiare per prestare attenzione alle persone accanto a lei.

Il viaggio era durato molto. Dopotutto sapeva che era partita da “casa” molto presto, ma senza alcun biglietto e mezzo di trasporto sicuro e perfettamente in orario era stato meglio essere prudenti. Da Milano era partita intorno alle 19, ed il treno in arrivo a Parigi aveva ritardato – sarebbe stato davvero troppo bello essere puntuali – per quasi un’ora e mezza.

«ehi, tu! Tu col cappellino!». Sentì una voce forte e sicura provenire dalla sua sinistra e, buttando la mano destra sulla valigia piuttosto grande per una sola persona, si voltò in quella direzione cercando di capire chi la stesse chiamando e se, effettivamente, stessero chiamando lei.

Corrugò le sopracciglia chiare, incontrando con i suoi un paio d’occhi del suo stesso colore, forse un poco più scuri e dall’aria dannatamente profonda e matura. Quella donna doveva essere più grande di lei, quasi sicuramente. Lasciò scivolare lo sguardo sui capelli di grano scuro forzati in quattro code ai lati della testa, sulle sopracciglia dorate rilassate sul viso sopra agli occhi di smeraldo grezzo – più sporchi e magari più peccaminosi dei suoi – fino ad osservare il naso dritto e lievemente all’insù precedere la bocca carnosa e colorata di un rosso scuro.

Un tailleur dalle colorazioni scure le fasciava morbidamente il corpo, mettendo in risalto le generose quanto rotonde curve. Sakura avrebbe sicuramente affermato che quel corpo fosse troppo rotondo, troppo pieno di curve, troppo robusto. Ma il viso dai lineamenti duri e così femminili insieme non gliene diedero l’opportunità: quella ragazza era davvero uno schianto.

«Ehm…io?» domandò ingenuamente, puntandosi involontariamente l’indice contro. La giovane avanzò verso di lei con passo sicuro, facendo riecheggiare prepotentemente il rumore dei tacchi ai suoi piedi. Si fermò a pochi centimetri da lei, scrutandola con cipiglio superiore.

«Sakura Haruno?» chiese a bruciapelo, le sopracciglia arcuate corrugate in un’espressione di compunta concentrazione. Sakura strinse le labbra, facendole impallidire sotto quella pressione.

«sono io».

La donna batté ciglio, scrutandola da testa a piedi e mettendola lievemente in soggezione. Quando notò come colei che le stava di fronte stesse per aprire bocca, la fermò con un vago gesto della mano, a metà fra lo stizzito e lo scocciato.

«so cosa stai per chiedermi. Conosco il tuo nome perché Tsunade mi ha avvertita del tuo arrivo. Sei italiana, giusto?» spiegò con apparente calma la bionda, gli occhi pacatamente socchiusi.

«ehm, sì. Tsunade ti ha avvisata…?».

«lavoro all’ospedale parigino, sono un chirurgo. Tsunade mi ha detto che uno specializzando di nome Sakura Haruno proveniente dall’Italia sarebbe arrivato in serata qui in Francia per usufruire degli insegnamenti dei dottori francesi e per migliorare la lingua nazionale. Perciò sono venuta a prenderti, altrimenti come avresti fatto a raggiungerci?» concluse la donna, abbandonando improvvisamente l’espressione seria e superiore, sostituendola con una pressoché divertita.

Sakura si tirò indietro, vagamente perplessa da quella strana spiegazione.

«Ehm… e come sai che Sakura sono io? Cioè, insomma… raggiungerci?».

Era evidente quanto l’Haruno fosse spaesata da quelle parole e la ragazza scrollò le spalle, come se la cosa non la riguardasse minimamente.

