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Autore: Michan_Valentine    20/07/2015    1 recensioni
Calardir ha un nome da elfo, usa le pitture di guerra e ha un compagno animale. Ma è un uomo, ha un obbiettivo e nasconde un segreto di cui non conosce l'entità.
In una terra divisa, superstiziosa e governata da un re invasore, le strade percorse da chi cerca con ogni mezzo di determinare il proprio destino s'incontrano in un quadro più ampio e delineato invece da tempo. Qualcosa di ancestrale e sopito nella memoria dell'umanità si agita nelle profondità della terra e negli animi di chi può avvertirne il potere, tirando gli invisibili fili di una trama che potrebbe sconvolgere il mondo conosciuto e portarlo definitivamente alla rovina.
Tentativo di "high fantasy" con tutte le eccezioni del caso.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con
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 Capitolo 2 - Lasciapassare
“Largo, largo. Non vedo!”
Gli avventori controllarono prima i dintorni e poi chinarono lo sguardo su di lui, strabuzzando gli occhi e aprendosi goffamente per farlo passare. Destro li salutò con la mano e proseguì, insinuandosi nella calca. Qualcuno gli soffiò in faccia il fumo della pipa e l’odore d’Erba Sogno mista a birra gli solleticò l’olfatto. Arricciò il naso, strinse gli occhi e si approssimò ad altri due spettatori. Li analizzò rapidamente: calzoni logori, piedi nudi e facce scavate. Straccioni. Forse contadini o pastori del luogo.
“Largo!”
Li superò e notò l’individuo che faceva al caso suo sopraggiungere in prossimità del tavolo da gioco. Abiti rifiniti, barba curata, calzature di cuoio e ventre gonfio. Si passò l’indice di traverso sotto il naso e trattenne a stento un sorriso. Qualcuno che puzzava di sudore raffermo lo urtò e per poco non lo investì, coprendogli il bersaglio e gettandolo malamente addosso al tizio che gli stava dietro. Accusò un gemito e l’irritazione prese il sopravvento.
“Ehi, pertica! Chiedi scusa e guarda dove metti quelle zattere. Scommetto che l’arnese che hai fra le gambe non è nemmeno lungo quanto il resto!”
Quello si girò con una smorfia ma non lo notò nemmeno. Afferrò per il bavero la persona alle sue spalle, invece, probabilmente con tutta l’intenzione di spaccargli la faccia. Destro sgusciò oltre prima di restare schiacciato. A giudicare dagli improperi e dagli schianti doveva aver scatenato una piccola rissa, considerò; ma non ci teneva a rivendicarne il merito, specie quando c’era già qualcun altro a prendersi i pugni per lui.
Saettò con lo sguardo a destra e a sinistra finché rintracciò l’uomo che gli interessava. Doveva essere un mercante o qualcosa di simile. Da quel punto di vista la grossa borsa che portava a tracolla acquisiva sfumature ancora più interessanti. Si fece faticosamente avanti e lo raggiunse, affiancandolo.
“Quindi ai doppi si beve.”
Stava parlando col tizio accanto e non sembrava averlo notato.
“Al sette e all’undici, anche. Vince quello che resta in piedi.”
“Sono rimasti in tre. Su chi hai scommesso?”
“Il mio uomo è già fuori a vomitare. E il biondo è il prossimo, te lo dico io.”
Non era sicuro che si riferisse a Calardir, ma gli venne spontaneo sollevarsi sulla punta dei piedi per controllare. Non lo vedeva bene, considerando gli scorci fra la gente che andavano e venivano, ma lo stregone non aveva l’aria di essere sobrio. Una puttana, poi, gli sedeva in braccio e gli passava le dita tra i capelli. Inarcò le sopracciglia e scosse il capo. Quando aveva chiesto a Calardir di attirare l’attenzione non aveva preventivato che avrebbe proposto un simile gioco e causato tanto scompiglio solo per ubriacarsi e accompagnarsi a una donnaccia.
Sbuffò, allungò la destra e afferrò la manica del mercante, strattonandolo vigorosamente. Quello abbassò lo sguardo e lo fissò dall’alto sbattendo le palpebre, forse sorpreso. Sorrise.
“Puoi dirmi il risultato dei dadi? Da qui non riesco a vedere niente. Ho puntato sul tizio biondo, ma ho le gambe corte e qui intorno c’è troppa gente alta.”
La richiesta era semplice e innocua, proprio come il suo aspetto. Non si stupì quando quello l’assecondò e voltò il capo in direzione del tavolo da gioco, strizzando le palpebre. Colse l’attimo; rimarcò il contatto delle dita sulla manica come garanzia e infilò invece la sinistra nella borsa.
“In totale il tuo uomo ha fatto cinque. Tocca al prossimo. Otto,” riferì l’ignara vittima dei suoi raggiri. “Sei fortunato che a questo turno abbia bevuto un altro, altrimenti era fuori. Sta ondeggiando… e, che Il Luminoso mi perdoni, vorrei tenere le mani dove le tiene lui!”
Destro non capì che cosa intendesse con quell’ultima osservazione. Si strinse nelle spalle, sfilò il sacchetto dei Reali dalla tracolla e se lo mise nel bagaglio con estrema naturalezza.
“Grazie mille. Helientar apprezzerà di sicuro la tua gentilezza.”
Non ci credeva per niente. Comunque restava il terzo gonzo che alleggeriva e per la serata poteva bastargli. Per sicurezza adocchiò i tavoli, il banco dell’oste e la zuffa che si era lasciato poco più indietro. C’era chi cenava, chi conversava e chi beveva, ma nessuno sembrava aver notato i suoi intrallazzi. Era un mago, dopotutto! Avanzò fischiettando e raggiunse il tavolo da gioco sgomitando. Ormai mancava poco alla fine e, a giudicare dai pareri, Calardir era prossimo alla sconfitta.
Schiuse le labbra, ricredendosi. Lo stregone era ancora in lizza, mentre uno degli altri due partecipanti si stava invece allontanando con l’aria stralunata, le guance rubizze e il passo malfermo di chi aveva decisamente bevuto un bicchiere di troppo. Quello urtò e pestò chiunque fosse a tiro, imprecando; finché due uomini l’agguantarono per le braccia e lo trascinarono via, probabilmente per buttarlo in strada.
Tornò ai due contendenti rimasti. Al tavolo sedeva ancora un tipo snello vestito di nero, con la calvizie incipiente e i capelli lunghi, unti. Chissà quanto puzzava! A tratti la sua risata gli ricordava il ragliare di un asino. Era brillo, ovviamente, ma aveva l’occhio sveglio. A differenza di Calardir che sembrava badare soltanto alle forme della femmina che gli si stringeva addosso, talora mordendogli l’orecchio, talora il collo. Il quadro di lascivia si completò quando comprese l’osservazione del terzo gonzo cui aveva sottratto i Reali. La mano dello stregone scompariva infatti senza pudori al di sotto del piano, fra le sottane e le gambe dischiuse della donna. Sollevò gli occhi al cielo e incrociò le braccia al petto. Quello stupido avrebbe perso e avrebbe perso di più per pagare i servigi alla puttana.
“Ritirati, ragazzo. Almeno ti verrà duro e la signora non resterà delusa. Perderai i soldi, sì, ma salverai la faccia,” biascicò lo smilzo.
