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Autore: Lodd Fantasy Factory    17/06/2015    0 recensioni
Il mondo si sta arrendendo al cambiamento. Gli antichi debbono lasciare spazio all'evolversi di nuove vite, poiché è parte del destino di ogni entità che risiede su Draakhonsgaard. Il dominio degli Elfi, che ha imposto un'era di privazione agli uomini, è finalmente giunto alla sua conclusione: una nuova rinascita attende il popolo mortale. L'Arcaico avrà finalmente la sua vendetta!
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- II -

L'Arcaico

 

 

La pioggia si era riversata sul campo di battaglia come una violenta cascata, riuscendo ad avere la meglio anche sui robusti rami dell'antico bosco.

Gli effetti degli incanti a cui avevano fatto affidamento i due incantatori vennero meno; le formule magiche erano state sostituite dal rombo dei tuoni e gli effetti di luce soffocati dall'accecante bagliore dei lampi.

Cènidar giaceva a terra. Gli occhi sbarrati dal dolore roteavano privi di ragione; mentre le mani, premute sulle sue orecchie, non avevano impedito alla linfa vitale di sgorgare copiosamente attraverso le dita. Il suo liscio viso si trasformato in una maschera di sangue, nel frattempo che il suo corpo veniva animato da violenti spasmi di sofferenza.

I mortali, invece, erano riusciti a cavarsela con poco: la caduta gli aveva causato qualche escoriazione ma, oltre alla botta subita, accusarono solo qualche attimo di assoluta confusione, con conseguente perdita momentanea dell'udito. Ogni suono si era ridotto ad un intenso fischio.

Poi, quando i sensi si furono finalmente riassestati, l'Elfo, che intanto aveva riaperto gli occhi e levato alta la mano destra in un pugno, venne raggiunto fulmineamente dal mago che, premendogli il palmo sul viso, scandì ferocemente: «Tenebrignis!».

Una rovente fiammata investì il volto dell'inerme vittima, carbonizzandolo, mentre con l'altra mano l'uomo infierì sul suo petto, incendiando gli abiti. Neanche l'acqua piovana ebbe la forza di spegnere il fuoco. Un fitta nube di condensa di levò attorno ai contendenti, inghiottendoli.

«Inizierò col distruggere una falsa guida!», sentenziò l'uomo con un ghigno soddisfatto.

Placò l'immenso e distruttivo flusso di energia arcana unicamente quando si rese conto che il proprio potere fosse ormai prossimo al prosciugarsi. Anche il solo respirare gli risultò arduo.

Cadde in ginocchio accanto al suo avversario, ansimante. Gli dolevano le braccia per lo sforzo, ed i palmi erano stati ustionati in più punti: le fiamme non avevano risparmiato neanche il suo corpo, così come i suoi abiti.

Nonostante ciò, non aveva avvertito alcun dolore, benché avesse riportato diverse ferite. La foga del momento, e lo sfrenato desiderio di prevalere su colui che per molti anni gli aveva insegnato tutto ciò che ora conosceva, erano stati più forti della ragione e dell'istinto di sopravvivenza stesso.

Janeris, precipitatasi su di lui, fece per tirarlo su, ma non ebbe il tempo di avvisarlo di quanto il suo occhio magico avesse scorto: il cadavere carbonizzato di Cènidar si gonfiò, deformandosi celermente in numerose ed anomale protuberanze. Poi, all'improvviso esplose, scagliando ovunque ciò che restava della sua orrida carcassa. provocando l'ennesimo boato assordante.

Entrambi avvertirono una moltitudine di minuscoli aculei conficcarsi nelle loro schiene, mentre cadevano a terra, prede di una delirante debolezza. Percepirono gli aghi farsi largo sotto la pelle, sino a mordere i loro muscoli. Gli inflissero un dolore lancinante.

«Che la tua anima possa essere dilaniata nei Castighi, bastardo di un Elfo!», inveì Janeris, battendo un pugno a terra per tentare di contenere il tormento e sfogare la rabbia. La sua voce era rotta dalle fitte.

L'uomo, benché fosse anch'egli gravemente ferito, accorse in aiuto della compagna. Notò che numerose piccole spine l'avevano colpita, ed una profonda escoriazione solcava il suo ventre, dal quale continuava a sgorgare un rivolo di sangue. La ferita pareva essersi infettata.

Quella lesione le era stata inferta dalle spinose radici di Cènidar: l'esplosione causata dallo scontro magico le aveva violentemente spinte contro il suo corpo. Dell'immortale ora non restava che un appiccicoso liquame verdognolo disseminato per il sentiero.

«Dobbiamo raggiungere la grotta... al più presto. Non è molto distante...», mugolò l'Umana, stringendo i denti.