«Tsunade mi ha mandato il tuo curriculum, e lì c’è anche la tua foto. E andiamo, non penserai che di dottore ci sono solo io qui, no? Ah, comunque io sono Sabaku No Temari. Ma chiamami semplicemente Temari, odio le formalità. E poi vivremo nello stesso posto, un po’ di confidenza ci vuole!» esclamò con tono leggero la dottoressa, invitandola con il solo sguardo a prendere la valigia e a seguirla verso l’uscita della stazione.

Inizialmente Sakura rimase leggermente perplessa, se non completamente incapace di capire cosa le stesse succedendo. In una sola serata aveva appreso che la primaria del reparto psicologico del policlinico milanese Tsunade aveva inviato il suo curriculum all’ospedale francese, che una chirurga era appena venuta a prenderla e che avrebbe vissuto con lei insieme ad altri medici. Ed ovviamente lei non ne sapeva nulla.

- È normale che io non sia mai sulla stessa lunghezza d’onda degli altri, no? –

«Ehm… Temari!» prese in fretta e furia la valigia, affondando l’altra mano nella tasca e accelerando il passo per raggiungere la bionda, l’aria gelida di Parigi le distruggeva lentamente i polmoni, causandole un leggero affanno.

«grazie di tutto. – arrossì appena, dopo quelle parole – Qui a Parigi fa sempre così freddo?».

«Uhm, solo di questa stagione. Ma ti sei beccata un periodo di vero gelo polare cara mia. E adesso muoviti che gli altri ti aspettano. Sono tutti impazienti di vederti… sai, le novità eccitano sempre chiunque» concluse con tono vago, camminando composta sul marciapiede al di fuori della stazione, alla ricerca dell’auto che aveva parcheggiato lì in quel mare di macchine colorate.    

«… capisco. Sono… simpatici?» domandò flebilmente, affondando il mento e di conseguenza le labbra nella sciarpa di lana pesante, quasi nascondendosi sotto di questa.

«chi sì e chi no. Dipende» non si sbilanciò nella risposta Temari, senza neanche voltarsi a guardarla negli occhi, troppo impegnata a marciare sulla strada in direzione della macchina. Sakura annuì mesta, senza che l’euforia provata il giorno prima però scemasse nel nulla.

Nonostante l’apparenza austera e fredda, Temari non doveva essere male. Solo in quei pochi minuti passati insieme aveva capito ciò che avrebbe potuto condividere con lei, e ciò che avrebbe dovuto tacere. Era chiaro come il sole che la Sabaku doveva essere un tipo piuttosto pretenzioso, schiavista e, perché no, femminista. Era una classica ragazza bella e dal carattere forte, a conoscenza di entrambe le sue doti e avente a disposizione i mezzi necessari per poterle sfruttare.

«Temari, quanti anni hai?» domandò Sakura incapace di tacere, troppo curiosa per poter accontentarsi di quelle poche – a suo avviso – informazioni.

«ventotto – come prima, la Sabaku non si voltò, ma sentì distintamente il sospiro teso della giovane alle sue spalle e per quello, forse, tentò di risultare un poco più cordiale – tu?».

«venticinque. Ho studiato medicina in Italia, e mi sto specializzando nel ramo della psichiatria. Mi piacerebbe molto essere come Tsunade sai. Una con… le palle, ecco». Alzò di poco il viso, giusto per misurare la reazione di Temari a quelle parole.

«per essere un medico devi avere per forza le palle. E se sei arrivata a questo punto, in un modo o nell’altro, ce le hai anche tu. Sta a te decidere della tua vita, non agli altri. Ah, eccola finalmente!». Temari si diresse spedita verso una Mercedes nera sfavillante, aprendola non appena fu abbastanza vicina per aprirla automaticamente con la chiave.

«dammi la valigia, la metto del bagagliaio. Tu sali avanti, intanto» ordinò pacata, tendendo entrambe le mani in direzione di Sakura, che le porse senza troppi ripensamenti la valigia.

