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Autore: Knetgummi    26/06/2015    1 recensioni
[Ex "Canarini al microonde"]
*ATTENZIONE: STORIA INCOMPIUTA*
Michele è un ragazzo come tanti altri. Né magro ne grasso, né basso né alto, occhi e capelli castani come il novanta percento della popolazione italiana. Suona il basso, legge tanto e si barcamena tra la scuola e una madre opprimente che lo crede etero -- cioè, non che lui non si definisca un uomo etero, ma sua madre lo crede una ragazza a cui piacciono i ragazzi. L'unica cosa che ha di diverso da un qualsiasi adolescente, infatti, è che non è nato maschio.
Poi arriva Valentino, che cercando di dare un senso alla sua vita di universitario mancato si ritrova faccia a faccia con la forza, il carattere, il fascino, il culo di Michele.
Genere: Drammatico, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: Incompiuta
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Capitolo I


 

“Oh, Michi, ci sei?”

Nel sentire la voce concitata che lo richiamava dal cellulare e qualche chilometro di distanza, Michele richiuse la bocca che aveva spalancato per la sorpresa. Rimase qualche secondo a fissare l'armadio con le ante spalancate come una voragine, con il cellulare e la telefonata sospesi a qualche centimetro dall'orecchio. Desiderava ardentemente che il fondo di compensato lo inghiottisse e lo portasse in una terra piena di fauni pelosi, dove nevicava sempre e si poteva stare coperti tutto l'anno, senza mostrare curve sospette sotto i vestiti leggeri.

“Ele...”

“Che c'è? Sei vivo? Stai bene?”

“No.” Silenzio, agitazione, disperazione. Non voleva dirlo. Sembrava una frase così stupida. “Mia mamma ha fatto il cambio di stagione all'armadio.”

“E con ciò?”, si sentì rispondere. Scavò disperatamente tra le pareti di compensato, vuotando ogni mensola e spogliando le grucce di maglie e maglioni. Alle sue spalle caddero canottiere con spalline trasparenti, vestiti di lino e pantaloncini orribilmente rosa. E la scatola dei calzini era mezza vuota, due scaffali più in giù di dove se la ricordava. I suoi tesori, che di solito nascondeva dietro quella scatola subito dopo averli tolti – dovendo nasconderli alla sua maledettamente scaltra madre – erano spariti.

Odiava se stesso e la sua poca previsione degli eventi di più a ogni vestito che lanciava sul letto. “E con ciò sono morto, merda. Morto! Sai cos'ho in mano, in questo istante?”

“Pensi che sia così intelligente da indovinarlo, tesoro?”

“Ovviamente no, idiota. Ho in mano un copricostume a righe rosa, Ele! Un maledetto copricostume con la gonna a pieghe! E non trovo il binder che mi ero guadagnato con sangue e sudore”, disse, riferendosi con un termine ben specifico alla canotta contenitiva per appiattire il petto, “né i fazzoletti imbottiti, né niente! Sono morto. Li ha trovati, e a quest'ora saranno in una discarica dall'altra parte del mondo. Sono morto!”

“Uh, porca puttana.”

Per un secondo ci fu preoccupazione da entrambi i capi del filo. Elena era ammutolita, e mentre applicava l'ultimo strato di smalto trasparente sull'alluce destro, seduta sul bordo della sua vasca da bagno, rifletteva su una possibile soluzione.

Non trovandola, se ne uscì con un “Beh...”. Michele odiava quando Elena iniziava un discorso con il suo “Beh...” da donna navigata, come se l'avere due anni e mezzo più di lui l'autorizzasse a dargli consigli di vita. “Se questo ti può tranquillizzare... mia madre, tempo fa, ha trovato il reggiseno che le era misteriosamente sparito dal cassetto. E l'ha trovato nel mio cassetto. E sono ancora qui, con le tette più imbottite di sempre.”

Michele sbuffò, sentendo gli occhi che iniziavano a bruciare. Schifosi ormoni, schifosa sindrome premestruale, perché a me?, non ce la faccio!, fanculo. “La tua non fa testo, cretina, perché è la santa protettrice di tutti i transgender. Mi sorprende che non ti abbia già prestato tutti i vestiti che le stanno stretti...”