La battuta provocò ilarità fra il pubblico e perfino la donna si lasciò scappare una risatina. Dal canto suo Destro si concentrò sulla reazione di Calardir, che ridacchiò assieme agli altri e scosse leggermente la testa, all’apparenza nient’affatto turbato. Aveva parecchio sangue freddo per essere alticcio…
“Altroché. Mi sento allegro. Così allegro che potrei danzare tutta la notte. Ma, parola mia, qualcuno che resterà deluso c’è. Tu. Puoi fare il gradasso e azzeccare una o due battute di spirito, ma non sei sobrio. Inoltre tocca a me. Questo vuol dire che la partita è aperta.”
Lo stregone ondeggiò e si spostò sullo sgabello. Di rimando la donna che gli stava sulle gambe si chinò leggermente in avanti, puntò i gomiti sul tavolo e offrì una visuale completa dei seni, i cui capezzoli scuri facevano capolino dalla scollatura. Destro fece una smorfia e guardò altrove, ma il ticchettio dei dadi che rotolavano lo costrinse a puntare le pupille nuovamente sul tavolo, con l’ansia di leggerne il risultato. Doppio sei.
“Bevi,” ordinò Calardir.
Destro arricciò le labbra verso l’alto. La puttana batté le mani e strillò. Molti degli avventori urlarono incoraggiamenti come “forza” o “resisti”, perorando più che altro le proprie scommesse. Il perdente invece smise di ragliare e storse la bocca. Il mezzuomo si passò il dito sotto il naso, mentre quest’ultimo afferrava con riluttanza il boccale al centro del tavolo e se lo portava alle labbra, ingollando malamente. Per un istante pensò che non ce l’avrebbe fatta. Ciononostante, fra cospicui rivoli di birra che gli scivolavano dai margini della bocca fin sul piano, lo smilzo mandò giù l’intera pinta. Poi trasse un respiro profondo, strabuzzò gli occhi e ruttò, rosso come un peperone. Uno dei suoi sostenitori lo incitò dandogli una pacca sulla schiena e per poco non gli fece schizzare i bulbi fuori dalle orbite. Per empatia Destro sentì le viscere aggrovigliarsi e la nausea stringergli la gola. Dubitava che il disgraziato avrebbe retto a un altro boccale di birra.
“Complimenti, una tempra invidiabile. Ma per tua sfortuna tocca ancora a me,” soggiunse lo stregone.
Una vivandiera si avvicinò e riempì il boccale. Calardir invece adagiò il viso fra i seni che la puttana gli offriva, recuperò i dadi e lanciò, implacabile. Doppio sei. Per la seconda volta di fila.
Destro restò interdetto, occhi fissi sul risultato e bocca aperta, mentre intorno si scatenava il putiferio, tra urla e commenti indistinguibili. Ondeggiò, sbatacchiato dalla calca, e si aggrappò al tavolo. E dire che fino a un paio di lanci prima non avrebbe scommesso sul compagno di viaggio nemmeno una moneta di rame, specie perché in prigione gli aveva confessato di aver digiunato per giorni dopo aver perso tutti i Reali al gioco. Non aveva importanza, comunque. Che avesse barato o che avesse usato la magia, i dadi non mentivano e le due facce da sei ne sancivano la vittoria. L’idea di toccare e contare il denaro sparso sul piano, poi, l’allettava enormemente… Non fece in tempo a pensarlo che lo smilzo balzò dallo sgabello come una molla e batté vigorosamente le mani sul tavolo, richiamando la totalità dell’attenzione su di sé.
“Stai barando! Stai barando fin dal principio, non c’è altra spiegazione! Sei stato tu a proporre questo gioco e l’hai proposto perché sapevi che avresti vinto!”
Tremava e sudava. Se di rabbia o di malessere Destro non seppe dirlo, ma dava l’impressione di reggersi in piedi per pura concessione divina. Calardir riservò all’uomo una lunga, intensa occhiata nella calma più assoluta.
“Mio buon signore,” fece infine con una scrollata di spalle, “sei alticcio e non sai che dici. Come potrei aver barato? I dadi sono i tuoi, li hai tirati fuori dalle tue tasche, di tuo pugno. Dovresti accettare la sconfitta, piuttosto. Perderai i soldi, sì, ma salverai la faccia.”
Le parole erano pungenti ma il tono dello stregone pacato. Ciononostante l’atmosfera incandescente attorno al tavolo si era ormai trasformata in un’insidiosa calma percorsa unicamente da mormorii sconcertati. Non c’erano “ma” o “se”. Semplicemente il “quando”. Presto o tardi i sostenitori di ambo i partecipanti, trasportati dal gioco e dalle scommesse, avrebbero approfittato del pretesto per darsi addosso. Qualsiasi cosa pur di non rimetterci le puntate. Destro lo leggeva sulle facce cupe di ognuno di essi.
Istintivamente portò la mano al pugnale. Forse era meglio allontanarsi, prima che qualche testa calda sferrasse il primo pugno. O peggio, cacciasse la lama dalle maniche.
Calardir sospirò e scosse la testa. La femmina invece si alzò, si abbassò le sottane e accennò ad andarsene. Lo stregone l’afferrò prontamente per il braccio; poi adocchiò l’avversario, rigido ai margini del tavolo, e domandò: “Allora?”
In risposta lo smilzo fremette e serrò la mandibola, occhi piantati in quelli dell’altro alla stregua di aghi arroventati. Poi si voltò e s’allontanò, spintonando malamente coloro che si frapponevano nel mezzo. Destro non si mosse, in attesa. Uno dopo l’altro i restanti si dispersero. Li seguì con iridi attente finché ognuno tornò ai rispettivi affari; poi rilassò il braccio e sciolse la morsa delle dita, abbandonando l’elsa dell’arma. Anche se la vicenda si era conclusa senza spargimenti di sangue, ormai il sospetto aleggiava nell’aria.
“Andiamocene. Ti sei divertito abbastanza. In più la situazione non mi piace. E questa vacca che ti sei scelto nemmeno,” commentò.
Lasciò andare lo sguardo dallo stregone ai dintorni e dai dintorni allo stregone. Per tutta risposta Calardir distese il braccio sul tavolo e spinse il denaro verso di lui. Il tintinnio che ne scaturì gli scaldò il cuore come una donna non avrebbe mai potuto.
“Occupatane tu, Destro. Aspetta, non tutti. Questo,” e prese un Reale d’argento dal mucchio, “è per la dolce signora che mi ha portato fortuna.”
Ciò detto quello infilò la moneta nella scollatura della femmina. Il mezzuomo sgranò gli occhi.
“Una moneta d’argento! Sei impazzito?! E per cosa? Per averti scaldato le gambe?”
Di quel passo sarebbe morto di crepacuore. L’altra invece s’aprì in un sorriso, infilò le dita tra i capelli dello stregone e lo baciò. Le lingue s’intrecciarono. Destro fece una smorfia. Che schifo!
“Grazie mille, signore. Ricordati di me, la prossima volta che passi di qui.”
“Sì, sì, ora sparisci e vai a spillare soldi a qualcun altro,” intervenne, inasprendo il tono di voce. “Il ragazzo allegro e generoso con tanta voglia di danzare deve venire via con me.”