«Fermiamoci: non possiamo proseguire oltre in queste condizioni!», l'ammonì il compagno.

«Ma non possiamo neanche tornare indietro!», fece notare lei, aggiungendo poi, dopo essersi tirata su con le poche forze che le rimanevano: «Egli potrà aiutarci. Dopotutto, il nostro fisico mortale è di gran lunga superiore a quello elfico... Datemi una mano: non intendo crepare accanto a questo rifiuto!».

Il mago accordò, ma non prima di averle fasciato l'addome con le sue bruciacchiate maniche, che strappò prontamente. Si recriminò d'esser stato tanto sciocco per aver consumato in una sola volta tutte le proprie energie. Ora era costretto a risparmiarle, nel caso il nemico li sorprendesse nuovamente. Non possedeva certamente le conoscenze magiche in grado di guarirla; ma, con un briciolo di potere in più, sarebbe stato quantomeno capace di arrestare l'emorragia e disinfettare la ferita.

La prese cautamente sottobraccio, fungendole d'appoggio, mentre s'incamminavano verso l'ingresso dell'antro. Cercò di facilitarle i movimenti, onde evitare di farla sforzare troppo. Sentiva il suo cuore battere all'impazzata, come se tentasse disperatamente di aggrapparsi alla vita.

 

Le fiammelle verdognole, racchiuse fra le fauci di due gargoyle incisi nella roccia, li raggiunsero, gravitandogli attorno; poi, crescendo d'intensità, fecero loro strada giù per il lungo cunicolo scosceso. All'interno della cavità vigeva un freddo rigido, che rafforzava la sensazione delle energie che scemavano ad ogni passo; le gambe erano pesanti ed il respiro affannato. Credettero di star raggiungendo il centro della terra.

Janeris prese a vaneggiare, pronunciando vaghe parole in un linguaggio che differiva da ogni altro mai udito prima. Neanche il mago era a conoscenza di quell'oscura lingua che la donna stava borbottando, come fosse una strana ed inquietante litania. Sembrava prossima allo smarrire la propria mente.

Ebbero l'impressione di star scendendo da ore, quando un'intensa luce tornò ad infastidire i loro occhi, ormai abituati alle tenebre. Quando furono in grado di focalizzare la vista, videro che il cunicolo si apriva in una grotta circolare, munita di tre grandi bracieri scolpiti nella roccia, al cui interno ribolliva della lava. Una passerella di pietra conduceva ad un altare circolare, posto al di sopra di una pozza color pece.

«Non c'è nessuno...», constatò l'uomo, guardandosi attorno sbigottito. «Siamo in trappola!»

«Ti sbagli, umano», echeggiò una tronfia voce neutra, mentre dalla pozza si levava una densa nube fatta d'ombra dai riflessi violacei. Non aveva un'esatta forma: si agitava come fumo, aleggiando attorno all'altare, ma senza oltrepassare i bracieri. «Qui risiede molto più di quanto siete in grado di scorgere. Le vostre anime mortali non sono capaci di cogliere le sfumature di questa realtà, poiché assopite nell'illusione della vita che alcuni degli Eatryn hanno voluto imporvi sin dalla vostra nascita. Eppure, gli audaci possono oltrepassare il velo di menzogna che oscura anche la vista dei più saggi, fra di voi».

«Non ho tempo per intrattenermi in discussioni filosofiche. Janeris mi ha detto che avete stretto un accordo: voglio sapere come consolidarlo, e divenirne parte», disse d'un fiato il mago. Percepiva senza sforzo alcuno le immense energie arcane racchiuse all'interno di quella nube, ed era consapevole che, qualsiasi cosa l'entità fosse, erano bel oltre le sue possibilità. «Anche se, ammetto di essere curioso di conoscere la vostra identità».

«Sono tutto ciò che vorreste essere. L'unica cura per la piaga che vi rende tanto deboli, e riduce i vostri simili in polvere. Mi avete cercato, ed io posso donarvi ciò a cui tanto a lungo avete ambito: l'immortalità», rispose facendosi più imponente. Fra le ombre si schiusero due occhi dalla tonalità acida. «Il potere a cui avrai accesso sarà immenso, ben oltre ciò che potresti anche solo immaginare. La tua immortalità sarà assoluta: nessuna lama comune potrà scalfirti, alcuna magia piegarti, ed il tempo diverrà per te un valido alleato. Temeranno ciò che diverrai. I deboli s'inchineranno al tuo cospetto, mentre i tuoi nemici cadranno sotto la tua collera... Nessuno potrà fermarti, e la tua vendetta potrà finalmente compiersi!».

«Una proposta generosa... Cosa volete in cambio, e che ci guadagnate?».