“Veramente lo ha già...”

“Ma io che cazzo faccio, ora?”

Si lanciò sul materasso rimbalzando di pancia tra le coperte, e gettò a terra una gonna a palloncino gialla da sotto il gomito. Sospirò, con il telefono ancora all'orecchio, e sedutosi sul bordo del letto con le spalle alla luce del sole prese a osservarsi allo specchio oblungo vicino alla porta. Ignorò la collana di perline rosa, appesa all'angolo in alto a destra del vetro, riesumata chissà da dove da sua madre; e così fin da subito evitò di guardarsi in faccia, e sorvolò sulla piccola curva orribile delle sue cosce spalmate sul materasso. Si alzò in piedi come un automa, controllando quasi involontariamente se i pantaloni gli sottolineassero i fianchi, o se la maglia gli facesse difetto sul petto fasciato. Prassi giornaliera da fare appena svegliato, appena tornato da scuola, mentre ballava per la sua stanza, la sera durante le sue riflessioni poco realistiche e, soprattutto, prima di uscire.

Lo specchio gli restituì l'immagine di una figura che, se non maschile in un modo convincente, era perlomeno androgina. Il maglione ricadeva sul torace piatto come doveva ricadere e i jeans erano larghi abbastanza da non stringere in posti inopportuni, come i fianchi femminili o il sedere troppo grande. Tutto perfetto, più o meno. Peccato che iniziasse a sentire caldo già nella sua buia e umida cameretta. Fuori dalla finestra, sulla città fumosa, il sole splendeva come non faceva da secoli, asciugando un po' l'umidità dell'inverno appena ritiratosi a vita privata.

“Fa caldo... Cristo, se fa caldo! E non ho vestiti normali che rimpiazzino quelli che ho indosso, cazzo!”, si lamentò debolmente Michele, rabbrividendo nel sentire la sua voce acuirsi per l'isteria che l'aveva colto. Guardò i vestiti nell'armadio. Guardò la porta. I vestiti. Lo specchio. La porta. Lo specchio. I vestiti. “Davvero, che cazzo faccio? Eleonora, aiutami.”

Elena era distratta, e mentre pettinava i capelli rosso fuoco riportava pian piano alla mente la sua adolescenza, corrugando sempre più le sopracciglia. Trattenne un sospiro, poi riprese al volo la leggerezza d'animo. “Crossdressing*?”, azzardò, preparandosi all'esplosione.

Ma Michele era troppo depresso per arrabbiarsi. Si alzò dal letto, si diresse finalmente verso la porta e le rispose: “Fanculo, Ele, solo fanculo. Ci vediamo tra mezz'ora sotto il ponte sul Tamigi.”

“Sotto il ponte sul Tamigi? A Brescia? Ma cosa stai dicendo?”

“Sto semplicemente straparlando. Non so più cosa cazzo dico. È il panico, o meglio, è il mio subconscio che preferirebbe essere a Londra sotto un ponte piuttosto che a Brescia con mia madre. Ciao, ci vediamo dopo davanti al Pinguino. Stesso posto stessa ora, come sempre.” Così dicendo, chiuse la chiamata pestando con violenza il touch screen e, sospirando, aprì la porta e si avviò verso il suo destino.

Pattinò con i calzini a righe sulle mattonelle scure del corridoio, passando dritto come un treno sulle rotaie davanti alla porta spoglia della stanza dei suoi genitori, e sorpassando quella piena di disegni appesi da una vita della camera di suo fratello, notoriamente troppo pigro per darle un aspetto da maturando come si deve. Saltellò con una leggerezza nervosa sul marmo del pianerottolo, diretto al piano di sotto, per poi attorcigliare il suo percorso nella chiocciola formata dalle scale. Nella discesa riuscì a cancellarsi dalla faccia l'espressione nauseata e ad aggiustarsi un sorriso traballante. Non era tipo da saper fingere molto bene, ma l'ansia rende possibile qualsiasi cosa.

Saltò le fughe delle piastrelle, come faceva sempre, per sembrare più naturale; poi guardò nella dispensa se c'era qualcosa da mangiare. Aveva sempre fame, quando doveva fare qualcosa che desiderava ritardare.