Salì in auto velocemente, richiudendo con un tonfo secco lo sportello accanto a sé. Si sfregò rapidamente le mani arrossate dal freddo, sentendo la sensibilità delle dita scemare con il passare del tempo. Respirò rumorosamente, notando come anche all’interno dell’auto le nuvolette di vapore si condensassero per poi sparire nel nulla. Sentì uno scatto al suo fianco, e registrò come Temari entrasse in auto con un’eleganza naturale, poggiando la mano destra sul volante e la sinistra sulla maniglia dello sportello, chiudendolo.

«Dunque. Per arrivare al palazzo non ci vogliono nemmeno otto minuti» cominciò con impeccabile precisione la bionda, mettendo in moto la macchina che non esitò ad accendersi.

«non ci sono precise regole da seguire. Devi solo sapere che l’appartamento in cui tutti viviamo è piuttosto enorme, ed è formato da una sala comune nella quale si trovano molti scaffali pieni di libri. Lì di solito studiamo o parliamo del più e del meno. È un po’ un punto di ritrovo…». Sakura annuì diligentemente, osservando la strada scivolare sotto di loro ad una velocità inaudita. Non distolse gli occhi color delle selve dal cruscotto in pelle beige se non per dare un’occhiata alla strada di fronte a loro, le mani fermamente appoggiate ai lati del sedile della pelle chiara.

«… dalla sala comune si può arrivare ad ogni stanza. Ognuno ha una stanza per sé, con letto matrimoniale e bagno all’interno. E aggiungo che ciò che fai lì dentro non è affare nostro, al contrario della stanza comune in cui tutti abbiamo libero accesso. Non so se mi spiego» sottolineò Temari con voce maliziosa, dipingendo sulle labbra carnose un sorriso di scherno.

L’Haruno masticò un “chiaro”, sentendo le guance imporporarsi.

«per quanto riguarda la cucina è una sola, ci si arriva dalla sala comune. Ti avviso che nei posti frequentati da tutti non si fuma e non si beve. Salvo avvenimenti essenziali come feste di compleanno e di addio al celibato o al nubilato» puntualizzò nuovamente, assumendo un’aria colpevole. Probabilmente era la prima ad indire quelle festicciole. L’Haruno trattenne un risolino sinceramente divertito dall’espressione di Temari, ritornò poi a guardare la strada.

La Sabaku aveva svoltato a tutta velocità a sinistra e per Sakura non fu difficile immaginare il prezzo salato di una multa se lì ci fossero stati dei vigili.

«…un’ultima cosa. Lo vedi quello laggiù?» borbottò Temari, allontanando una mano dal volante ed indicando con quella un ragazzo attraverso il vetro. Arrestò la corsa della macchina, parcheggiando perfettamente affianco al marciapiede libero. Sakura si sporse lievemente dal sedile per poter osservare colui che la donna indicava, cercando di scorgere quella figura nell’ombra della sera inoltrata. Finalmente vide un ragazzo, forse della sua età, con dei lunghi capelli castani bizzarramente legati in una coda alta. Storse le labbra, annuendo.

«ecco. Carino, vero?».

E Sakura se ne accorse.

Temari aveva scoccato la sua freccia, adesso stava a lei riuscire a non farsi colpire. Capì che quella era una domanda che avrebbe influito notevolmente nella sua futura vita a Parigi: se avesse risposto con le parole giuste si sarebbe salvata, altrimenti… Milano l’aspettava con nostalgia.

Alzò gli occhi al cielo, crucciando le sopracciglia chiare e sporgendo in avanti la mascella.

«Sì. Molto carino» azzardò infine, dedicando un’occhiata al ragazzo che sembrava aspettare proprio loro al portone d’entrata di un palazzo dalle sembianze piuttosto vecchie.

Temari gonfiò orgogliosamente il petto, distogliendo lo sguardo da colui che l’aveva fatta arrossire sotto il lieve strato di fondotinta. Sakura sorrise quasi intenerita da quella visione.