«Nutrite dei sospetti nei miei confronti: è ragionevole. Ma i nostri piani coincidono: siamo entrambi dei reietti, fulgide menti che hanno deciso di opporsi alla tirannia delle Eatryn». Il duo acido si fece più intenso. «Ma, affinché il nostro piano possa compiersi, dovete divenire qualcosa di diverso, immune allo sconsiderato giudizio di chi ti ha generato. Devi avere nuova vita. Concedimi la ragazza... e la tua anima. Non ne avrai più bisogno, una volta raggiunta la perfezione!», lo invitò. Al centro della nube si aprì un percorso che conduceva all'altare.

«Temo questo scambio sia infattibile. È troppo ciò che mi chiedete», rispose il mago.

Janeris abbandonò d'un tratto la presa, cadendo rovinosamente a terra. Dalla sua bocca aveva iniziato a sgorgare un rivolo di sangue verdognolo.

L'uomo la chiamò più volte, senza ricevere risposta. Il battito si stava inesorabilmente affievolendo: il cuore aveva iniziato a contrarsi ad intervalli irregolari.

«Vi è sempre un prezzo da pagare: qual'è quello per alleviare le sue sofferenze? Io posso salvarla. Posso salvare ambedue», proseguì la tetra voce. La sua pareva più un'unica estrema soluzione, piuttosto che un invito.

«Salvarci da cosa?», chiese stringendo a sé la compagna.

«Dalla morte. Janeris è stata infettata dalla magia elfica, attraverso un sortilegio proibito dallo stesso popolo di Caylionel. Gli Elfi sanno essere vendicativi, quando vogliono. Puoi definirla una maledizione, se vuoi. Non sei ancora in grado di rimuovere il potente veleno che è stato iniettato nel suo sangue... così come nel tuo!», rivelò l'entità.

Infine, con la vostra sorprendente abilità, siete riuscito a giocarmi un ultimo, infame e letale tiro mancino, maestro. Rammenterò i vostri preziosi insegnamenti, Cènidar”, pensò il mago, stringendo i denti. Avrebbe voluto prevedere quella mossa, ma si era lasciato accecare dall'odio.

«Presto avvertirete uno sgradevole senso d'impotenza: i muscoli s'irrigidiranno, impedendovi di muovervi, la gola si seccherà, i tendini si spezzeranno uno dopo l'altro; la vostra mente si perderà gradualmente in un vorticante baratro, dove tutto ciò che siete svanirà, consumando i vostri ricordi. Poi, rimarrete intrappolati in un limbo mentale, ma i vostri sensi continueranno ad essere vigili: sentirete, vedrete, e proverete dolore. I vostri organi interni si consumeranno, corrosi dal veleno, e la vostra pelle brucerà, spaccandosi. Morirete poco a poco!». L'entità illustrò con una certa nota divertita ciò che sarebbe accaduto di lì a breve, prima di aggiungere: «Sempre che i nemici che avete alle calcagna non sopraggiungano prima della vostra dipartita. Io ho la cura».

«Dovete credergli. Vendicatemi... vendicate il nostro popolo... vendicate l'agonia che abbiamo patito. Rendete gli Uomini liberi dalla condanna che li soggioga, rivoltateli contro chi li ha sottomessi! Serbate rancore. Portate con voi l'insaziabile desiderio di vendetta. Lasciate pure che prenda le nostre anime... », gli consigliò la donna, accostandosi al suo orecchio; aggiunse poi, in un moribondo sussurro: «Un giorno tornerete a riprenderle!».

«Non vi lascerò andare, Janeris. Non posso condurre questa guerra da solo», ammise il mago, mentre percepiva le braccia perdere sensibilità, la lingua intorpidirsi e le palpebre appesantirsi: il veleno stava intaccando le sue funzioni motorie. Presto non sarebbe più stato in grado di muoversi, e tanto meno di respirare. Sarebbe morto.

«Ricordate le mie parole? Non esiste luna, sole, giorno, notte o qualsiasi altro elemento in questo universo che possa negarvi tale visione: poiché io sarò qui, a condividerla al vostro fianco. Un nuovo alleato per uno vecchio: uno scambio equo!», gli disse a fatica, poggiando una mano sul suo pettorale sinistro, esercitando maggior pressione con la punta dell'indice.

Il tocco era rovente, tanto da sciogliere l'abito e bruciare la pelle, incidendo una J sulla sua carne. Egli non avvertì alcun dolore. «Avete trovato qualcosa che vale la pena di portare con voi... sulla vostra pelle: un marchio che mi legherà per sempre a ciò che diverrete. Amate questa causa come avete amato me. Esistete per entrambi, annientateli per i nostri fratelli... Realizzate il nostro sogno di rivalsa, Dynastrir!».