Temporeggiò, andò in sala e controllò lo stereo, andò di nuovo in cucina a prendere da bere, temporeggiò ancora, accese e spense la TV, aspettò, mangiò un biscotto, riflettè sulla sua triste esistenza, si chiese perché fosse nato idiota, si chiese perché fosse nato femmina e cresciuto come tale, considerò l'idea di scappare di casa e poi, finalmente, dopo aver bevuto un po' di limonata, si diresse in salotto.

Gli faceva male lo stomaco. Erano mesi che sentiva come un tarlo nelle viscere, e la nausea lo accompagnava da quando la mattina apriva gli occhi impastati, rendendosi conto di dover andare a scuola, a quando a mezzanotte scivolava nel sonno lungo una scia di pensieri sempre più deliranti.

Sua madre era seduta al tavolo con un paio di occhiali sul naso, stava riordinando delle scartoffie in una cartelletta di plastica. L'avvocatessa perfetta, al lavoro anche a casa. Michele ne scorse il profilo impassibile incorniciato dallo spiraglio della porta socchiusa, il naso leggermente aquilino, le sopracciglia spennate per rassomigliare ad ali di gabbiano.

“Ma'?”, esordì dopo qualche passo nel salotto tinteggiato di luce giallognola.

Lei alzò gli occhi. “Dimmi, tesoro.”

“C'è stato un tornado nell'armadio oppure l'hai riordinato tu?”

“Ah, te ne sei accorta, quindi! Strano. Fa un po' troppo caldo per le felpe imbottite, no?”, rise lei, stanca.

“Non fa mai troppo caldo, per me. Che palle, ma'. È sparita un sacco di roba”, buttò lì Michele appoggiandosi allo stipite e mettendo su un broncio stupido.

“Da chi l'hai presa questa finezza, signorina?”, sbuffò sua madre. Storse il naso appuntito e arricciò le labbra in un moto di rimprovero, facendo dondolare i ciuffi biondi che le sfuggivano dallo chignon. Se lo faceva sempre, quello chignon finto-trasandato, da quando la sua parrucchiera glielo aveva consigliato convincendola a suon di “è di tendenza”. A Michele parve sorprendentemente vecchia. Ogni volta che la osservava per appena il tempo sufficiente ad accorgersi davvero del suo aspetto – vedendo di continuo quel volto gli si era come impresso nelle retine, e ormai quasi non lo percepiva più, come se fosse il suo stesso riflesso allo specchio – gli capitava di chiedersi quando di preciso sua madre fosse invecchiata.

Aveva in mente un'immagine di lei giovane, ridente, con la pelle pulita e i capelli appena tinti di rosso, seduta sul divano di casa. La foto mentale aveva un'angolazione strana, come vista dal basso. Probabilmente era un ricordo risalente a quando lui ancora gattonava.

Ogni volta che si soffermava su quel voto accartocciato dalle rughe, le due immagini si scontravano con una violenza che gli dava i brividi. Chissà se lei si era accorta degli anni che passavano, o era stata troppo intenta a mandare avanti la baracca per fermarsi un attimo e lasciarsi raggiungere da spiacevoli riflessioni sul nonsenso dell'invecchiare e poi morire.

Michele si perse nella contemplazione addolorata delle rughette truccate sul suo viso. Sapeva che sua madre sapeva, e lei sapeva che lui sapeva che lei sapeva, e cercava di dissimularlo. I suoi patetici tentativi di somigliare a un ragazzo con i cromosomi XY non potevano esserle sfuggiti, anche se probabilmente li aveva interpretati come gravi sintomi di lesbismo mascolino. E in più ora aveva le prove, aveva capito che l'improvvisa sparizione del seno di sua figlia era dovuta a una sospetta canotta elasticizzata, e le mutande con i fazzoletti appallottolati all'interno non erano meno rivelatrici. Tu sai, pensò Michele, tu devi parlare. Devi dirmi chiaramente che sai. Parlami. Disapprovami. Dimmi quanto sono una bella ragazza, quanto mi stia svalutando facendo quello che sto facendo. Quanto vado contro i precetti del cristianesimo. Quanto sono immorale, amorale, orrendamente nudo di fronte al giudizio delle persone normali. Non ignorarmi. Fai qualcosa. Rompi il ghiaccio. Tu sai.