«bene. Se vuoi una vita felice e tranquilla ti conviene lasciarlo perdere, quello è il mio uomo» rivelò nascondendo abilmente una nota emozionata e fiera nella voce.

«Ma…» …stai tranquilla, non sarebbe comunque il mio tipo.

«Niente ma. Ho già detto abbastanza riguardo a Shikamaru, non farmelo ripetere. Forza, andiamo» tagliò corto la Sabaku scendendo agilmente dall’auto. Sakura sospirò pesantemente, rivolgendo lo sguardo verso la ragazza che s’avventurava su quei tacchi vertiginosi verso colui che doveva essere Shikamaru, appigliandosi al suo collo e nascondendo dietro il suo il viso di lui.

Aprì con uno scatto roco lo sportello, allungando a fatica la gamba e poggiando la sua scarpa da ginnastica sull’asfalto grigio. Sentì il ginocchio indolenzito ma non vi fece caso, uscendo completamente dalla macchina e assaporando l’aria pulita di quel quartiere.

Sebbene fossero quasi le sette, era tutto tranquillo.

La luna padroneggiava serena nel cielo, raccogliendo sotto la sua lieve aurea argentata il brillio delle stelle che somigliavano a piccole lampadine incastonate in un soffitto inesistente. Era un bel posto, dopotutto. Forse le incuteva una strana nostalgia di casa, dei suoi genitori.

«Ehi Sakura! Lui è Shikamaru, Shikamaru lei è Sakura! È il nuovo specializzando» presentò velocemente Temari dalla parte opposta della strada, scostandosi dal corpo del giovane.

Quest’ultimo allungò un poco il collo per poterla osservare meglio, fino a quando non alzò la mano in un gesto che aveva del seccato e del sensuale insieme.

«Yo» salutò con voce roca, tenuta appositamente bassa e dal cipiglio scocciato. Sakura sorrise cordiale, piegando lievemente la testa da un lato, facendo ricadere i capelli increspati dall’umidità sulla spalla.

«ciao. Saliamo?» domandò sbrigativa e piuttosto infreddolita, trattenendo fra le mani il bagaglio pesante. Shikamaru abbandonò il fianco della sua ragazza, afferrando con ben poca galanteria la valigia di Sakura ed aprendo pigramente il portone.

«Certo. Andiamo» acconsentì frettoloso, sparendo nell’oscurità dell’atrio seguito dalle due ragazze.

Quando Temari poggiò la mano sulla maniglia laccata in oro della porta aprendola, Sakura non si aspettava di dover dare ragione alla bionda quando aveva detto “La nostra casa è enorme”. Certo, avrebbe potuto essere una casa qualunque, con un locale ben più grande degli altri, ma quella che doveva essere la sala comune era davvero gigantesca.

Il muro colorato di un beige pallido donava all’atmosfera una sensazione di calore, come le tende rosso rubino che coprivano a malapena i cardini delle finestre, da dove era possibile intravedere la strada al di sotto. Sul muro erano addossate tutte le librerie contenenti un infinito numero di volumi di tutti i generi: fece in tempo a notare il nome di qualche autore importante sia nel campo della medicina che della fisica, matematica e letteratura. Nel centro della stanza, sopra ai tappeti dalle colorazioni chiare e dalle rifiniture varie, sostavano divani e poltrone dall’aria comoda, sui quali sedevano alcuni ragazzi bene o male della sua età. C’era chi studiava silenziosamente, chi ripeteva a bassa voce e chi sussurrava per scambiare due chiacchiere fra una pagina e l’altra dei libri con gli amici. Ma appena sia lei che Temari e Shikamaru misero piede nella stanza, tutti alzarono lo sguardo verso coloro che avevano appena interrotto il loro studio quotidiano.

«Ohi Temari! Alla buon’ora, né!» strillò un ragazzo piuttosto esile e dai capelli biondi, decisamente scompigliati e dalla pettinatura pressoché inesistente. S’alzò di tutta fretta dalla poltrona sul quale si era accomodato chissà quanto tempo prima, raggiungendo a grandi falcate i nuovi arrivati.

