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Autore: MissHyde_J    03/07/2015    0 recensioni
Quella notte i cancelli dell'inferno furono aperti.
Genere: Dark, Horror, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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~~Capitolo 1,
Speranza

 


Zittezittezittezittezittezittezittezittezitte! Oh, vi prego, state zitte! Continuavo a pensare, con le mani premute contro le tempie, sperando che così facendo se ne sarebbero andate, avrebbero taciuto forse, se solo lo avessi chiesto loro, sarei finalmente riuscita a cacciarle dalla mai testa.
Non puoi liberarti di noi, mi dissero le voci, rimbombando nella mia testa, siamo parte di te. Loro continuavano a parlare, sovrapponendosi l'un l'altra ed echeggiando nella mia mente.
  «Fottetevi», bisbigliai, scattando in piedi di colpo.
Lo sguardo dell'insegnante si posò su di me: «Signor Patterson, posso andare al bagno?» Domandai.
Rispose con un semplice cenno ed io mi catapultai fuori dalla classe, raggiungendo la toilette delle ragazze, che si trovava dall'altra parte del corridoio; allora mi avvicinai alla finestra e la spalancai, affacciandomici, affinché riuscissi a prendere una boccata d'aria e potessi schiarirmi le idee.
Potrei buttarmi giù, pensai.
  «E' inutile: loro non se ne andranno», sarebbe stato impossibile non riconoscere quella voce, o meglio quelle voci, così soavi ed angeliche da lenire ogni mia ferita e placare i miei incubi; allora mi voltai e incontrai  gli occhi infiniti dell'arcangelo.
  «Michaël...» Lo chiamai, «perché ti posso vedere solo io?»
  «Perché io sono il tuo salvatore», rispose, «sono stato mandato sulla terra per proteggerti dal Maligno e dai suoi servi, lo dovresti ben sapere.»
  «Infatti lo so...», socchiusi gli occhi e mi passai una mano tra i capelli, «ma io continuo a non capire: perché non sono normale come tutti?»
  «Chi è normale, Hope?»
   «Lo so, lo so: non si può parlare di normalità parlando del genere umano, poiché ognuno di noi è diverso e strano a modo suo. Anch'io, se non fossi così, non sarei nulla di speciale. Forse il mio dolore fa parte di me ed io senza non sarei nessuno: sarei vuota. Sai, ormai riesco a percepire solo tristezza e rabbia e se non provassi più queste sensazioni sarei solo un corpo senza vita», spiegai portandomi le mani al petto con l'ansia che cresceva ad ogni parola, causata dalla consapevolezza che tutto ciò che stavo dicendo era vero e che non ne sarei mai potuta uscire. Non da viva, almeno.
  «Allora perché me lo chiedi se già conosci la risposta alla domanda che tu stessa stai ponendo?» Mi domandò.
  «Perché tu sei diventato ormai la mia coscienza, parte della mia anima persa: quando le voci si fanno troppo insistenti tu arrivi, come fossi un antidolorifico, per proteggermi», spiegai, abbassando lo sguardo a terra, osservando le striature del pavimento, «sai, vorrei solo che qualcuno credesse a ciò che mi è successo, così da potermi vendicare.»
Mi  osservò attentamente: «come si può credere ad una ragazza che afferma l'incredibile?»
Sospirai e lui svanì in una nebbia dorata, mentre la mia compagna di scuola Courtney entrava nel bagno femminile, guardandomi stranita.
Era alta poco più di un metro e cinquantacinque, magra, con le spalle curve e rilassate; il viso era stanco, gli occhi vuoti e inespressivi color nocciola con una lieve sfumatura rossiccia, leggermente spioventi e i capelli castani con un taglio da punk, un angolo della testa rasata e l'altro con un ciuffo che le ricadeva sugli occhi.
Solitamente vestiva con abiti maschili: jeans, t-shirt e felpe larghe, con un cappello rosso di lana perennemente in testa.
  «Tutto bene?» Domandò con tono beffardo dopo qualche minuto che la fissavo.
Non eravamo amiche e dalle medie ad allora ci eravamo parlate sì e no due volte, ma io sono sempre stata brava a riconoscere la sofferenza nello sguardo delle persone e i suoi occhi ne erano pieni.
  «Ciao», la salutai, sbattendo le palpebre con un sorrisetto sulle labbra.
  «Ehm... Ciao... ehm... Hope, giusto?»
Annuii: «esatto», alzai lo sguardo orgogliosamente.
