Storie originali > Introspettivo
Segui la storia  |       
Autore: Laky099    08/07/2015    8 recensioni
"Più scoprirai su di te, più cose ricorderai".
Un uomo, impossibilitato a ricordare persino il suo nome, si ritrovò in una stanza completamente bianca. Tutto ciò che lo riguardava era stato cancellato dalla sua memoria. Solo una bambina-avatar, dietro un display sembra poterlo aiutare a compiere questo complicato viaggio alla scoperta di se stesso ed a svelare il mistero che l'ha condotto in quella piccola strana stanza bianca.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo 2 - La Stanza dei Balocchi



«Io... Io quindi sarei morto? » Chiese Mark allibito.
Si sentì vuoto, come se una gigantesca bolla di nulla gli attraversasse lo stomaco trascinandolo in una fredda apatia. I suoi occhi, ora gelidi ed inespressivi, calarono sul volto pensieroso di Mercy, che sembrava piuttosto preoccupata. Continuò a rigirarsi la barba ispida fra le dita, posseduto da un nervosismo che  rendeva i suoi movimenti goffi e poco fluidi, nonché piuttosto imprecisi.
«Non è detto che tu sia morto» rispose lei, con stampato sul volto una strana espressione che Mark trovò indecifrabile. La piccola per qualche motivo, ciondolava la testa a destra ed a sinistra, come se seguisse un ritmo che non esisteva se non per lei. 
«Ricordi nulla di nuovo?» chiese lei, dopo essersi fermata.
«No, purtroppo. Limitiamoci ad andare avanti, sempre che serva a qualcosa».
Un nugolo di piccoli puntini neri colorano la parete opposta a quella di Mercy, espandendosi come una macchia di inchiostro fino a formare una massa nera omogenea la cui forma rimandava ad una piccola porta ad arco a sesto acuto, i cui battenti, di un nero leggermente più tenue, sembravano essere di un robusto metallo annerito.
«Andiamo!» Disse Mark, come a volersi far forza. Si avvicinò con passo incerto alla porta, che si aprì alla minima spinta emettendo  uno sgradevole cigolio, esattamente come la porta di legno marcio della prima stanza.
Un odore strano, simile a quello della plastica, si infilò debolmente nelle narici di Mark, muovendosi come un sottile strato di fumo invisibile, tanto leggero da non essere di alcun fastidio. Di colpo le luci della stanza si accesero  rivelando a Mark il suo contenuto.
«Cosa vedi cosa vedi?» Chiese Mercy incuriosita.
Una quantità gargantuesca di balocchi di ogni tipo riempiva l’intera stanza, dal pavimento al soffitto. Erano disposti senza alcun ordine o logica, ammassati attorno alle pareti in modo tale da lasciare un angusto sentiero al centro, sentiero nel quale non mancava qualche sporadico giocattolo caduto dalla piccola montagna, ricca di colori e di facce sorridenti.
Peluche, pupazzi, robot trasformabili, costruzioni, macchinine... Non mancava davvero nulla. Mark camminò per il passaggio scavato tra le due ali di giochi, ma la quantità di materia lo annichilì, facendolo sentire debole ed impotente.
«Ho trovato il paradiso» disse, accennando un sorriso sarcastico «il paradiso di un bambino di otto anni»
Mercy ridacchiò, facendosi descrivere la stanza con minuzia di particolari. 
«Che dovrei fare secondo te?» chiese Mark, al termine della lunga e dettagliata spiegazione.
«Sei in una stanza piena di giochi. Gioca!»
«Mercy, a voler essere ottimisti ho trent'anni. Con cosa dovrei giocare?»
«Beh io giocherei con quello che mi diverte di più. Ma non so a trent'anni come funzioni»
«Utilissimo consiglio» le rispose sarcasticamente.  
Mark cercò di rimuginarci sopra, ma non trovò alcuna via d’uscita da quel buffo posto all’infuori della soluzione che l’innocente bambina/avatar gli aveva ingenuamente proposto.
Prese in mano diversi modelli di macchinine, tutte dall'aria sportiva e riccamente colorate. «Ho sempre voluto una macchina come questa!» Esclamò, tenendo fra le mani un modellino particolarmente pregiato. Imitava una macchina di un rosso fiammante, molto bassa e dalle linee affilate, come tipico delle auto sportive o da corsa.
«Come fai a sapere di averla sempre voluta?» Chiese Mercy perplessa, portando alla luce una questione che Mark non aveva considerato.