Ciò detto acchiappò a pugni i rimanenti Reali e se li mise in tasca prima che Calardir potesse darli direttamente in beneficenza. Fruscii e passi. Destro sollevò il capo e sbatté le palpebre. La puttana. Vicina. Troppo vicina. S’irrigidì e si fece indietro, ma quella gli agguantò il viso con ambo le mani e gli assestò un sonoro bacio sulla bocca. Mugugnò e la spinse via.
“Che fai?! Toglimi le mani di dosso, stupida vacca!”
“Così la prossima volta che passi di qui anche tu ti ricorderai di me.”
Quel sussurro gli scaldò la pelle. Per la prima volta lasciò andare le iridi sul viso della femmina. Sorrideva. Arricciò il naso e si pulì col dorso della mano, mentre Calardir rideva senza pudori. Aprì la bocca una volta, due volte, ma la puttana s’allontanò ondeggiando i fianchi. C’erano un mucchio d’improperi che avrebbe voluto urlarle dietro; ciononostante per qualche strana ragione gli restarono incollati al palato. Si pulì ancora. Poi con occhi di brace puntò lo stregone. Era tutta colpa sua.
“Che c’è?” fece quello, l’innocente.
Prese fiato per spiegarglielo forte e chiaro; ma Calardir guardò oltre, alle sue spalle, e smise di sorridere. Dopodiché si alzò di scatto come se avesse visto uno spettro. Avvertì una stretta allo stomaco e si voltò.
“C-che ci fai qui? E’ notte e la taverna non è un posto adatto a te. Ti sei guardata attorno?” fece lo stregone, sorpassando il mezzuomo.
Dar’ya stava in piedi poco più in là, con le sopracciglia inarcate e il broncio. Il torace le si alzava e le si abbassava per via del fiato corto. Sembrava che fosse cascata giù dal letto e che avesse indossato i vestiti di fretta e furia, almeno a giudicare dai lacci del corsetto malamente serrati e dalla camicia sottostante, infilata nella gonna solo per metà. Inoltre teneva i capelli goffamente raccolti sul capo e cospicue ciocche castane le scivolavano libere lungo il collo, dandole un’aria ancora più disordinata.
Destro incrociò le braccia al petto: ora che c’era pure lei il suo tripudio era completo. La ragazzina non si lasciò intimidire, comunque. Si piazzò davanti allo stregone e lo fissò dritto negli occhi dal basso verso l’alto, mani sui fianchi. Gli occhi nocciola sprizzavano fulmini.
“Finalmente so che cosa fai ogni notte. Furfante! Altro che proteggere, altro che scortare! Sei uno spergiuro e un traditore! Prenderai il morbo dell’amore e morirai come un cane sul ciglio di una strada! Tu e questo… questo mezzuomo!”
“Destro, signorinella. O signor mezzuomo,” la corresse, inarcando il sopracciglio. “E io non lo infilo dove e quando capita. È stata la vacca ad allungare le mani.”
Non aveva ancora finito di puntualizzare che quella stupida gli aveva già dato le spalle, andandosene a passo di marcia. Sbuffò e andò con gli occhi al cielo. Sbottare, piagnucolare e non lasciare possibilità di replica era tipico delle donne. Quando poi avevano poco più di quindici anni era pure peggio.
“Ci ha seguiti. È infida, la mocciosa. Prima finge di andare a dormire e poi si scapicolla fuori di nascosto,” commentò. “Sia chiaro: se mi avessi detto che stavi cercando lei, ti avrei lasciato in gattabuia.”
“Andiamocene, prima che questi invasati si accorgano di avere le tasche vuote.”
Calardir infilò il cappello e si allontanò senza aspettare replica. Destro fece spallucce e lo seguì. Poggiato allo stipite dell’ingresso c’era lo smilzo, con gli occhi e le guance rosse. L’aria frizzante che filtrava dall’esterno doveva essere un toccasana per le sue condizioni. Non mancò di notare l’occhiata torva che quello scoccò loro. Ricambiò e uscì in strada, dove un cantastorie accompagnava col liuto la ballata del Buffone Incoronato.
“Se la milizia lo sente, lo sbatte dentro. Ma considerando l’ora è più probabile che qualcuno gli rovesci in testa il contenuto del pitale.”
Lo stregone non commentò; sospirò e allungò il passo, forse per stare dietro a Dar’ya, che s’intravedeva più avanti lungo lo sterrato. Il mezzuomo gli trotterellò dietro. Andava troppo spedito per essere ubriaco.
“Ehi,” lo chiamò, “tu non sei alticcio.”
“E non sono più allegro.”
Storse la bocca.
“Per colpa della mocciosa? Non ci pensare. Domani avrà dimenticato tutto. In compenso troverà qualcos’altro per cui lagnarsi e borbottare. Preoccupati di questo. Le mie povere orecchie stanno già chiedendo pietà! Piuttosto, hai usato,” abbassò la voce, “la magia?”
Lo stregone batté le palpebre e aggrottò la fronte.
“Per vincere, intendo. Hai imbrogliato. Doppio sei due volte di fila! Hai visto come ti guardava lo smilzo? Ti avrebbe volentieri piantato la lama nella pancia.”
“Ho agito come mi hai chiesto.”
Inarcò il sopracciglio.
“Vuoi dire che non hai barato?”
“Voglio dire che non ho usato quella… cosa.”
Fece un saltello più lungo, l’affiancò e l’agguantò per il mantello.
“Frena, non ho le gambe lunghe come le tue,” precisò. “E spiegati meglio!”
Normalmente era lui che imbrogliava il prossimo; ma stavolta era stato imbrogliato. Pertanto moriva dalla voglia di capire, di sapere come si erano svolti i fatti e qual era il fantomatico trucco che gli era passato inosservato sotto il naso.
“Lo smilzo aveva ragione: ho scelto quel gioco di proposito. Ho una tempra eccellente. Non basta qualche boccale di birra per farmi girare la testa. In verità contavo di vincere per abbandono degli avversari. Ma dimostrandomi sobrio avrei guadagnato troppi sospetti.” 
“Tutto qui?” 
Calardir arricciò le labbra verso l’alto.
“Non è un dettaglio trascurabile. Essere sobrio mi ha permesso di capire che i dadi dello smilzo erano truccati. Così ne ho approfittato per terminare la partita prima del previsto. Per il resto ho seguito le tue indicazioni alla lettera. Attirare l’attenzione altrove e agire di soppiatto.” 
Destro ripercorse mentalmente gli accadimenti cui aveva assistito attorno al tavolo da gioco. Lo stregone avvinghiato alla femmina, i dadi con il doppio sei sulle facce e lo smilzo che batteva furiosamente i palmi sul piano. Pochi dettagli, dacché la maggior parte del tempo l’aveva passata a evitare la morsa degli spettatori e a sviare l’attenzione dalla donna.
“La puttana!” sbottò.
“Precisamente. In molti l’hanno trovata uno spettacolo allettante e più interessante della partita in sé. Ho infilato la mano sotto il tavolo, sì, ma per colpire il piano al momento opportuno e sfruttare i pesi, gli angoli smussati dei dadi. Questo spiega i doppi sei.”
Scosse la testa e si morse il labbro. Detestava ammetterlo.
“L’hai fatta perfino a me.”
“Ma non allo smilzo. Sai bene che mi avrebbe sventrato volentieri.”