“Tutto ciò che non ho buttato via, l'ho messo su negli scatoloni dell'armadio. Se cerchi qualcosa che ti serve davvero, lo trovi lì.”

“Ok.”

Suppongo che tu abbia buttato via tutto.

Il binder l'avevo pagato con i tuoi soldi, comunque.

Rifece il percorso al contrario, sempre più nauseato. Tornando a barricarsi nella sua stanzetta dalle pareti lilla, accatastò gli abiti sparsi in giro dove dovevano stare e sistemò un po' la scrivania, guardando una volta ogni tanto fuori dalla finestra. La fila di venti villette Marcolini sull'altro lato della strada – tutte a due piani, tutte bifamiliari, tutte con i muri gialli, tutte con le imposte marroni e tutte con un'auto metallizzata parcheggiata nel cortile di cemento – sembrava a posto. I bambini giocavano nel sole del mattino, le nonne in vestaglie azzurre cercavano di ficcar loro in testa cappelli per ripararli dai raggi e le madri erano da qualche altra parte.

Michele sentì la nausea e la rabbia salirgli per le narici a ogni respiro, come l'odore acre della benzina. Aveva una madre troppo maledettamente intelligente. Non sarebbe dovuta andare così, oh no. In un qualsiasi film – di quelli standard, mandati in onda a ripetizione il sabato sera su Italia 1 alle 21.10, di quelli che dopo trenta volte che sono stati trasmessi finiscono per condizionare i comportamenti della gente – sua madre si sarebbe alzata da quella dannata sedia agitando il sedere e gli avrebbe detto “Michela, Cristo, cosa ho mai fatto perché tu sia cresciuta con queste idee malsane?”, e lui avrebbe avuto un buon motivo per odiarla, per ribellarsi, per fare qualcosa. Sarebbe scappato di casa, con un sacchetto a pois rossi pieno di stronzate appeso a un bastone. E invece no, semplicemente non poteva funzionare così. Era uno stupido con una madre dalla borghese nonchalance.

Voleva così tanto che una piccola, piccolissima, minima scheggia di disapprovazione sfuggisse al contegno di quella donna terribile. Una scheggia grande quanto gli bastava per appiccare un gigantesco rogo di risentimento, prima a malapena soffocato per mancanza di prove nel processo mentale contro la sua famiglia.

Mentre metteva in ordine – biro di qua, matite di là, plettri da una parte, fogli dall'altra, libri di scuola il più lontano possibile, diario dove mamma non lo può vedere, computer spento e con password attivata – sentiva chiaramente, pur cercando di ignorarlo, il suo sangue ribollire per la rabbia, e lo stomaco torcersi per la paura, e il caldo andare e venire e lasciarlo con i sudori freddi, e soprattutto le spalle ricadere sulla cassa toracica costringendolo a pompare ogni singolo respiro. Iniziava a sentirsi impotente, debole, arrabbiato, e le penne caddero tutte a terra, e qualche dio, lassù, iniziò a lamentarsi delle offese ricevute. Cercò disperatamente di non rompere nulla, ma decise che la sedia era sacrificabile sull'altare della sua rabbia. Sentì distintamente lo scricchiolio del legno quando la scaraventò contro l'armadio, quello pieno di vestiti carini, e dall'essere arrabbiato passo immediatamente al temere che sua madre avesse sentito il rumore di “cosa-avrà-combinato-quella-ragazzina”. La donna che lo aveva partorito sapeva iniettargli una quantità sproporzionata di ansia ogniqualvolta Michele commetteva, o credeva di commettere, qualcosa che agli occhi di sua madre poteva risultare sbagliato.

A quel punto, stordito tra il sentirsi un idiota e l'avere esaurito tutte le energie con quel solo gesto, si lascio cadere sul letto.

Cercò di dare un'aria tragica a quella patetica situazione facendo un po' l'idiota con se stesso. Santo David, pregò osservando il santino sul muro, quello in cui il Divino era stretto in una tutina paurosamente trash, aiutami tu, che da giovane eri un figo anche vestito da pulzella.

Bowie lo guardò sornione dalla parete, con la chioma di un rosso metallico sparata ovunque. Sembrava suggerirgli cosa fare, squadrandolo benevolo dall'alto con le sue pupille diseguali.