  «Oh...» Si infilò le mani in tasca e si guardò le scarpe: «be', ciao»
Lei arricciò il naso ed estrasse un oggetto di piccole dimensioni dalla felpa: «vuoi qualche tiro?»
Inconsciamente mi ritrovai ad annuire, pensando che una canna fosse un modo ideale per conoscere una persona; meno di due minuti dopo ci ritrovammo sedute l'una accanto all'altra sulla soglia della finestra del bagno e lì lei mi chiese se avessi un accendino.
Io, prima ancora che lo chiedesse, avevo già infilato la mano nella tasca posteriore dei jeans  per prendere l'accendino zippo che mi portavo sempre dietro e glielo porsi.
Se la portò alla bocca e inspirò profondamente, per accenderla, poi me la porse, rigirandosi tra le mani l'accendino e osservandolo in ogni suo minimo dettaglio: «fico.»
Sorridi di sbieco, «grazie», presi lo spinello tra indice e pollice e lo avvicinai alle labbra, tirai in dentro tutto il fumo con gli occhi socchiusi e il volto rivolto al cielo, ridacchiando.
  «Se ci dovessero scoprire...» Bisbigliò Courtney con un sorrisetto idiota, «ci caccerebbero da scuola in men che non si dica», riprese la canna in mano e fece un tiro, «ma sinceramente non me fotte un cazzo. A te?»
Feci spallucce: «non temere: l'essere espulsa è il minore dei miei problemi.»
  «Da quant'è che non parliamo insieme? Insomma, senza contare discorsi del tipo 'Ehi hai una penna?'» Domandò.
  «Da tanto... penso dalla prima superiore», risposi, allungando le gambe per potermi vedere i piedi, «come va la vita?»
Tirò un'altra volta: «Mah... diciamo che è andata meglio... No. Non diciamo stronzate, non è mai andata meglio, solo che negli ultimi tempi va peggio del solito.»
Le strappai il fumo di mano: «Vuoi parlarne?»
  «E che sei, una psicologa?» Chiese con una smorfia.
Ridacchiai, buttando la testa all'indietro. Dalla tasca del giubbotto di pelle estrassi il cellulare per poter guardare l'orario: «tra dieci minuti la lezione finirà»
Inspirò più forte che mai: «allora sbrighiamoci a finire il cannone prima che ci scoprano. In quanto alla lezione... vaffanculo. L'insegnante è un idiota e probabilmente non si è neppure accorto della nostra assenza.»
Sorrisi debolmente guardando verso il piano terra: eravamo a tre metri da terra; se fossimo cadute ci saremmo quantomeno rotte una gamba, ma non avevo paura e neanche lei ne aveva: ce ne stavamo lì, a fumare, con le gambe a penzoloni e senza la minima preoccupazione. Forse solo perché non avevamo nulla da perdere.
  «Deve esistere un modo per sistemare tutto questo schifo...» Annunciai, guardandola dritto negli occhi, «penso dipenda solo da quanto si è disposti a fare.»
  «Qualunque cosa», sussurrò, parlando probabilmente più con se stessa che con me.
Feci un ultimo tiro: «siamo in due», tornai dentro al bagno e buttai il mozzicone nel water, tirando lo sciacquone nell'esatto istante in cui la campanella stava suonando, quindi guardai Courtney ed uscimmo dal bagno, andando nell'aula di matematica per prendere il libro e il quaderno che avevo lasciato sul mio banco quando avevo deciso di nascondermi in bagno per fuggire dai deliri della mia mente.
Dopodiché raggiunsi il mio armadietto, mentre Courtney mi salutava e si allontanava, lì sistemai il trucco nero sugli occhi che si era rovinato, presi il libro di inglese e andai verso la classe di studio, dove incontrai Emmett Davis, smagliante come sempre, che mi aspettava davanti alla porta.
Era un mio compagno di scuola, innamorato di me fin da quando andavo in prima superiore: era più grande poiché era stato bocciato l'anno precedente e, di conseguenza, stava rifacendo l'ultimo anno di liceo: leggenda narrava che si fosse fatto bocciare solo per stare con me per un anno intero.
Era alto e dalla corporatura robusta, con le spalle larghe, i capelli medio-lunghi color biondo cenere, il volto aveva i lineamenti duri e ruvidi, con il naso leggermente storto, le labbra tremendamente belle e gli occhi grigi con qualche sfumatura verdastra.
  «Ciao Hope», la sua voce era profonda e rilassata, come quella di uno che nella vita non aveva altre preoccupazioni se non quella di svegliarsi la mattina per arrivare a scuola.