“Ha tutta la mia comprensione. L’hai umiliato. Io sono un mago. Un artista, se vogliamo. Se qualcuno s’azzardasse a borseggiarmi e riuscisse nell’impresa lo ripagherei senz’altro con del ferro nelle viscere. Sei fortunato che è messo male, non si regge in piedi; o non potremmo camminare così tranquilli per strada. Sai, ti facevo diverso.”
“Non ti seguo.”
Il mezzuomo si guardò attorno. Per strada c’era ancora qualche viandante, sagome scure che si muovevano nella foschia della notte.
“Stirpe di Drago,” sussurrò quindi. “Credevo che uno stregone mangiasse carne umana, che vivesse in tortuose, profonde caverne e che scagliasse fulmini contro le città. Qualcuno sostiene anche che abbiate squame e corna, talvolta la coda. E invece tu sei un furfante come gli altri, che mangia zuppa di ceci, rischia il ferro nella carne, fotte e piscia come chiunque.”
Calardir rise.
“Sembri deluso.”
“Un po’,” ammise. “Speravo di vedere qualcosa di più. Com’è accaduto in prigione, ma in grande.”
“Sono umano, Destro. Mia madre e mio padre erano dei semplici contadini. Un uomo e una donna fatti di ossa, sangue e carne. E le leggende restano leggende. Nient’altro che racconti inventati e ingigantiti dall’uomo.” Lo stregone fece una pausa e sfoderò un mezzo sorriso. “Dai cantastorie, ad esempio. Magari narrando storie di mostri alla corte dei nobili per suscitare lo stupore e l’orrore delle dame,” soggiunse; poi scosse la testa. “Personalmente preferisco la ballata del Buffone Incoronato.”
Non era difficile credergli. Destro serrò le labbra in una linea dura e ricordò la carcassa carbonizzata che gli era capitato di vedere durante uno dei suoi viaggi, esposta lungo la via principale di una delle grandi città di Kratos. Piccola, ritorta e nera come il ramo secco di un albero. Per un attimo immaginò gli strepiti inarticolati di quel corpo ancora vivo avvolto dalle fiamme. Lo vide contorcersi. Rabbrividì e scacciò quello scenario dalla mente. Sollevò gli occhi sullo stregone, ma non ne incontrò lo sguardo. Calardir fissava dritto innanzi a sé, mandibola contratta. Non era più così certo che guardasse a Dar’ya.
Quando raggiunsero la Tartaruga Zoppa il locandiere stava sull’uscio, in cima ai tre scalini d’ingresso. Attorno c’era una manciata di gatti che gli si strusciava sulle gambe, miagolando. Ruffiani, pensò il mezzuomo. L’uomo lì notò, gettò il resto degli avanzi a terra e si pulì le mani sul grembiule. Poi si aprì in un cordiale sorriso.
“Bentornati, signori. La vostra graziosa compagna vi ha preceduti di poco. È forse accaduto qualcosa? Sembrava un po’… turbata, ecco.”
“Ordinaria amministrazione. È una femmina. Ogni cosa è un nuovo dramma,” commentò, sventolando la mano.
Calardir rise.
“Non ti daremo noie, buon uomo. Ripartiamo domattina presto. Perciò permettimi di dimostrarti fin da subito la mia gratitudine per il buon cibo, il comodo giaciglio e il tuo prezioso riserbo.”
Destro inarcò il sopracciglio. Lo stregone invece poggiò la sinistra sulla spalla del locandiere e gli strinse vigorosamente la mano con la destra. I mezzuomo seguì il gesto e non mancò di notare il riflesso argentato delle monete che passavano da un palmo all’altro. Il locandiere fece sparire il denaro fra le pieghe del grembiule; poi sorrise e replicò: “Visto che vi attende un lungo viaggio, domattina vi farò trovare latte caldo, pere, formaggio con le noci e miele.”
Ciò stabilito quello si fece da parte. Lo stregone annuì ed entrò per primo. Destro lo seguì. La sala comune era vuota, eccetto per un paio d’avventori che ancora sedevano e fumavano in prossimità del grosso camino. Il fuoco era ormai ridotto a sparute fiammelle e le braci occhieggiavano languide fra la cenere del fondo.
“Cominciava a fare domande,” commentò Calardir.
Il mezzuomo fece spallucce.
“Lo so. Non te le metto in conto. Ma quelle che hai dato alla puttana sì,” rispose.
Calardir rise di nuovo. Di rimando piegò la bocca verso l’alto anche lui. Salirono le scale accompagnati dallo scricchiolare del legno e raggiunsero il piano superiore. Lo stregone arrivò per primo alla stanza da letto e aprì la porta. Tuttavia non accennò a entrare. Gli lasciò invece la chiave fra le dita e proseguì lungo il corridoio, probabilmente diretto alla camera adiacente. Destro dischiuse l’uscio.
“Sprechi il tuo tempo,” disse.
“Quella stupida ha rischiato di essere stuprata. O peggio. E nemmeno se ne rende conto. Anche tu. Tieni occhi e orecchi aperti, Destro. Pellegrino è irrequieto. Lo sento.”
Arricciò il naso e aggrottò le sopracciglia.
“Lo senti?”
“Sì.”
Lo stregone se ne andò senza nulla aggiungere, lasciandolo sull’uscio a chiedersi come c’entrasse il falco e perché. Si spazientì subito. Si passò la mano fra i capelli e li arruffò. Non avrebbe mai capito gli elfi o gli aspiranti tali. Entrò, si richiuse la porta alle spalle, sorpassò il letto di Calardir e andò a sedersi sul proprio. Per prima cosa accese la candela che stava sul comodino. Poi sfilò gli stivali e sgranchì i piedi. Puzzavano di formaggio. Poco male. Buttò sul giaciglio la borsa e si sfilò anche la corazza, che depose a terra.
Finalmente libero, si stiracchiò con un lungo mugolio. Era stanco, ma non poteva andare a dormire senza aver contato i guadagni della serata. Perciò s’alzò, recuperò il bagaglio e si diresse al piccolo tavolino che stava davanti alla finestra. Balzò e sedette, svuotò le tasche e riversò il tutto sul piano. Stessa sorte toccò al contenuto dei sacchetti che teneva nella borsa. Arricciò le labbra, si passò l’indice sotto il naso e cominciò a separare il rame dall’argento. Il tono dello stregone lo raggiunse attraverso le pareti, pacato e profondo. Scosse la testa. Non solo il tempo; stava sprecando anche il fiato. Dar’ya replicò subito dopo. Non capì le parole, ma la parlata era secca, acuta e veloce. Il successivo schianto non gli lasciò dubbi al riguardo: il confronto c’era stato e la ragazzina aveva appena vinto.
Al colpo seguì rumore di passi. Probabile che lo stregone stesse tornando con la coda fra le gambe. La porta si aprì che Destro stava impilando le monete di rame in serie da dieci. Si voltò e adocchiò Calardir da sopra la spalla. Sulla guancia aveva impresso un bel segno rosso, presumibilmente un ceffone.
“Me l’avevi detto.”
“Già.”
Il mezzuomo tornò ai conti, mentre l’altro buttava a terra il cappello e si lasciava cadere sul letto con un profondo sospiro.