Voleva strappare dalla carta il sorriso sicuro, quasi aggressivo di David e appiccicarselo sulla bocca. Aveva bisogno di un'arma difensiva come quella – perché sì, cazzo, la strada era dannatamente pericolosa, e gli sguardi piovevano come frecce, e la gente caricava frettolosa diretta ben oltre quel povero moccioso armato alla leggera, ma a cui lasciare ferite non costava proprio niente. Sembravano così a posto, all'inizio, mentre camminavano sull'asfalto con espressioni neutre. Eppure avevano tutti la capacità di tirare fuori la loro natura di stronzi inaciditi come un coniglio da un cappello, o magari, dalla loro prospettiva, come un asso dalla manica. Li vedevi sfilare impassibili per le strade – ragazzi con dread e magliette larghe, signore sui trampoli tinte di biondo menopausa, vecchi con occhiali e cappellino, ragazzette con i leggings militari e altre amene figurine da parata funebre – e ti sembravano tutti persone pronte a sorridere in risposta a un tuo saluto e a prestarti aiuto in caso fossi caduto dal marciapiede o in qualche altra situazione spiacevole. E invece, poi, qualcosa andava storto. Ad esempio, poteva capitare di vedere per la strada un barbone che chiedeva l'elemosina, degli africani che confabulavano tra loro in lingua sconosciuta, due ragazzi che si tenevano per mano, e persino qualche mostro dalla voce femminile che si vestiva da uomo e parlava di sé al maschile. Bastavano queste piccole cose, penava Michele, perché qualcuno ferito nella sua integra e ottusa tranquillità da standard si sentisse in diritto di ferire in risposta.

Michele era così perso in queste considerazioni da affondare con lento abbandono nel materasso, come se fosse catrame fresco in cui soffocare tutte le sue debolezze.

Per quanto a volte se ne dimenticasse completamente, lui non somigliava un granché a un bambino vero, per dirla come la direbbe Collodi. Come il suo personaggio, era come un pupazzetto umanoide di legno che aspettava la Fata Turchina – possibilmente in camice bianco e con una specializzazione in endocrinologia – perché lo rendesse reale prescrivendogli il magico testosterone. Poteva indossare gli abiti che indossavano i bambini veri, e parlare e atteggiarsi allo stesso modo, ma in sé sapeva di non poter sembrare uno di loro. E anche il mondo lo sapeva. Il mondo, almeno così percepiva Michele, era il primo in assoluto a vederlo come una tenera, adorabile ragazzina con labbra rosee e soffici capelli ondulati. Mentre lui, prendendosi estremamente sul serio – beh, almeno finché l'insicurezza non prendeva il sopravvento – nel grande schermo del suo cervello vedeva una sola immagine da associare a se stesso, ed era quella di un diciassettenne qualunque, con un accenno di barba e i fianchi stretti.

Forse era quello il punto. Forse – solo per lui o magari, pensò generalizzando irrazionalmente, per la maggior parte delle persone transgender – non era un organico “non sentirsi a proprio agio con il proprio corpo”, ma più un socialmente instillato – ma non meno vero, doloroso e irreversibile – “non rispecchiarsi nell'identità sessuale assegnata alla nascita”, che, vista la semplicioneria dilagante, per la maggior parte delle persone corrispondeva al corpo. E che quindi, per essere cambiata, necessitava anche di una trasformazione fisica, biologica, medica e chirurgica.

Si rese subito conto che queste non potevano che essere che speculazioni. Come poteva essere una cosa esclusivamente psichica? Il suo disagio era soprattutto a livello fisico, e in caso contrario non si sarebbe spiegato il suo orrore alla vista del proprio riflesso allo specchio. Il disagio fisico era l'unico che spiegava la sensazione di essere disincarnato, di essere ficcato e rinchiuso a forza in un ruolo che non gli apparteneva e che ai suoi occhi prendeva forma, in modi misteriosi e primitivi come possono esserlo i meccanismi di associazione della mente umana, nel curvo, morbido corpo avvelenato dagli ormoni sessuali femminili che gli aderiva addosso.