«Beh... Adesso la vorrei, magari è un gusto che mi porto fin da piccolo»
«Forse» disse lei con tono allegro «avanti, fammi vedere quale preferisci!»
Mark spinse con un pigro gesto della mano l’affascinante macchinina rossa la quale, dimostrando di avere rotelle ben oliate, non arrestò la sua corsa se non dopo aver varcato la soglia che divideva le due stanze.
«Non mi piace!» Protestò Mercy, la cui voce parve delusa «È tutta... affilata!»
«È una Ferrari, non può non piacerti!» Protestò Mark con un tono insolitamente acuto «Le ragazze impazziscono per quelle»
«Sono macchine costose, vero?»
«Molto» annuì lui, cercando di immaginare come sarebbe stato poterne guidare una.
«Allora sicuro che non impazziscano per il portafoglio del padrone della macchina piuttosto che per la macchina stessa?» Mark rimase interdetto, del tutto incapace di argomentare «Vedi? La macchina è solo uno status symbol della ricchezza!» 
Le parole della bambina lo lasciarono di stucco. Era un punto che, molto ingenuamente, non aveva mai considerato. Dovette riconoscere che parlare con una donna del tutto astrusa dal mondo gli avrebbe fatto bene, una volta tornato nel mondo reale
«Parli bene per essere una ba...». Le parole gli si freddarono in gola, ghiacciandosi e fuoriuscendo con occultante  colpo di tosse in modo tale da rendersi incomprensibili. Lei non è una bambina, idiota! Pensò. Notando l’espressione di Mercy, intuì  come il suo tentativo offuscare il finale della frase si fosse rivelato un miserabile fallimento.
 «Scusa» borbottò sommessamente.  La bambina/avatar, ridacchiando, lo invitò a provare altri giocattoli.
Mark trovò vari oggetti che attirarono la sua attenzione: dei pupazzi a forma di panda antropomorfi, delle curiose spade ricurve di gomma ed un pallone da basket, col quale palleggiò dimostrando una certa abilità. Fu in quel momento, mentre la sua palla faceva su e giù rimbalzando tra la sua mano ed il pavimento, che rimembrò un dettaglio della sua vita alla quale era molto legato: il suo amore per il basket. Suo padre, sin da piccino, lo fece avvicinare a questo sport di cui lui stesso era grande appassionato, tanto da essere anche allenatore della squadra per cui Mark giocava alle elementari.  Ogni qual volta ce n’era occasione, due o tre volte l’anno, lo portava a vedere le partite dei Los Angeles Clippers, la squadra che entrambi avevano sempre tifato.
«Hai ricordato qualcosa!» Disse Mercy con voce allegra, mentre Mark bloccò avidamente  il pallone fra le sue mani, cercando di ricordare quali fossero stati gli ultimi risultati della sua squadra. 
«I Clippers, Mercy! Come ho potuto scordarli?»
«Ok, ma cosa sono questi Clippers?»
«Una squadra di basket, giocano in NBA! Davvero non li conosci?»
«No» rispose lei con voce arcigna  «ma mi fa piacere notare come tu sia rimasto sconvolto per aver scordato una squadra di basket, mentre non ti sia minimamente preoccupato della possibilità di avere una famiglia» 
Quelle parole furono per Mark una sorta di pugno nello stomaco, cosa che il tono amareggiato di Mercy non fece che rendere più pesante.
Dopo aver poggiato il pallone nuovamente a terra, una piccola porta, del tutto identica a quella dalla quale era entrato,  si formò sul muro posto di fronte all’entrata. Mark le diede un paio di strattoni, tirando a se la porta con le sue braccia magroline. Il tutto terminò con un brutto ruzzolone in terra, nel quale un piccolo pupazzo gli si  conficcò tra le costole, provocando in lui il desiderio di gridare una qualche imprecazione che per contegno trattenne. Osservò più da vicino la porta, notando come essa avesse , a differenza dell’altra, una minuscola serratura dall’aria arrugginita. Mi serve una chiave!  Pensò Mark.
Cominciò a cercare, guardandosi attorno e lanciando i vari giochi in tutte le direzioni. Non la troverò mai, c’è troppa roba! Si disse, ormai sfiduciato.
«Mi serve una chiave per andare avanti» disse a Mercy, che non sentiva ormai da un po' tempo «ma qui c’è troppa roba. Ci vorrebbero secoli per trovarla»
«Ne sei sicuro, Mark? In che modo una chiave nascosta potrebbe aiutarti a scoprire chi eri?» chiese la bambina/avatar. Mark si sentì lieto del suo conforto e del suo aiuto, che si stava rivelando piuttosto utile.