Gli sorrisi: «Ciao», entrai nella classe e mi andai a sedere e lui si piazzò accanto a me, mentre io appoggiavo il libro di inglese sul tavolo, così da ripassare per l'ora successiva.
  «Anch'io pensavo di studiare inglese...» Mi informò, «solo che... be'... ho perso il libro... posso studiare con te?»
Lo fulminai con lo sguardo: «noi non facciamo inglese insieme», ringhiai.
Fece spallucce: «lo so...»
Lo fissai per due minuti ancora, poi piazzai il libro tra di noi e lo aprii alla pagina dell'ultimo argomento svolto in classe e mi misi a leggere, sottolineando con l'evidenziatore le parti principali.
Riuscii a capire che Emmett non stava neppure guardando il libro e constatai che il suo sguardo era posato su di me, quindi alzai gli occhi dal libro: «che c'è?»
Prese un respiro profondo: «sei bellissima..»
Poi eccole: le voci, che gridavano nella mia testa.
Scappa, dicevano alcune.
Il ragazzo mi prese la mano, ma io mi ritrassi immediatamente, «non mi toccare», sibilai, digrignando i denti, «mi da fastidio.»
  «Oh... Okay...» Si allontanò di qualche centimetro, «ehi, sei sbiancata. Che ti succede? Stai bene?»
Scossi la testa: «un po' di emicrania.»
  «Oh... povera piccola...» Fece per accarezzarmi ma io lo allontanai ancora.
  «Piantala.»
Rimase immobile, sbattendo le palpebre: «scusami. Io...non voglio darti fastidio ma tu per me sei davvero speciale e mi fa star male sapere che ti urto fino a questo punto...» E blah blah blah.
Io sospirai e scossi la testa: «Non è colpa tua Emmett, è che io ho dei problemi e...»
  «Non lo fare, Hope...»
  «Michaël!» Esclamai furiosa, guardando verso di lui.
Emmett corrugò le sopracciglia, rimanendo a bocca aperta: «ehm... il mio nome è Emmett, non Michaël. Ti... ti devi essere confusa.»
  «No!» Dissi, «Non parlavo con te.»
Il ragazzo sembrava sempre più scioccato: «con chi stavi parlando?» Chiesi, con preoccupazione evidente negli occhi.
  «Se gli racconti la verità smetterà di parlarti per sempre. E' l'unica persona che ti voglia davvero bene.», mi ricordò, «non lo allontanare.»
Sospirai, capendo che aveva ragione: «non parlavo con nessuno. Senti, non sei tu, è solo che non amo il contatto fisico immotivato, in particolare con persone che non conosco bene.»
  «Allora conosciamoci meglio! Usciamo insieme, così potremo passare del tempo io e te da soli», i suoi occhi brillavano dall'emozione ed io mi ritrovai desolata all'idea di dover distruggere quella gioia.
  «Non sono alla ricerca di una relazione», spiegai, tentando di essere il più diplomatica possibile.
Sospirò: «andiamo Hope... darei l'anima per essere il tuo ragazzo, lo sai bene. E' la cosa che più desidero al mondo».
Dare l'anima. Quei sei ragazzi intorno a me, che esprimono i loro sei desideri, mentre lui mi entra dentro...
Allora, ignorando il povero ragazzo che mi apriva, per l'ennesima volta, il suo cuore, mi alzai in piedi e sulle punte, mi avvicinai a Courtney, che stava pochi banchi più avanti, e mi accovaccia vicino a lei: «Ehi», le dissi.
Si accigliò: «E-ehi...»
  «Ho una proposta da farti.»


†Courtney Adams†

Hope Anderson, probabilmente la ragazza più strana che avessi mai conosciuto: alta meno di un metro e settanta, snella e con belle gambe, il seno abbondante, una terza, forse; i capelli erano lunghi fino alle costole, mossi e color castano ebano, ricadevano sul viso con una frangia pesante che le evidenziava i tratti fini del volto, in particolare gli occhi blu,  costantemente truccati di nero. Si vestiva in modo provocante, come se volesse mettersi in mostra: jeans attillati, shorts, minigonne, autoreggenti o collant, canottiere scollate, giacca di pelle e scarpe col tacco.
Bellissima, peccato che la sua bellezza fosse eclissata dalla sua più totale pazzia; più volte, infatti, era stata udita parlare da sola o aveva iniziato ad urlare come una forsennata senza un'apparente ragione.
La sua idea poi, era qualcosa di totalmente inquietante e perverso: mi piaceva.