E dire che sosteneva la parità dei sessi e l'ingiustizia e innaturalezza dei ruoli di genere – rifiutava e aveva sempre rifiutato gli stereotipi della donna casalinga, l'uomo macho e ignorante, il rosa e l'azzurro, le damigelle in pericolo e i principi salvatori, le gonne alle une e i pantaloni agli altri. Era da sempre convinto che ognuno fosse libero di fare ciò che preferiva, a patto di non ledere la libertà altrui, ma nessun farmaco sembrava funzionare contro quell'odioso, viscido disagio. Sembrava crescere direttamente dalle viscere, più che dal cervello. Aveva radici troppo profonde per essere sradicato con belle paroline, come un cobra dal cesto di vimini. Non bastava essere convinti che anche le donne potessero portare i pantaloni, fumare, dire le parolacce, andare in palestra, avere i peli e scopare con chi pareva a loro.

La disforia di genere c'era, viscida, organica e primitiva. Michele non sarebbe mai stato a suo agio nell'involucro di una ragazza. Non sarebbe mai riuscito a definirsi una donna che sfuggiva agli stereotipi, perché non sarebbe mai riuscito a definirsi una donna – e basta.

Si alzò faticosamente dal letto. Aveva le membra pesanti, fradice di sconforto.

Il suo corpo non era così male. O perlomeno, si ritrovò a pensare guardandosi allo specchio, dopotutto era un ammasso di carne carino, ben modellato, un figurino fatto per essere ammirato e fischiato dai ragazzi per la strada. Era stato fortunato, per così dire. Se si fosse sentito una donna avrebbe amato profondamente il suo corpo, con tutta probabilità.

La sua immagine cambiò lentamente mentre la guardava, assumendo dimensioni e proporzioni sempre più imponenti. Si trasfigurava: era Pamela Anderson, con le gigantesche tette mal rifatte. Era un idolo femminile preistorico, con grossi fianchi fertili ed enormi seni di pietra. Era una montagna, una gigantessa sdraiata a terra, due tube di Falloppio ambulanti sormontate da ghiandole mammarie sovrasviluppate. Era un mostro con i tacchi e il rossetto – tacchi e rossetto, che allitterazione di cacofonie.

I pantaloncini inguinali azzurro pallido con inserti di pizzo ghignavano ridicoli, in silenzio, sul pavimento dove li aveva scaraventati Michele mezz'ora prima.

Li vide, e qualche lacrima gli rigò le guance. Sarebbe stato costretto ad indossare le bende mediche fino a che non fosse riuscito a procurarsi un nuovo binder – e le bende erano davvero deleterie, a differenza delle canotte, che perlomeno erano state create appositamente per appiattire i toraci dei ragazzi transessuali. Sentire continuamente una stretta alle costole, difficoltà a respirare e la pelle che si tagliava lentamente era orribile. Era qualcosa di profondamente umiliante.

Singhiozzando debolmente, già fradicio di sudore, prese la peggiore e migliore decisione che avrebbe potuto prendere quel giorno. “Niente crossdressing. A costo di crepare di caldo.”

 



*Crossdressing: vestirsi  con abiti del genere opposto. Un crossdresser è una persona, spesso un uomo indifferentemente omo o eterosessuale, che indossa abiti ritenuti del sesso opposto per divertimento o spettacolo (un esempio sono le Drag Queen). I crossdresser non sono quindi da confondere con le persone transessuali, perché non sentono di appartenere al genere opposto a quello assegnato alla nascita. Quando Eleonora dice a Michele di fare crossdressing gli sta suggerendo a malincuore di vestirsi da donna poiché lui, seppur transessuale, è un ragazzo.
Buonasera a tutti, popolo di EFP. Tra una cosa e l'altra sono finalmente riuscito a prendere in mano il PC e  a pubblicare questo primo capitolo, che spero apprezzerete! Vi ho presentato Michele, il nostro eroe; nel prossimo capitolo capirete qualcosa in più di lui e della sua dolce e delicata migliore amica. Ele è una specie di bulldozer. Non a caso è ispirata a una mia amica reale sensibile quanto lei... per fortuna che la mia amica non sa dell'esistenza di questa storia.
Beh, eccovi qui il primo protagonista. Seguite e recensite, gattoni, mi raccomando!
- Knet

   
 
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