Il mago la prese fra le sue braccia con le poche forze rimaste, mentre dal cunicolo alle sue spalle si udivano già il tintinnio di armature e ordini scanditi in elfico. Il nemico era ormai vicino. Non slacciò il legame visivo con la donna, mentre si apprestava a raggiungere l'altare, finendo inglobato dalle tenebre. La lava ribolliva ai suoi fianchi, gettando sul percorso i suoi roventi schizzi.

Adagiò il corpo sull'ara, abbandonandosi anch'egli su di essa; i suoi occhi ancora in quelli dell'amata. Percepì un'immensa energia sprigionarsi dai loro spiriti, che finì presto per fondersi con quella arcana che regnava nel luogo.

«Saggia scelta», recitò la tronfia voce. «Che le tenebre possano dominare in eterno, nel nome di Hail Vas!».

Avvertì la sua anima congiungersi a quella di Janeris, mentre qualcosa pareva dilaniare le sue carni, strappandole via. Vide tetre creature volteggiare nell'ombra, ed i loro denti affondare su entrambi, strappando e masticando le loro viscere. Le loro cuti erano punzecchiate da creature minute dai volti inquietanti e dagli occhi malevoli.

Udì i loro macabri sussurri farsi largo nella sua mente, come un sinistro richiamo che risaliva dal baratro dell'esistenza; si facevano portatori di consigli, di conoscenze e di doveri.

Urlò, ma senza dimenarsi, mentre il gelo stringeva le sue membra, sbarrava i suoi occhi e faceva avvizzire la sua pelle, con violenza tale da renderlo insensibile al dolore. Poi, scorse quell'ombra agitarsi, più intensa e violacea che mai, sino ad assumere per la prima volta una sagoma: era un lungo serpente composto di tenebra violacea, munito di due teste, una per ogni estremità. Le sue iridi erano per metà purpuree e per l'altra acide.

La creatura si addentro interamente a forza nella bocca del mago, scivolando prepotentemente giù per la sua gola. Era come un'affilata lama che si faceva largo nel suo esofago, graffiando e tagliando, sino ad aprirsi un varco nello stomaco, e quindi annidarsi attorno al suo cuore, dove affondò gli aguzzi e ferini denti.

Nonostante la fastidiosa sensazione, egli non avvertì alcuna sofferenza.

Subito dopo, percepì un brivido di infinito potere scorrergli nelle sue vene, come un soffio di nuova vita. Non respirava più, eppure era vigile. Il suo cuore aveva cessato di battere, ciò nonostante il suo corpo e la sua mente perduravano. Non provava stanchezza, né dolore, ma poteva ancora dirsi se stesso. L'unica sgradevole sensazione, era la gola asciutta: aveva bisogna di bere, ma non avvertiva il desiderio della freschezza dell'acqua, bensì qualcosa di diverso, ma che gli pareva di avvertire starsi avvicinando nell'aria.

 

Quando la tenebra si diradò, vi era solo lui in piedi sull'altare. L'abito era ridotto in brandelli, mettendo in mostra il suo asciutto e pallido fisico. La sua schiena, appena incurvata per il tanto studio, si era ora raddrizzata, ed i suoi muscoli apparivano sì rinsecchiti, a causa della mancanza di spessore, ma più rapidi e precisi nei movimenti.

In quello stesso istante un pugno di Elfi irruppe nella grotta, con lame e scudi alla mano. Alcuni di essi brandivano lunghi bastoni, utilizzati per incanalare il potere arcano. Riconobbe ognuno di loro, e fra di essi rivide incantatori con cui aveva condiviso molti anni dalla sua vita: insegnati che era riuscito a sminuire col proprio innato talento. Nei loro occhi lesse una vibrante paura, così come nelle loro anime.

Discese flemmaticamente dall'altare, percorrendo con cadenzati passi la passerella di pietra. Si fermò davanti al gruppo, ed alcuni di essi accennarono a voler indietreggiare.

Lasciò che i lunghi capelli d'ebano gli oscurassero parzialmente lo scarno viso, mentre li studiava sottecchi. Puzzavano di sangue: un odore che ora stuzzicava i suoi sensi, quasi lo invitava a farlo suo.

«Cosa siete diventato, immonda creatura?», domandò uno dei soldati, pronto ad attaccare.

«Sono ciò che ognuno di voi vorrebbe essere», affermò. Un genuino sorriso marcò le sue labbra, mettendo in mostra la regolare ed aguzza dentatura: i canini superiori erano leggermente più affilati e lunghi del normale.

Spalancò gli occhi che, accesi di un cremisi intenso, con venature violacee, assunsero una viva tonalità purpurea. Poi, facendo un passo in avanti ed aprendo le braccia come per accogliere i suoi nuovi ospiti, si proclamò: «Io sono l'Arcaico!».

 

 

Continua su...

Le Ombre del Destino:

Il Cavaliere dagli occhi purpurei”

   
 
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