  «Sei sicura di volerlo fare?», le domandai alla fine della lezione, uscendo dalla classe, mentre ci avviavamo verso il mio armadietto per prendere i libri.
   «Sicurissima. So come farlo funzionare», rispose incisa con un sorriso maligno sul volto.
Ci pensai su qualche istante: «come fai a sapere come funziona?»
Il suo sguardo fu oscurato da un'enorme nube di tristezza, mentre le sue labbra si muovevano silenziosamente, mimando: “Va' via”, non parlava con me, però: guardava avanti, parlando con qualcuno che non esisteva realmente. Solo allora si voltò verso la mia persona: «diciamo solo che ho avuto l'onore di assistere.»
Capii che non voleva parlarne: «va bene. Senti, in due non siamo poche?» Domandai ingenuamente, arrivando all'armadietto.
Lei annuì, bisbigliando qualcosa di incomprensibile, per poi tornare a concentrarsi su di me: «servono sei persone.», rispose, «dobbiamo trovare qualcuno sufficientemente disperato da aiutarci, ma chi?» Chiese retoricamente.
  «Non solo deve essere disperato, ma anche fuori di testa.»
  «Lo so...»
Improvvisamente mi illuminai: «Stella Collins!» Esclamai, «hai presente? Magra, bionda... veniva a scuola con me alle medie e alle elementari.»
  «... E con me», mi ricordò.
Mi accigliai: «davvero? Tu...?»
  «Taci», mi ordinò, «non è importante. Comunque sì, la ricordo. In comune abbiamo l'ora di matematica, biologia, spagnolo, studi sociali, storia e scienze ella vita» Dio, quanto è inquietante! «Perché proprio lei?»
Mi schiarii la voce: «conosci Gabriel Griffin?», lei annuì, «be', so per certo che ne è innamorata pazza. Sono pronta a scommettere che farebbe di tutto per lui.»
Ci pensò qualche istante, poi sbuffò e infine disse: «hai ragione. Glielo chiedi tu o faccio io?», mi domandò.
  «Io», risposi.
  «Okay, come vuoi. Ma ora andiamo ad inglese, altrimenti la signora Smith ci lincerà senza farsi troppi scrupoli.»
Chiusi il mio armadietto: «Chi altro?» Chiesi mentre ci incamminavamo verso la classe.
Il suo sguardo si faceva sempre più vago, sempre più perso: «ehm... Quella strana... coi capelli rossi e verdi che lavora al bar vicino scuola... Destiny Reed, mi sembra si chiami. Facciamo inglese e matematica con lei. Hai presente?»
  «All'incirca», risposi cercando di sforzarmi per capire di chi stesse parlando, «ma ci penseremo più tardi»
Entrai nella classe di inglese e mi sedetti accanto a colui che potevo definire il mio migliore amico: Chris Scott. Era un ragazzo di diciannove anni, più grande di me poiché era stato bocciato l'anno precedente; alto e secco, con le spalle curve, i capelli castani e lunghi fino alle scapole, il volto scarno, il naso storto da quella volta in cui aveva inchiodato con la moto e si era spaccato il setto nasale sbattendolo contro il cemento, le labbra erano sottili e screpolate e gli occhi, sempre castani, erano eternamente arrossati e contornati da pesanti occhiaie violacee.
  «Ehi drogato», lo salutai.
Lui sorrise: «ciao lesbica del cazzo.»
  «Oh, quanto amore!» Esclamai, «come va?», gli domandai, poggiando sul tavolo i libri e i quaderni sul tavolo.
Alzò le spalle: «venerdì c'è una specie di festa. Sai, di quelle che piacciono a me», spiegò, «vieni con me, fanciulla?»
Annuii :«vieni a prendermi come al solito.»
Rimase in silenzio e si mise ad ascoltare la lezione. Intendiamoci: mi piaceva l'inglese, in particolare la letteratura, ma in quel momento ero troppo stanca anche solo per provare a pensare per due secondi; invece mi misi a fare un disegno che, tre quarti d'ora dopo, infilai nel raccoglitore con tutti gli altri .
Avrei accettato la proposta di Hope poiché, seppur non ritenessi giusti i suoi ideali e la trovassi strana e matta, non avevo altra scelta.
Al suono della campanella salutai Chris e mi precipitai in infermeria fingendo di accusare un forte mal di testa; allora Doris, l'infermiera, mi accolse amorevolmente.
Era una donna sulla cinquantina, in carne, spalle larghe e mascoline, capelli corti color castano rossiccio, la carnagione pallida e gli occhi verdi: «tesoro», mi sussurrò, «dovresti smettere di prendere tutta quella robaccia.»