“Con questi copriamo la tratta sul Verdarzillo,” disse, spostando all’angolo dello scrittoio due pile di bronzo. “E con questi le spese dei giorni passati. Vitto, alloggio e rifornimenti vari. Peccato per quelle corde. Non valevano nemmeno la metà del prezzo!”
“Il valore di ciò che hai rubato dalla bottega è di molto superiore, se non sbaglio.”
“Ed è per questo che me la sono ripresa col garzone e non ho mandato a chiamare il proprietario,” convenne Destro, unendo alle precedenti una terza pila. “Intanto se consideriamo anche il conto della Tartaruga Zoppa ci restano solo due monete d’argento, tredici monete di bronzo e una, due… sei monete di rame. Male, direi.”
“Bastano e avanzano per raggiungere Arthia,” commentò l’altro, asciutto.
Il mezzuomo inarcò le sopracciglia e batté le palpebre. Degli elfi Calardir aveva anche lo sprezzo verso il denaro, annotò. Come se si potesse vivere di sole bacche! Stizzito stipò nella borsa i Reali, in sacche diverse a seconda del tipo. Poi, con estrema calma, cambiò posizione sulla sedia e poggiò il petto contro lo schienale, gli occhi puntati sullo stregone e ridotti a due fessure.
“Mi hai detto che vuoi entrare nel palazzo di Zemilos Sulescu. La sera che ti ho sfamato non ho indagato. Con la ragazzina sempre tra i piedi, poi, e stato impossibile approfondire. Ma ora voglio saperlo. Perché?”
Calardir rise, ancora supino sulle coltri.
“Perché è ricco?” fece poi.
“Ciò suscita il mio interesse. È per questo che sono qui. Ma tu sei diverso. I Reali per te sono un mezzo, né più né meno. Mi domando per quale scopo. Dopotutto è più conveniente alleggerire benestanti e ignari avventori, che infilare le mani nei forzieri del Lord di Arthia,” insistette.
Lo stregone sollevò il busto e si mise a sedere sul margine del giaciglio, i capelli arruffati. Poi lo fissò di rimando e fece spallucce.
“L’idea ti spaventa?”
“Certo. Non sono stupido. Ma la tentazione è più grande, mio malgrado,” replicò. “Pensavo di mettermi alla prova in un carcere di massima sicurezza, giusto per togliermi lo sfizio. Ma questa mi sembra un’ottima alternativa. Più fruttuosa, se non altro. Ciononostante voglio conoscere i dettagli. Perché sono curioso. E perché come tuo socio ne ho il diritto.”
“Siamo soci?”
“Non lo siamo? Ti ho anche aiutato con la mocciosa, non lo dimenticare. E condivido metà del rischio.”
“Ti tocca metà del ceffone, allora.”
Destro rise.
“I soci non rispondono della stupidità della controparte. In più ti avevo avvisato,” fece, sventolando la mano per aria. “E ora sputa il rospo!”
“Bene,” convenne l’altro.
Il mezzumo batté le palpebre. Non s’era aspettato la resa incondizionata. Anzi. Calardir era sempre bendisposto, chiacchierava e scherzava volentieri, ma non si esponeva mai più del dovuto. Spesso eludeva le domande. A conti fatti non sapeva nulla di lui. Era Stirpe di Drago, sì. Forse il dettaglio più importante da conoscere. E i suoi genitori erano morti, da come aveva capito. Per il resto si comportava come un elfo. E come un furfante. Caratteristiche che cozzavano come il verde con l’arancio. Senza contare che voleva entrare di nascosto nel palazzo di Zemilos Sulescu. Per il denaro? No di certo. Incrociò le braccia sulla spalliera della sedia e aspettò di saperne di più.
“Recentemente Lord Sulescu ha accolto a palazzo un mago proveniente dalla Baronia dell’Anguilla Nera. Voglio saperne di più,” spiegò lo stregone, sfilandosi gli stivali.
Destro inarcò il sopracciglio. Prevedibile. In sostanza gli aveva detto tutto e non gli aveva detto niente. E altre domande avevano preso il posto delle precedenti. Chissà se i due si conoscevano. Chissà se fra loro correva buon sangue. Per certi aspetti la situazione era intrigante, oltre che pericolosa. Ciononostante il suo buon senso poco poteva contro l’innata curiosità. Sarebbe morto giovane, ne era consapevole. Ammazzato, probabilmente. Ma soddisfatto.
“Un Tessitore di Trama. Il rischio aumenta,” commentò.
“Ma te ne spetta solo la metà.”
“E come hai intenzione di fare? Per entrare, intendo. Io sono bravo. Il migliore, forse. Ma non conosco né la zona né il palazzo. In più siamo entrambi forestieri. Chiedere udienza è fuori discussione, anche soltanto per dare un’occhiata,” fece quindi.
Calardir annuì, ma non gli sembrò impensierito.
“Tre settimane fa, ad Arthia, incappai in un gruppo di guardie con le insegne del Casato Sulescu. Fra loro c’era un tizio in particolare. Lo osservai per giorni, in taverna. Non beveva mai assieme ai compagni. Se ne stava da solo, a fumare. A pensare, forse. Spesso senza toccare la pinta che teneva davanti. Insomma non era propriamente un buontempone,” raccontò l’altro, togliendosi anche il mantello. “Una sera uno dei suoi disse qualcosa come ‘non ci pagano abbastanza. Soltanto quel cane fedele di Gutter può chinare la testa e obbedire come niente’. In quell’occasione il diretto interessato lasciò il tavolo e aggredì il compagno con una furia che non avrei mai immaginato. Il tutto senza dire una parola.”
Destro si spostò appena sulla sedia, senza capire dove l’altro volesse arrivare.
“Cominciai a pensare, a farmi delle domande. Era un soldato fedele, ma non era fiero di esserlo. Faceva parte della guardia, ma si manteneva in disparte. Aveva aggredito il compagno, ma non l’aveva tacciato di nulla. Perché? Pensai che le sue ragioni fossero profonde. Di sicuro personali. Forse dolorose. Decisi di parlargli.”
“Cosa ti disse?” incalzò.
Lo stregone sorrise.
“In principio nulla, fui io a discorrere. Mi presentai, gli offrii da bere e sedetti con lui. I suoi occhi dicevano più delle parole, comunque. Erano profondi, cupi, determinati. Gli occhi di un uomo cui non restava nulla, eccetto uno scopo innominabile. Mi scacciò. Più di una volta, a dire il vero. Mi minacciò, anche; ma non sul serio. Diciamo che col passare dei giorni si rassegnò alla mia presenza. Forse si sentiva solo. Forse aveva bisogno di parlare, di alleggerirsi la coscienza. Beh, un po’ c’entra anche la birra… ma quando gli chiesi di lui, dei Sulescu, si aprì a denti stretti. Non me ne meravigliai.” Calardir si umettò le labbra. “Hai presente l’incidente diplomatico di due anni fa? L’attentato a Lord Sulescu.”
“Naturale. Dopotutto a tirare le cuoia è stata la futura Guida dei Glantrenth, non uno qualsiasi.”
“Bene. Gutter disse di aver scoccato le frecce attentatrici di proprio pugno, per ordine di Zemilos Sulescu. Capisci? Una farsa, una manovra per accaparrarsi il pretesto di muovere guerra agli elfi della foresta limitrofa e scalzarli così dal territorio. Che Lauthian Glantrenth sia morto è stata una disgraziata fatalità. Per quanto ne so, non doveva trovarsi nemmeno lì.”