«taci Naruto. I treni possono anche essere in ritardo, sai?!» domandò retorica la bionda con tono sprezzante, osservando dall’alto in basso colui che le aveva appena rivolto la parola. Si voltò per togliersi il giubbotto, seguita da Sakura, ed in quel breve lasso di tempo il biondo riuscì a regalarle una silenziosa linguaccia. L’Haruno sgranò appena gli occhi chiari, trattenendosi per non ridere.

«Baka, ti ho visto. Se prendi per il culo Temari, almeno evita di farlo davanti a me» borbottò con la classica inclinazione scocciata Shikamaru, buttandosi con ben poca eleganza su un divanetto libero.

«Ciao! Sono Naruto Uzumaki, venticinque anni e pronto a servirti!» esclamò con convinzione il biondo, ignorando galantemente Shikamaru che, di tutta risposta, sbadigliò. Sakura spostò la sua attenzione da Temari, che evidentemente non era d’accordo alle volontà di Shikamaru di schiacciarsi un sonnellino, a colui che le aveva appena parlato.

«oh, ciao. Mi chiamo Sakura Haruno e anche io ho venticinque anni. Ehm… beh. Piacere di conoscerti» terminò con forzata sicurezza, stringendo la mano dell’Uzumaki.

«Eh! Dunque, partendo da destra quelli sono: Tenten – quella con i capelli castani, la vedi? – Neji, Gaara – è il fratello di Temari! – Kiba, Sasuke e Shino! Ehi ragazzi, questa è Sakura!» elencò Naruto, indicando ad ogni nome una persona diversa, fino a puntare il dito su di lei all’esclamazione finale. Sakura seguì il dito del ragazzo ogni qual volta che si spostava, distogliendo a fatica l’attenzione da quegli occhi assurdamente azzurri che aveva il biondo. Studiò Tenten, che tratteneva fra le mani un libro di chimica e che sembrava avere un viso gentile. Neji le apparse come un ragazzo fin troppo raffinato e con la puzza sotto al naso, che controllava diligentemente Tenten in modo che non si distraesse dalla sua lettura. Gaara fu probabilmente colui che la colpì di più in quel momento. Se era davvero il fratello di Temari non ci assomigliava per nulla: lei aveva dei capelli biondo cenere, lui rossi fiammanti, lei aveva degl’occhi di smeraldo grezzo, lui di acqua cristallina. E se Temari aveva un fisico più che robusto, Gaara era davvero molto esile.

Colui che doveva essere Kiba la stava guardando con cipiglio curioso, quasi la stesse studiando, ma Sakura non riuscì ad arrossire per quell’attenzione puntata su di sé. Spostò lo sguardo su delle spalle larghe coperte da una maglia blu scura ed infine su una giacca azzurro chiara.

Quelli dovevano essere Sasuke e Shino.

Notando come Sakura stesse guardando gli ultimi due, Naruto le si avvicinò di soppiatto con aria di chi la sa lunga, sussurrandole nell’orecchio poche parole.

«lascia perdere Sasuke “il bastardo”, se proprio ci tieni concentrati su Shino».

Dopo qualche secondo di smarrimento, tutti lasciarono perdere i loro studi avvicinandosi alla “novità” e Sakura non poté che sentirsi decisamente lusingata da tutte quelle considerazioni.

«Ben arrivata, Sakura! Spero ti troverai bene!» aveva esclamato Tenten, euforica.

«Ossequi» borbottò con tono ironicamente falso Neji, sbuffando.

«Benvenuta». La voce calma e roca doveva appartenere al fratello di Temari.

«Ehilà Sakura! Spero di conoscerti molto bene in questo periodo, eh?!». Kiba si beccò un pugno in testa da Naruto, che brontolò qualche frase sconnessa all’Haruno incomprensibile.