Sapevo bene di cosa parlava: «so di essere viva finché posso uccidermi così.»
Sbuffò: «insomma guardati! Hai le occhiaie di una persona che non dorme da settimane, gli occhi sempre irritati, le pupille dilatate e puzzi di fumo! Hai un vizio, ammettilo a te stessa.»
Rimasi qualche istante a fissarla, senza di nulla e mi lasciai sfuggire un sospiro: «puoi darmi qualcosa per il dolore?»
Scosse la testa: «non se prima non mi dici cosa hai preso.»
Tacqui.
  «Okay», afferrò una bottiglietta d'acqua e me la mise tra le mani, «ora bevi. É il massimo che io possa fare.»
Io bevvi un sorso d'acqua scendendo dal lettino con un balzo e m'affacciai dalla finestra mentre l'infermiera usciva dalla stanza. Buttai lo sguardo in basso, incontrando quello di un gatto: «oh, ciao Puff.»
Quello, con quegli enormi occhi gialli mi fissava dal basso verso l'alto quindi, lasciandomi tentare dal suo dolce muso, scavalcai la finestra del piano terra e mi sedetti sull'erba.
Il gatto con nonchalance iniziò a posizionare una zampa alla volta sulle mie gambe, arrivando a ritrovarsi completamente sopra di me e sedersi.
  «Sei fortunato, sai?», gli accarezzai il pelo ispido, «ad essere un gatto, dico. Per noi umani ci sono solo guai su questa terra: nessuno che ci ami davvero, solo odio puro.»
Quel gatto si era ritrovato sulla mia strada circa tre anni prima, quando era ancora un cucciolo randagio denutrito che vagava per le strade della città alla ricerca di cibo, acqua e amore. Specialmente cibo. Quel giorno stavo tornando a casa da scuola, faceva freddo e lo sentii miagolare da dietro un cassonetto; lo raggiunsi e lui non scappò, al contrario mi si avvicinò ed io lo condussi sino a casa mia: lì lo pulii, gli diedi da mangiare e lo feci dormire.
Quando mia madre quella sera tornò a casa lo cacciò, dicendo che non voleva animali in casa, ma io non lo abbandonai mai davvero: gli costruii una casetta vicino a casa mia, ogni giorno gli portavo una ciotola di cibo e dell'acqua e una volta a settimana lo pulivo.
  «Sai, ci sono persone strane in questa scuola. Ma queste persone potrebbero aiutarmi. Potrebbero far cambiare ogni cosa», dissi, «sono terribilmente stanca. Della vita, di tutto. Stanca di un'esistenza fatta di finti sorrisi. Stanca di dire “sto bene” quando in realtà sto morendo dentro. Stanca di andare a dormire ogni notte sperando sia tutto solo un brutto sogno. Spero ancora di svegliarmi da quest'incubo e di poter correre nel letto di mia madre per farmi consolare da una sua carezza e dal suo sguardo comprensivo. Speranze che svaniscono in una lacrima, poiché il suo sguardo non è dolce e amorevole, bensì un misto tra disperazione ed indignazione.  Forse è per questo che mi sento morta: per quello sguardo, che mi uccide pian piano.
  «Ogni tanto lo sogno ancora, sì, mio padre. Mi chiedo se se ne sia andato per colpa mia o per chissà quale altra ragione», il gatto mi si strusciò contro facendo le fusa, «da quando ci ha lasciate tutto è andato in merda. Mia madre è cambiata, io sono cambiata.»
Con un sospiro infilai la mano nella tasca dei jeans e ne estrassi l'accendino, il pacchetto di sigarette e l'MP3; misi le cuffie alle orecchie per ascoltare della musica ed iniziai a fumare la mia sigaretta.
Rimasi a fissare l'infinito per cinque minuti buoni, in silenzio, poi Doris si affacciò alla finestra «Ehilà», sussurrò, «non si fuma a scuola.»
Feci spallucce.
Osservò Puff attentamente: «non dovresti stare così vicino a quel gatto malato», mi ammonì, fulminandomi con lo sguardo.
  «Non è malato»
Sospirò.
  «Io gli voglio bene...»Bisbigliai.
Ridacchiò, poi si allontanò dalla finestra: «quando decidi che fuori fa abbastanza freddo, dimmelo, così ti faccio rientrare.»
Annuii, allora lei chiuse la finestra, lasciandomi fuori.