Destro schiuse le labbra e restò interdetto per qualche istante. Gli mancava il fiato. Se si considerava che il re Abadon Encratis in persona si era dovuto formalmente scusare con la Guida Galanodel Glantrenth per evitare una guerra fra uomini ed elfi, era un’informazione di una certa rilevanza. Che metteva Zemilos Sulescu in una posizione a dir poco sconveniente.
“N-ne hai le prove?” domandò, gli occhi grandi.
Non sapeva che cosa c’entrasse tutta quella storia con il mago o con le intenzioni di Calardir, ma l’idea di tenere il Lord di Arthia per le palle gli piaceva smisuratamente. E pace all’anima di Lauthian Glantrenth! Stava già pensando a quanti Reali ricavare da quelle informazioni, quando lo stregone mandò in mille frantumi i suoi sogni.
“No,” fece, strappandogli di rimando una smorfia. “Ma lasciami finire. Quando Gutter terminò il racconto tornai a pormi nuove domande. Si trattava di un uomo semplice e tormentato. Dunque perché serviva in silenzio il Lord che disprezzava? La risposta mi sovvenne d’improvviso e finalmente capii perché mi aveva da subito colpito.”
Calardir lo fissò come se si aspettasse la risposta da lui. Destro sì grattò la testa, invece. Era sinceramente confuso. A questo punto non gli importava più di capire; non dopo che la possibilità di guadagnare soldi facili gli era così crudelmente sfumata innanzi. Era ancora a lutto, lui!
“Per necessità?” tirò a indovinare.
“Per vendetta, Destro. Non c’è niente che ti dia la forza di aspettare e serbare il rancore dentro. In silenzio. Per giorni, mesi. Anni, magari. Finché, prima o poi, si presenta l’occasione giusta per colpire. O per riscattarsi. Sinceramente non ho idea di quali siano le vere ragioni di Gutter. Non gli chiesi il motivo del suo odio. Non era rilevante. E non me l’avrebbe detto in ogni caso. Ma gli proposi di aiutarmi a entrare. In cambio io avrei aiutato lui a rovinare Zemilos Sulescu.”
“Come.”
Lo stregone fece spallucce.
“Gli elfi non consentivano alle carovane mercantili di attraversare la foresta. Perché? È questo che devo scoprire. Una mezza idea già ce l’ho. Dubito che trasportassero granaglie. Sono certo che da qualche parte in quel palazzo c’è una fitta documentazione, in proposito. Entrate, uscite. Devo solo trovarla. Gutter non sa leggere, ma io sì. E Abadon Encratis pure.”
A sentire lui sembrava un gioco da ragazzi. Per non menzionare la leggerezza con cui discorreva della documentazione scottante. Mettere le mani nei forzieri del Lord e arraffare il possibile era allettante, ma ricattarlo restava indubbiamente più vantaggioso. Tuttavia l’altro non sembrava curarsene. Sospirò e scosse la testa. A volte si chiedeva se Calardir fosse sciocco, temerario o semplicemente in gamba. Propendeva per l’ultima, nonostante l’evidente debolezza per la carne. Al ritrovamento delle prove, comunque, non si sarebbe astenuto dal mettere in chiaro un paio di cosucce. O a tagliare la corda col prezioso malloppo. Inoltre c’era qualcosa che non gli tornava. Nei panni di Sulescu avrebbe immantinente eliminato l’artefice del falso attentato. Questo e altro, pur di mantenere al sicuro le chiappe impomatate. Doveva tenere d’occhio quel Gutter...
“Se Gutter conosce il palazzo entrare e uscire sarà più semplice. Certo sarei più a mio agio con la planimetria del maniero fra le mani,” commentò poi. “Intanto non mi hai ancora spiegato a cosa serve la ragazzina.”
“È la nuova dama di compagnia di Ilyana Sulescu. Ho sostituito la guardia che doveva accompagnarla a palazzo. È il mio lasciapassare, insomma. Gutter si è occupato di far sparire l’incaricato. Probabile che sia cibo per i pesci, ormai. Ad Arthia indosserò l’armatura e le insegne dei Sulescu per entrare dal portone principale. Tu mi raggiungerai invece attraverso il passaggio sotterraneo che sbuca oltre le colline. Di norma è utilizzato in caso di emergenza per abbandonare il palazzo, ma tornerà utile anche a ritroso. Ti faremo strada dall’interno.”
“Bene. Vorrà dire che nel frattempo ci dormirò sopra. E ricordami di rubare altra pergamena. Avrò bisogno di prendere appunti. Parecchi.”
Calardir annuì e sorrise; poi scoprì un lembo del letto e si infilò sotto le coperte. Sembrava un ragazzo umano come tanti. Anzi, quasi più ingenuo degli altri; ma non lo era. Intanto non si faceva scrupoli ad usare tutto e tutti pur di raggiungere lo scopo. Destro tralasciò la questione con una scrollata di spalle. Non era migliore di lui, dopotutto. Di rimando scivolò giù dalla sedia e si approssimò al comodino disposto accanto al giaciglio. Soffiò e spense la candela.
 
***
 
Gli mancava il fiato e il cuore gli rimbombava perfino nelle orecchie, le membra nude che rabbrividivano per il freddo. Lo spazio non aveva forma e si limitava a una distesa sconfinata di buio. Calardir non sapeva neppure dove stava mettendo i piedi, ma continuò a correre all’impazzata. Si guardò freneticamente attorno. Non c’erano vie d’uscita. O posti dove nascondersi. Di conseguenza il terrore gli si arrampicò pungente lungo le membra esposte e gli conficcò gli artigli nella bocca dello stomaco.
Una finestra rettangolare s’aprì innanzi a lui, lì dove avrebbe dovuto esserci il pavimento. S’arrestò, esausto, il petto che gli si alzava e abbassava in cerca d’aria. Tentennò e si spostò lateralmente. Non si fidava ma non c’erano alternative. Si avvicinò, infine. Attraverso l’apertura s’intravedeva la luce. Distese appena i lineamenti. Cadde in ginocchio e s’affacciò febbrilmente su di essa, ma lo specchiò gli rimandò unicamente l’immagine disperata di sé.
Lasciò andare le iridi sui propri lineamenti. Gli occhi sgranati, le sopracciglia corrucciate e la bocca dischiusa in una smorfia pietosa. Il ritratto della paura. Oltre si stendeva uno spazio di luce che quasi feriva le pupille. Con sgomento sempre maggiore vide il riflesso dapprima identico distendere la fronte e sorridergli di rimando, quasi beffardo nella sua nuova guisa. Tremò e si ritrasse appena, mentre le fattezze mutavano e divenivano femminili, bellissime. I capelli in principio biondi si tinsero d’inchiostro e scesero a incorniciare le forme tornite dei seni e dei fianchi, che nudi gli si offrivano alla vista. Due occhi viola lo scrutavano invece senza pudori, ametista nell’ametista.
Calardir ingollò a vuoto, incapace di distogliere lo sguardo. Tremò ancora e sentì le viscere contrarsi; mentre le labbra della donna si muovevano, mute. Eppure, dentro di sé percepì distintamente: “vieni”.