«Non può… a meno che la sua ubicazione sia legata a qualcosa che mi possa far tornare la memoria»
«Buona idea. Se ci pensi, la porta è comparsa quando hai trovato la palla. Forse la chiave comparirà quando avrai trovato qualcos’altro»
«Potrebbe essere vero, ma cosa?»
«Prova a frugare nella tua memoria, forse troverai qualcosa!» lo incitò Mercy.
Mark chiuse gli occhi, addentrandosi nella cortina grigia e spettrale che  ottenebrava la sua mente, nascondendone i recessi più oscuri e le esperienze più belle e dannate. Cercò di frugare nel suo poco materiale e ricordò un piccolo, insignificante dettaglio della sua infanzia, tanto minuscolo che apparentemente  la nebbia stessa si era dimenticata di stringerlo tra i suoi gassosi tentacoli. Riuscì ad aggrapparsi ad esso con la stessa avidità con cui un pirata si accaparrerebbe un tesoro lungamente cercato. La sua mente ricordò quella piccola informazione, di come da piccolo adorasse le costruzioni maestose, come ponti, grattacieli e strane strutture dalle strane forme. Per lui, ogni singolo viaggio in macchina con il padre diventava una piccola avventura, nella quale cercava di osservare bene quelle strutture per poi replicarle una volta tornato a casa. Si divertiva a renderle più grandi, più particolareggiate, più bizzarre e colorate.
Se da bambino avessi voluto costruire una castello od un ponte, cosa avrei utilizzato? Si chiese, ma l’illuminazione non tardò a giungere.
Aprì gli occhi, cercando quel gioco che già in precedenza aveva visto. La ricerca fu facile, poiché per via del suo insito disordine non si era premurato di risistemare quella piccola bustina rosa al suo posto all’interno della montagna di giochi. Abbassò lo sguardo sul sentiero trovandola lì, pronta ad essere aperta al centro della sala.  Tirò la zip  con un veloce gesto della mano ed una notevole serie di mattoncini colorati, di diverse forme e colori, si riversò in terra,. 
 «I Lego!» esclamò Mark allegramente «Li adoravo quando ero piccolo! Mercy , vuoi vedere cosa riuscivo a costruirci da pi... » prima che potesse finire la frase, sentì quelle parole bloccarsi in gola. Per un attimo sentì la sua testa gonfiarsi ed esplodere. Le immagini nella sua mente si fecero confuse, contorte, mano mano sempre più oscure, finché infine tutto fu nero.
Mark aprì gli occhi dopo un tempo imprecisato, impiegando diversi secondi per schiarire la vista.
«Mark! Mark!» La voce di Mercy, dolce e spaventata, si sparse per tutta la stanza, pugnalando la sua già dolorante testa «Maaaaaark!» Gridò nuovamente, con sempre più vigore.
Mark riuscì, a fatica, a recuperare  lucidità sufficiente per mettersi seduto «Sto bene, sto bene!» Disse con un tono infastidito  «Fammi riprendere, diamine!»
«Ero solo preoccupata per te» obiettò lei «Credo tu abbia ricordato troppe cose tutte insieme»
«Probabile. Lasciami fare un resoconto» disse, rimettendosi in piedi lentamente e traendo un rumoroso sospiro «Io sono Mark, ho circa trent'anni ed ho barba e capelli neri. Sono alto e magro. Mi piacciono le auto sportive, mi piacciono sin da piccolo. Mi piace il basket e tifo per I Los Angeles Clippers e... sono un architetto!»
Mercy emise uno strano suono, simile ad una sorta di "Yuppie!", ma di difficile identificazione. 
«Sono un mucchio di dati!» Disse allegramente «E facevi un lavoro che ti è sempre piaciuto! È una cosa rara al giorno d'oggi»
«Già...» Rispose. Prese in mano un mattoncino di color rosso che,  non appena venne toccato, si trasformò in una strana chiava quadrettata  «E come immaginavo, ecco la chiave» disse.
«Vedi? Ci dovevi ragionare, cercare cose a caso non porta a nulla!» rispose Mercy, con tono soddisfatto
«Hai ragione!» annunciò «Io scendo, a tra poco!».
la bambina/avatar  lo salutò a sua volta, dopodiché Mark, con piglio deciso, superò la porta che, nonostante l’apparenza robusta , si mosse al primo contatto con la sua mano, quasi come se non avesse peso. Si ritrovò sommerso in una sorta di universo blu acceso, dove tanti piccoli pianeti colorati ruotavano intorno a lui.
Sembra di stare in un cartone animato! pensò.