Guardai il gatto: «lo vuoi sapere un segreto?», sussurrai, «si tratta di un semplice desiderio ed un po' di sangue; io non ci credevo ma... Hope dice che funziona... Lui ci aiuterà», sospirai, «Satana ci potrebbe aiutare, se solo gli doniamo un'anima pura.»

 †Stella Collins†

  «Ehi» il suo respiro mi sfiorò il collo, carezzandomi dolcemente, mentre il suo profumo mi cullava. Lo riconobbi subito.
Mi voltai, ritrovandomelo vicino come mai era stato prima: il suo viso stava a pochi millimetri dal mio e i suoi occhi scuri mi fissavano attentamente, scrutando ogni mia mossa.
Riuscivo a fatica a deglutire, perciò decisi di prendere un respiro profondo per potermi tranquillizzarmi: «c-c-ciao Gabriel.»
Sorrise appena, sfiorandomi la guancia con il dorso della mano: «oh Stella... ho tanto atteso questo momento...» Le sue braccia muscolose si strinsero intorno alla mia vita, come se volesse che mai più riuscissi ad allontanarmi da lui, «ora sei tutta mia...»
Il mio cuore accelerò il battito cardiaco quando lui si avvicinò ancor di più, sino a premere le labbra contro le mie; allora mi avvinghiai al suo collo, lasciando che la sua lingua andasse più in profondità, mentre io godevo di quel momento che da tre anni sognavo con bramosia.
Mi prese le mani, trascinandomi verso il bagno delle ragazze che, per la prima volta da quando ero in quella scuola, era vuoto durante l'ora di pranzo e mi portò dentro una delle toilette senza mai allontanare le sue labbra dalle mie.
Mi spinse contro il muro, schiacciando il mio corpo con il suo, infilando le mani sotto alla mia camicetta, trafficando qualche secondo con il gancio del reggiseno fino a sfilarmelo; allora si strappò di dosso la camicia, facendo saltare tutti i bottoni.
Un secondo, pensai, perché sta giocando a fare Superman? Insomma, siamo in un bagno pubblico: basta che si abbassi i pantaloni. Poi guardai il suo corpo, tanto sexy da far male, e decisi che non mi importava come si togliesse i vestiti: bastava che se li togliesse.
Mi tolsi i jeans e lui fece lo stesso.
Avevo sognato quel momento per anni, la sua pelle nuda contro la mia, pervasa da brividi d'eccitazione causati dai suoi baci intensi e dal suo ingente membro che pian piano mi entrava dentro: «oh... Stella... Stella...»
  «Stella... Stella?», la mia migliore amica, Martha, cercava da una decina di minuti di attirare la mia attenzione, svegliandomi dal mio bel sogno ad occhi aperti.
Io, riacquistate le capacità mentali che permettono di compiere un pensiero logico, la fulminai con lo sguardo, facendola capire che mi aveva disturbato.
  «Oh!» Esclamò, «scusa se ti ho svegliato da un sogno impossibile, evitando così che tu ti faccia inutili speranze riguardo un ragazzo che non ti ha mai degnata di un solo sguardo e che mai lo farà.»
Come ha capito che stavo pensando a Gabriel?
Ah, giusto, mi conosce fin troppo bene.
Incrociai le braccia, alzandomi dal tavolo della mensa, avviandomi verso gli spogliatoi senza dir nulla, seguita da lei.
  «Non fare così, sai che ho ragione.»
Sbuffai: «ma perché? Insomma... magari prima o poi si accorgerà di me.»
Scosse la testa: «oh no, nononononononono. Non sei proprio il suo tipo»
  «Perché no?»
  «Perché non sei una puttana!» Esclamò.
  «Posso diventarlo», rivelai, «da ora!», slaccia tre bottoni della camicia, mettendo bene in evidenza i miei seni, «cosi va bene?»
Sospirò, «ma ogni tanto mi ascolti? Non basta sembrare una puttana, devi esserlo. In questo caso, e solo in questo caso, avresti qualche possibilità di passare sei minuti di semplice sesso con lui.»
  «Alla fine si innamorerebbe di me», la contraddissi.
  «No!», urlò esasperata, all'entrata dello spogliatoio femminile, «perché non vuoi capire? Tu non andrai mai bene per un ragazzo così, perché non sei una che la da al primo che passa.»
  «M-m-ma... No. Succederà: lui s'innamorerà di me», annunciai, entrando nello spogliatoio e iniziando a cambiarmi, «Andrò a fare pompini a pagamento se necessario, ma io otterrò Gabriel, noi staremo insieme e ci sposeremo e vivremo in una bellissima magione, dove avremo due figli e un cane.»