Uno strillo acuto gli risuonò nella mente. Spalancò gli occhi, la bocca e con un sordo rantolo scattò a sedere sul letto. Pellegrino…? Gli mancava il fiato. Si piegò in due e trasse profonde boccate d’aria, il sudore che gli bagnava la fronte e la schiena. Dentro il calore ribolliva e si propagava senza controllo. Ingollò e gemette. Serrò le palpebre e le lacrime gli solcarono le gote. Doveva respirare e riacquistare il controllo. Doveva calmarsi. E in fretta. Sobbalzò quando qualcuno gli mise la mano sulla spalla e lo scosse vigorosamente.
“Che succede? Mi hai fatto prendere un colpo! Ehi!”
Destro. Era troppo vicino. E quella… cosa era troppo irrequieta. Ed esuberante. Incontenibile. Ma cedere al panico sarebbe risultato controproducente. Serrò anche le labbra e represse il secondo gemito. La testa gli scoppiava, le orecchie gli ronzavano. E il petto bruciava, strappandogli ossigeno e fitte di agonia. Si portò la mano lì dove sentiva dolore e strinse sulla stoffa dei vestiti fino a farsi sbiancare le nocche. C’era da impazzire, ma non poteva semplicemente lasciarsi andare.
“Vattene.”
“Non dire stronzate! Mi stai spaventando. E di là ho sentito dei rumori. Alzati o stavolta ci giochiamo la mocciosa!”
Deglutì e inspirò a fondo, combattendo contro il magma che gli si agitava in corpo. Che razza di situazione…
“Calardir!”
“Un istante! Un istante… ancora,” ringhiò.
Di rimando le dita del mezzuomo gli si strinsero sulla spalla come ganasce. L’altro aveva paura. E faceva bene ad averne. Tuttavia in quella stretta c’era una dose di sicurezza che non si sarebbe aspettato. Non in una situazione del genere. Calardir si concentrò sul respiro, rassicurato dalla presenza inaspettata. Dentro e fuori. Dentro e fuori. Il silenzio si protrasse per un lasso di tempo che non riuscì a quantificare, unicamente interrotto dal suo frenetico ansimare. Poi, man mano, l’oppressione al petto scemò, il dolore s’affievolì e la cosa tornò a gorgogliare blandamente in una piccola parte di sé.
Lentamente schiuse le palpebre, sollevò di poco il busto e si asciugò le lacrime con il dorso della mano. Alzò le iridi su Destro, una sagoma scura ai piedi del letto. Nel buio gli sembrò che annuisse. Poi il mezzuomo ritrasse il braccio e si allontanò celermente. Calardir tese le orecchie e percepì un tonfo provenire dalla stanza attigua. Non se ne stupì. Primo fra tutti era stato Pellegrino ad avvertirlo del pericolo. Di conseguenza si alzò, abbandonò la stanza e si avviò lungo il corridoio. Si concentrò e sfruttò il legame che aveva col falco per osservare la situazione dall’esterno, attraverso i suoi occhi. Le immagini gli giunsero rapide e sfocate. I tetti delle case, la faccia della luna stagliata nel cielo e le piccole creature notturne che si spostavano fra le ombre. Tra le varie proiezioni intravide due sagome muoversi furiosamente innanzi alla finestra di Dar’ya. Accelerò il passo; ma Destro l’agguantò per il braccio. Si volse, interrogativo, e l’altro gli passò il mantello. Sulle prime non capì; finché notò il balestrino che imbracciava. Attirare l’attenzione altrove e agire di soppiatto. Annuì in segno d’intesa. Poi indossò la cappa e proseguì lasciandosi il mezzuomo alle spalle. A giudicare dai rumori stava ricaricando l’arma.
Calardir giunse all’ingresso e notò che la porta della stanza era semiaperta. Ovviamente non si preoccupò di passare inosservato. Anzi. Aspettò Destro e schiuse completamente l’uscio. Entrò, sollevò il braccio e puntò l’indice contro l’intruso; premurandosi di ottenere uno svolazzo considerevole da parte del mantello.
“Fermo!” ingiunse.
La camera era in penombra, ma le sagome si disegnavano perfettamente contro la finestra, l’una accanto all’altra. Il tiepido fascio di luce illuminava il pavimento ed evidenziava il disordine. Libri gettati alla rinfusa, coperte arrotolate. Perfino la candela giaceva a terra, ormai spenta e ridotta a un cumulo di cera informe. Subito riconobbe lo smilzo nella figura più alta e allampanata. Il riverbero della luce rendeva i suoi occhi luminosi. Folli. Le lacrime disegnavano invece scie traslucide sulla pelle di Dar’ya, facendole risaltare i lineamenti contratti dalla paura. Tremava, i pugni stretti alla camicia da notte. Probabile che lo fissasse nell’ombra, supplicandolo in silenzio. Calardir ingollò a vuoto, dacché l’altro la strattonò per il braccio e la strinse maggiormente a sé. Di conseguenza il riflesso della lama che le puntava alla gola balenò nella semioscurità.
Lo stregone alzò le mani, le mostrò chiaramente e fece un passo avanti. L’aggressore arretrò, trascinandosi dietro la ragazzina. Dar’ya singhiozzò. Tuttavia Calardir si concentrò altrove. Non poteva leggergli con chiarezza i tratti, ma lo smilzo sudava copiosamente e in controluce la sua pelle acquisiva una consistenza quasi viscida. In più continuava a muovere freneticamente le dita sull’elsa. Nervosismo. Era un baro, sì. E un ladro. Ma non era un assassino e quei panni gli stavano stretti.
“Dammi i miei soldi!” fece quello, quasi in falsetto. “Ti ho visto in taverna. Ci tieni, no?” chiese. “No?!” reiterò poi, spingendo la lama più a fondo. “Dammeli o giuro che la sgozzo come una scrofa! Anzi, dammi tutti i tuoi cazzo di soldi!”
Lo stregone non badò al ricatto, né allo strepito di Dar’ya. Non poteva e non voleva fare il suo gioco. Doveva solo guadagnare istanti preziosi; e nel frattempo preferiva di gran lunga atterrirlo. E per farlo non gli serviva la magia. Scosse la testa e si concesse un sorriso sbieco. Dopodiché puntò l’altro con una tranquillità che strideva terribilmente con l’atmosfera generale.
“Potrei darti ciò che vuoi. E tu potresti comunque ucciderla. Non c’è certezza nelle condizioni che proponi,” obiettò. “Vedi, minacciare qualcuno è come giocare d’azzardo. Non sai mai chi può capitarti davanti. E tu hai fatto male i conti. Hai creduto che m’importasse di lei più di quanto m’importi dei soldi.”
“Spergiuro! Traditore!” lo insultò la diretta interessata, divincolandosi.
Lo smilzo la strattonò ancora e le strappò un gemito strozzato. Probabile che le avesse torto il braccio. La cosa dentro Calardir accusò un sobbalzo e gorgogliò più forte. Lo stregone serrò la mandibola e si costrinse a distendere le braccia lungo i fianchi, invece di assecondare l’istinto e prendere lo stolto aggressore direttamente a pugni. O peggio. Trasse un respiro più profondo, respinse il calore e si strinse nelle spalle, come sordo ai singhiozzi di Dar’ya.