 Scese le scale contornato dall' allegra miriade di colori che lo circondava. Ad ogni suo passo, come a volersi prendere gioco di lui, partivano buffi effetti sonori, che sembravano essere stati messi lì a ridicolizzare ogni suo movimento.
 C'era un solo dettaglio che, in questa strana ambientazione, sembrava stridere. Le lucine verdi, come nella scalinata che l'aveva portato alla seconda stanza bianca, brillavano vigorose lì in alto. Per qualche motivo,  Mark ebbe la sensazione che quelle luci lo fisassero malevole, mettendolo a disagio.
Gradino dopo gradino, sempre prestando molta attenzione a dove mettesse piedi, giunse alla porta che si trovava a pochi metri dall'ultimo gradino. Era una porta normalissima in legno, non diversa da quelle che si trovano in tutte le case.
 Un altro dei miei ultimi ricordi pensò. Fece un lungo, lento sospiro ed aprì la porta.
La stanza che si ritrovò davanti era in penombra. L'argentea luce della luna illuminava debolmente la stanza, filtrando flebile attraverso la raffinata tenda bianca che circondava la grossa porta finestra sul lato della piccola camera. Al centro vide un grosso letto matrimoniale, sopra al quale vide due persone, nude, intente ad abbracciarsi e baciarsi. 
Quello sono io! Intuì. La donna, che ad occhio doveva essere una sua coetanea, era assolutamente splendida. Aveva lunghi capelli rosso scarlatto che le scendevano lungo la schiena, avvolgendosi, ricciolo dopo ricciolo, sulle sue bianche spalle illuminate dalla luna, sino a cadere delicatamente sulle bianche coperte. L'attenzione di Mark fu, inevitabilmente, assorbita interamente dal suo fondoschiena, leggermente pronunciato ma estremamente sodo, esattamente come lui apprezzava maggiormente. 
Tanto fu assorto dalla gradita visione che, inizialmente, nemmeno ascoltò le parole scambiate fra i due.
«Grazie, Caty» disse il Mark del ricordo
«Di nulla, amore» rispose lei dolcemente, facendo imprecare il vero Mark per non aver ascoltato dall'inizio.
«Non devi preoccuparti» disse la donna «hai fatto tutto ciò che dovevi. Che Yulian faccia quel che vuole!»
«Traditore bastardo!» imprecò Mark «con tutto quello che abbiamo fatto per lui»
La donna lo accarezzò sulla guancia muovendo su e giù la sua mano delicata, intervallando le carezze con qualche bacio fugace.
 «Stento a crederci anche io» disse lei  «ma a volte va così. Che ci vuoi fare? Domani vai la, gli ricordi cosa abbiamo fatto per lui e gli chiedi di lasciar perdere la causa»
«Non lo farà» rispose Mark amaramente.
«Probabile. Ma tanto vale provarci, no?»
«Si, anche se saremmo dovuti intervenire prima. Ormai quei quattro tossici abbraccia alberi gli han fatto il lavaggio del cervello. Se solo nostro padre potesse vederlo…»
«Purtroppo tuo padre non c’è più, Mark» lo bloccò la donna, che pareva chiamarsi Caty «Yulian ormai non va più considerato come un fratello. È solo un avvocatello del cazzo corrotto e schiavizzato da quattro ecologisti ritardati per bloccare il progetto più bello che tu abbia mai fatto. Ripeto, non devi preoccuparti, amore. La Silph ha avvocati molto migliori. Li annienteremo» 
Il Mark reale ascoltò con attenzione il dialogo che, se da un lato aprì la strada verso alcune risposte, dall’altro aveva aperto un numero ancora maggiore di interrogativi.
«Hai ragione, Katherine. Ce la faremo» disse il Mark del ricordo, poggiando il volto sul morbido seno della donna coi capelli rossi e facendo desiderare intensamente al vero Mark di essere al suo posto. Pensò solo in un secondo momento a come quell’immagine non fosse che un ricordo di qualcosa realmente accaduto.
La stanza scomparve improvvisamente, sostituita nuovamente dalla solita stanza bianca. Mark, al solo pensare a suo fratello Yulian, provò un moto di disgusto ed odio, tanto forte da prevaricare qualsiasi emozione avesse mai provato da quando si trovava in quello strano posto. Un solo pensiero, ricorrente quasi quanto orribile, si stampò nella sua mente, che lo costrinse a formulare più volte quella frase in modo tale da poterla realmente accettare.
Yulian… che sia stato tu ad attaccarmi?
   
 
Leggi le 8 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Laky099