Martha sbatté le palpebre: «tu sei fuori di testa.»
Sbuffai: «non è così impossibile», risposi infilando i pantaloni della tuta.
  «Invece sì, cazzo!», imprecò poco finemente con un'evidente rabbia nei suoi occhi, «tu sei una bellissima ragazza, simpatica ed intelligente, quindi perché sprechi il tuo tempo andando dietro ad un ragazzo che ragiona con il pene?»
Abbassai lo sguardo: «io lo amo.»
Sbuffò, allontanandosi da me e cambiandosi il più velocemente possibile, con l'intenzione di andare immediatamente al campo di pallavolo per sfogare la rabbia e l'irritazione.
Martha era una bella ragazza: slanciata e ben proporzionata, con la pelle abbronzata, lunghi e folti capelli ricci e neri, i lineamenti del viso erano delicati, con un naso a patata, gli occhi sottili e scuri e un bel sorriso smagliante.
Mi guardai allo specchio, sistemai trucco e capelli, sapendo che Gabriel si allenava nel campo li accanto, poi infilai la giacca della tuta ed andai all'esterno, dove c'erano i vari campi da gioco.
Milagro, una mia cara amica, si avvicinò a me con espressione dubbiosa in volto: «Chi cerchi?»
Lei era bella più di Martha, alta quanto me, magra  con poco seno ma in compenso delle belle gambe, un viso dolce con grandi occhi castani, il naso alla francese e le labbra carnose.
Alzai il sopracciglio: «Chi ti dice che io stia cercando qualcuno?»
  «Mah, sarà forse quello sguardo malizioso mentre ti guardi in giro?» Chiese retoricamente, «Forse so anche di chi si tratta: Gabriel. Sbaglio?»
Scossi la testa.
  «Bene, non voglio più sentire nulla sul suo conto», esclamò, ormai esasperata dell'argomento su cui si erano incentrate le mie conversazioni per un anno e mezzo.
Senza proferir parola raggiungemmo il campo da calcio, dove il nostro insegnante, il professor Brown, mi fissò di sottecchi per qualche minuto, nello stesso modo in cui si guarda un cucciolo che ti ha appena distrutto il divano, senza avere una particolare ragione: «Stella!», urlò l'uomo, «va' in porta!»
Annuii e mi misi al mio posto mentre il professore sistemava gli altri membri della squadra.
Mi sentivo fissata, quindi mi voltai a controllare di chi si trattasse: fui felicemente sorpresa di incontrare lo sguardo di Gabriel, che mi osservava con quei suoi bel occhi scuri; mi sorrise.
Il mio cuore si mise a battere più velocemente, allora presi un respiro profondo per trattenere l'emozione e, con la mano tremante, lo salutai con un sorrisetto malizioso che, a ripensarci, probabilmente sembrò più che altro una smorfia assurda data dell'agitazione. Ciò però non fu importante perché il ragazzo continuò a guardarmi in modo allusivo.
Ogni mio sogno si stava realizzando.
Mi spostai i capelli all'indietro e misi il seno in bella vista, rendendomi conto solo in quell'istante che i miei compagni dovevano avere iniziato la partita, ma l'unica cosa che la sottoscritta era in grado di vedere era quel ragazzo, tanto bello e sexy, che mi si avvicinava.
 «Ehilà», mi saluto.
Deglutii: «c-ciao.»
Sorrise ancora: «tu sei... ehm...?»
  «Stella», conclusi io mentre tutta la mia euforia andava scemando man mano che andava avanti a parlare, «sai, abbiamo almeno cinque materie in comune...»
  «Oh, giusto. Be', io sono Gabriel, ma a quanto pare già lo sai.»
Annuii.
  «Senti, tu sei amica di quella ragazza carina, vero? Intendo Milagro.»
Sbattei le palpebre.
  «Bene, non è che sai se è disponibile? Vorrei invitarla ad uscire con me», propose, mentre la furia mi distruggeva da dentro.
Rimasi immobile con le palpebre spalancate: «aspetta aspetta. T-tu mi stai chiedendo se l-lei è interessata ad uscire con te?»
Annuì, sorridendo come un ebete: «esatto.»
Una voce mi chiamò dal campo, ma io la ignorai totalmente: «no! Cazzo No! Non è interessata a te! No! No! No! No! No!»
  «Oh.»
Strinsi il pugno mentre dal campo continuavano a chiamarmi imperterriti.
Mi guardò attentamente ed inarcò le sopracciglia: «tu, invece?», mi chiese, «sei libera?»