“Sentito? Una descrizione calzante,” continuò, senza distogliere lo sguardo dallo smilzo. “Perciò non ti darò un bel niente. Il più scaltro incassa, dopotutto. Ma fidati quando dico che se le apri la gola non ci sarà più nulla fra me, te e quello che io ti farò.”
Il diretto interessato deglutì rumorosamente, come se avesse ingoiato un limone per intero. L’aveva spiazzato e intimidito. E intanto aveva guadagnato tempo. Inoltre il trambusto non era di certo passato inosservato. Lo smilzo aveva commesso una pazzia e presto o tardi ne avrebbe pagato le conseguenze. Non fece in tempo a pensarlo che sentì vociare e rumore di passi provenire dal corridoio. Calardir s’irrigidì. A quel punto il panico avrebbe preso il sopravvento sulle minacce, rendendo l’uomo imprevedibile. E più pericoloso di quanto non fosse.
Uno schiocco, un breve sibilo e lo smilzo si piegò in avanti con un quadrello conficcato nella coscia. Di rimando Dar’ya morse il braccio attentatore e disarmò l’aggressore. Il pugnale cadde a terra con un tonfo fra le urla dello smilzo. Calardir ne approfittò per individuare la sagoma di Destro, in quel momento disteso sotto il letto col balestrino puntato sul bersaglio. Ne aveva fatta di strada con la sola copertura del mantello! Arricciò le labbra verso l’alto e rilassò i muscoli. Poi si avvicinò e scalciò la lama il più lontano possibile, mentre Dar’ya si sbrodolava in singhiozzi, insulti e sonore pedate ai danni dell’aggressore. Decisamente un ottimo metodo per scaricare la tensione. Sorpassò lo smilzo raggomitolato a terra e l’afferrò per le spalle con tutta l’intenzione di portarla via. Dar’ya si irrigidì e si divincolò fra i singhiozzi.
“Sssh,” le sussurrò.
Non voleva stringerla troppo, non dopo quanto aveva passato. La ragazza lo spintonò una volta. Una seconda. Calardir arretrò di un passo e ritrasse le mani. Il viso di Dar’ya era una maschera di sofferenza. La bocca le tremava, le lacrime le scendevano copiose lungo le guance, ma gli occhi lo accusavano in silenzio. Profondi, pungenti, cupi, le sopracciglia aggrottate che ne acuivano la gravità. Esprimevano delusione, forse disprezzo.
“Sei un miserabile. Non t’importa niente di me. Non t’importa… non voglio più saperne! Ti odio! Portami ad Arthia e sparisci!” Lo colpì al petto. “Sparisci! Non voglio più vederti! Mai più! Mi fai schifo!” reiterò, colpendolo ancora.
Lo stregone non si mosse, né replicò. Semplicemente la lasciò fare. Poi le energie l’abbandonarono e la ragazzina divenne molle come burro. Scattò e la sostenne prima che potesse finire a terra, passandole le braccia sotto le ascelle. Lentamente, cautamente l’abbracciò e Dar’ya gli si strinse al petto, sopraffatta dal pianto e dai singhiozzi. Poteva sentirla tremare, mentre serrava disperatamente le dita ai suoi vestiti.
“Sssh,” fece ancora, carezzandole i capelli.
La stanza si rischiarò, fra rumore di passi e commenti vari. Non sapeva quante persone fossero infine sopraggiunte, ma il locandiere gli passò frettolosamente accanto. Indossava la camicia da notte e in mano teneva una lampada a olio. Calardir socchiuse le palpebre e l’osservò mentre andava con lo sguardo da Dar’ya a Destro. Il mezzuomo era sullo smilzo e gli torceva ambo le braccia dietro la schiena, le labbra piegate verso l’alto.
“Uno sporco ladro,” spiegò Destro.
Allo stregone sembrò che godesse un po’ ad infierire; ciononostante risultava estremamente buffo, piccolo e agguerrito com’era. Il diretto accusato gemette e scosse violentemente la testa, ma il locandiere lo raggiunse e l’agguantò per il bavero.
“Bene. Fortuna che non s’è fatto male nessuno. Ci penserà la milizia a questo qua. Non si dica mai che i miei gentili ospiti non possano dormire sonni tranquilli!” fece. “Cammina!”
Lo smilzo gemette e s’agitò, ma l’uomo lo trascinò via ugualmente sotto gli occhi di tutti.
“Su, su, non c’è nulla da vedere. Tornatevene a dormire!” soggiunse Destro, scacciando i restanti curiosi con rapidi cenni delle mani.
Calardir lo seguì con lo sguardo mentre spingeva un paio d’avventori fuori dalla porta. Il mezzuomo ricambiò l’occhiata e si chiuse la porta alle spalle. Il vociare e il rumore di passi si allontanò man mano. Infine non restarono che i singhiozzi di Dar’ya, ancora stretta a lui come un naufrago a uno scoglio. Aspettò finché il respiro le tornò regolare. Poi cercò di scostarla da sé. Incontrò resistenza.
“Non lasciarmi da sola.”
Aveva paura.
“Non ti lascio da sola,” fece eco.
Dar’ya si staccò e sollevò il capo per guardarlo. Le carezzò ancora i capelli e ricambiò con estrema tranquillità, abbozzando un sorriso.
“Torna a letto e cerca di dormire. Domattina ripartiamo presto,” fece, interrompendo il contatto e distendendo le braccia lungo i fianchi. “Io sto qui,” ribadì.
Lei restò in silenzio. Forse non si fidava. Poi annuì debolmente e obbedì. Poco dopo la vide scomparire sotto le coperte. Di rimando Calardir si trovò un cantuccio per sé sul pavimento. Sedette e si avvolse nel mantello. Da lì avrebbe potuto vegliarla mentre dormiva. Dal fagotto di coperte che stava sulla sommità del letto spuntò la testa di Dar’ya. Una volta, due volte per controllare. Poi niente. Calardir sperò che dormisse. Poi sospirò, si portò le mani alla testa e si chiese cosa diavolo stesse facendo. Era davvero stanco e pensare ai pro e ai contro della situazione gli pesava terribilmente; ma solo l’idea di chiudere gli occhi lo spaventava terribilmente. Meglio passare la notte in bianco con lo sguardo fisso nel buio, che scorgere la luce e sognare lei.
Riecchime. ^^ Innanzi tutto volevo ringraziare la Lady666 per i pareri che mi lascia e che mi aiutano a capire che effetto hanno più o meno i miei capitoli. Lol. E poi perché fa sempre piacere sapere che c'è qualcuno cui interessa la storia! *w* Per il resto... boh, pian piano sto cercando di costruire ambientazione e personaggi. Nonché delineare la trama con i suoi misteri e i suoi risvolti. Credo che ci vorrà un po' per scoprire tutte le carte, dato che ci sono ancora parecchi personaggi e parecchie situazioni da raccontare. Spero che abbiate la pazienza di aspettare. Intanto Calardir e Destro si danno da fare con la loro particolare "società". Ma ci sono cose che il mezzuomo non può immaginare... Che cosa nasconde lo stregone? Non vi state consumando dalla curiosità? xP *e l'autrice si prese i pomodori marci in faccia* °A°
Grazie per essere giunti fin qui. Alla prossima!
CompaH
   
 
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