Shino le rivolse un cenno di saluto con la testa, nascondendo abilmente il mento sotto al colletto della giacca che indossava e celando a tutti i suoi occhi con degli occhiali spessi.

Sakura guardò in direzione di Sasuke, aspettandosi anche da lui un solo cenno di saluto, anche non a parole. L’osservò con insistenza, sperando che questi si voltasse e si avvicinasse a lei. Non se lo sapeva spiegare, ma in un qualche modo si sentiva come se quelle spalle robuste le infondessero un senso di calma e di indefinibile attrazione.

Sasuke non si voltò.

«Ehi, Temari» chiamò sottovoce Sakura, avvicinandosi lentamente alla donna e liberandosi dall’improvvisa stretta di Naruto che già voleva farle visitare il posto.

«dimmi».

«Ma… chi è quello?».

Temari si voltò nella direzione indicata da Sakura, crucciando vagamente le sopracciglia dorate. Appena vide chi Sakura stesse indicando, scrollò le spalle, quasi fosse infastidita.

«è Sasuke Uchiha. Ha la tua stessa età, ed è laureato in medicina con specializzazione in cardiologia. Per quanto lo riguarda, dicono che sia un genio. Infatti a quell’età ha già una specializzazione. Ma diciamo che la famiglia lo ha aiutato molto; i suoi genitori erano entrambi dei dottori piuttosto famosi qui in Francia, perciò non gli è stato difficile laurearsi nella loro stessa materia. Personalmente non l’ ho mai trovato né simpatico né di buon carattere, non parla mai. Se parla è per riprendere Naruto e Kiba, che sono dei suoi pseudo amici anche se ha sempre affermato il contrario. Vallo a capire» spiegò pacatamente la Sabaku, premurandosi di tenere un tono di voce basso quanto bastava per non farsi sentire dal diretto interessato.

«i suoi genitori erano?» domandò la rosa, tirandosi appena indietro sottolineando quel tempo verbale passato. Temari strinse le labbra, assumendo un’espressione sbrigativa.

«sì, erano» ripeté ostinatamente, e Sakura capì di non dover insistere ulteriormente.

«ti riferivi a lui quando parlavi di persone simpatiche e non?».

«Non te la prendere se non ti ha manco guardata. È normale, non ce l’ ha con te. Semplicemente non gli interessa, come non gli interessa di null’altro se non della medicina. Diciamo che Sasuke Uchiha non è l’esempio massimo di cordialità in questo posto».

Forse fu solo una sua impressione, ma Sakura poté giurare di aver visto Sasuke voltarsi appena ed abbandonare la sua posizione compostamente seduta per guardarle, negli occhi di onice un chiaro accenno di irritazione. Decise di non farci caso e di unirsi alle chiacchiere di Naruto.

«Sasukeee!». L’urlo.

«Taci, dobe!».

Dopotutto quel posto – con quella voce così bassa, roca, sensuale – cominciava a piacerle.

«ma come ti permetti?!».

Ed infine, il furore.

 

…continua.

 

 

Buondì!

Vi ho postato la prima parte della fanfiction che ha partecipato al contest “Into the Book” di Bambi88 e Kalanchoe, classificandosi – ebbene sì, signori e signore – seconda! Ed inoltre vincitrice del premio “giuria” per attinenza alla traccia.

Spero con tutto il cuore che vi possa piacere, mi ci sono impegnata davvero tanto. Non la dedico a nessuno in particolare, ma a tutti i fan SasuSaku che sono in astinenza (come me .-.) o che, semplicemente, amano questa coppia.

 

Special Thanks to: Rò, la giudice, per aver indetto questo concorso e avermi spinta a partecipare xD, LullaH perché mi ha sopportata con i miei “Non finirò mai in tempo, questa fic è uno schifo!”, Lily e Rota che si sono classificate prima e terza <3.

 

Thanks for watching!

Shi No Mori is LOVE!

Rory.


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