  «P-per la f-festa?» Domandai mentre tutta la rabbia svaniva.
Un sorrisetto maligno affiorò sul tuo volto, «più o meno»
Mi chiamarono ancora, urlando, quindi mi voltai urlando, vidi il pallone da calcio finirmi addosso, sbattendomi contro la testa, allora persi l'equilibrio e caddi a terra, picchiando la testa contro il pavimento e, di conseguenza, svenni.


  «Stella?», una voce mi rimbombò nelle orecchie, iniziando a svegliarmi mentre la vista si faceva man mano più chiara e il volto del signor Brown si mostrava davanti a me: «Stella, stai bene?» Dio mio, quanta gente che mi nomina oggi.
Mi accigliai e, lentamente,  mi misi a sedere, aiutata dall'insegnante, «cos'è successo?» Domandai ancora intontita.
  «Hai preso una pallonata in faccia e sei svenuta»
Ed ecco a voi, pensai, la ragazza più sfigata dell'universo, cazzo.
  «Dovresti andare in infermeria, ti ho chiamato Doris», lei se ne stava lì, fissandomi con sguardo benigno, quindi mi prese la mano, aiutandomi ad alzarmi in piedi.
Raggiungemmo l'infermeria e mi fece stendere sul lettino, poi la chiamarono e lei uscì per rispondere alla chiamata.
  «Cazzocazzocazzocazzo!», urlai sbattendo i pugni, «cazzo perché non gli interesso?», esclamai, «perché?»
Da dietro la finestra sbucò la testa di una ragazza che mi fissava: «qual'è il tuo problema?», Mi domandò.
Sospirai, un po' scioccata e spaventata: «l'amore.»
  «Oh, bella merda», scavalcò la finestra ed entrò nella stanza, «tu sei Stella Collins?»
Annuii, accigliandomi: «come mi conosci?»
  «Andavamo alle medie insieme.»
Solo allora capii chi fosse: «Courtney Adams!» Esclamai, «tu sei la lesb...» Mi fermai immediatamente, schiarendomi la voce e abbassando lo sguardo: «scusa.»
Fece spallucce: «non importa: è la verità», prese dalla tasca un pacchetto di sigarette: «vuoi?»
Scossi la testa: «non fumo.»
Alzò le spalle, mettendo via il pacchetto, ed in quel preciso istante Doris, l'infermiera, entrò nella stanza accompagnando una ragazza che veniva retta da un bel ragazzo.
Courtney la fissò qualche istante: «che diamine ti sei fatta?»
   «Un ragazzo le ha toccato il culo sul campo da Hockey...» Spiegò il ragazzo, aiutandola a sedersi sul lettino al mio posto, mentre io mi sedevo sulla sedia che stava lì vicino: «lei gli ha tirato la mazza nei testicoli... di conseguenza due suoi amici per vendetta le hanno fatto lo sgambetto mentre giocava e lei è caduta violentemente sul ghiaccio, così ora ha la gamba viola.»
  «Tesoro togliti i pantaloni... devo vedere la gamba», le disse l'infermiera, «li faccio uscire?»
Lei scosse la testa e, senza badare alla presenza di noi altri, si sfilò le protezione e i pantaloncini da Hockey, rimanendo in mutandine, mentre il ragazzo, evidentemente eccitato, continuava a deglutire a vuoto.
Doris osservò attentamente il livido: «oh bambina! Questo è proprio un brutto ematoma!» Esclamò «ma perché una ragazza bella e delicata come te fa certi sport violenti?»
  «Non sono delicata.»
L'infermiera sospirò: «vado a prenderti del ghiaccio, intanto tu cambiati», le disse uscendo di corsa.
Si sfilò la maglia della squadra, mentre nei pantaloni del ragazzo si gonfiava una grossa erezione che sembrava non riuscire proprio a trattenere. Wow.
  «Emmett», lo chiamò Hope, «vammi a prendere i vestiti nelle spogliatoio delle ragazze. Il codice è 015312.»
Lui annuì e, come un bravo cagnolino, obbedì.
  «Hope...»,disse Courtney, «...lei è Stella.»
Si morse il labbro inferiore: «oh», il suo sguardo s'illuminò.
Entrambe mi fissarono malvagiamente: «senti...» Iniziò la ragazza dagli occhi castani, «cosa faresti per amore?»
  «Qualunque cosa...» Risposi.
Sul viso dell'altra apparve un sorrisetto maligno: «in tal caso abbiamo da proporti qualcosa che potrebbe interessarti.»

   
 
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