Supereroe
per caso
Normale e fiero di esserlo
La donna
bussò delicatamente alla porta: «Jack-Jack?»
Nessuna
risposta, ovviamente, da parte del figlio, ma un rumore ritmico fece intuire a
Helen che il ragazzo stava ascoltando musica a tutto volume con le cuffie.
Sospirando, la donna allungò un braccio sotto la porta, lo fece scorrere
silenziosamente all’interno della stanza, che conosceva come le sue tasche, e
staccò il jack delle cuffie dal lettore mp3.
Jack-Jack,
coricato sul letto mentre leggeva, protestò: «Mamma!»
La donna
ritirò il braccio e aprì la porta: «Non mi rispondevi, che altro potevo fare?»
Il
ragazzo sbuffò: «Fare come tutte le mamme di questo mondo, chiamare più forte!
Oppure accorgerti che la porta era aperta...»
Helen
alzò gli occhi al cielo. I figli adolescenti, che problema! Ci era già passata due volte, ma era sempre una nuova avventura. Jack-Jack,
poi...
«La cena
è pronta.»
Il
quattordicenne buttò via cuffie e rivista di evidente malavoglia: «Sì, arrivo,
arrivo...»
Rimasto
da solo, sospirò, come faceva sempre da quanto poteva ricordare. Jack-Jack, o J.J. come lo chiamavano tutti, scontava una condanna, una
maledizione per la quale ogni giorno della sua vita si chiedeva cosa avesse
fatto di male per meritarsela. Una famiglia di supereroi, una famiglia piena di
assurde stranezze. Insopportabile per chi, come lui, di superpoteri non ne
aveva neanche un po’.
Oh, li
aveva avuti. Come gli raccontavano da sempre, da bebè aveva dei poteri
straordinari. Narravano le leggende familiari che lui, indomito, da solo,
avesse sconfitto un super-cattivo, là, dove tutta la sua famiglia aveva
fallito. Le cronache descrivevano un bambino vivace, dotato di capacità incredibili persino per un supereroe,
che nonostante non sapesse dire più di qualche verso incomprensibile sgominava
criminali nelle pause fra un sonnellino e una poppata al biberon. Poi,
evidentemente, sua madre insieme all’ultimo pannolino doveva aver gettato nel cestino
anche quegli strani poteri, perché da allora Jack-Jack non era più stato in
grado di fare nulla di straordinario. Suo padre, che già l’aveva immaginato
come il supereroe più superlativo mai esistito, l’aveva portato da ogni medico
specializzato nel settore, ricevendo da tutti una spiazzante diagnosi di
perfetta normalità. Suo figlio non era malato, semplicemente non era super. E allora come spiegarsi le sue straordinarie imprese, degne di un
eroe della mitologia nordica, almeno a giudicare dai toni con cui venivano
narrate?
Le
ipotesi erano state le più varie: dai poteri a scadenza, a quelli
intermittenti, fino all’ipotesi a cui Bob Parr si era
aggrappato con tutte le sue speranze: i poteri di Jack-Jack forse erano così
potenti da interferire con la normale crescita del bambino, e il suo corpo era
stato costretto a metterli “in stasi” fino a che non avesse raggiunto un
livello di sviluppo tale da permettergli di utilizzarli di nuovo.
Qui era
nata la personale tragedia della cena di J.J.: ogni
singola sera, da quando il ragazzo aveva memoria, suo padre lo interrogava per
chiedergli se per caso quel giorno fosse successo qualcosa di straordinario. Da
piccolo era felice di avere sempre un momento tutto per lui con il suo papà, in
cui raccontargli cosa aveva fatto nella giornata, ma non ci mise molto a notare
l’aria sempre delusa di Bob alla fine del suo resoconto e a giungere a una
logica conclusione: a suo padre, di lui,
non importava poi molto. Gli interessavano solo i suoi poteri fantasma, che
neanche ricordava di aver mai avuto e che gli sembravano sempre più una favola
o una leggenda. E a quel punto Jack-Jack si era chiuso in una riservatezza
sempre più stretta, rispondendo giusto quando era necessario e sviluppando una
profonda e radicata antipatia per tutto quello che era strano, assurdo, super o con qualsivoglia nome lo si chiamasse.
Lui era normale, l’unico normale in una famiglia di
supereroi. Ed era fiero di esserlo, qualunque cosa ne pensassero gli altri.
«Ciao, J.J.»
«Ciao,
papà.»
Il
ragazzo si guardò intorno: «Flash?»
La madre
gli rispose dalla cucina: «È fuori per lavoro.»
Jack-Jack
sbuffò. Lavoro? Flash era un
supereroe con orario d’ufficio, se dopo le sette di sera diceva di essere al
lavoro, in realtà era fuori con una ragazza, ormai lo conosceva bene. Il
ragazzo non stimava molto il fratello maggiore: borioso e megalomane, al punto
da aver usato come nome da supereroe quello reale. Per quella scelta J.J. si era arrabbiato parecchio con lui: già che c’era,
voleva mettere scritto sulla tuta anche l’indirizzo di casa, così i
super-cattivi lo venivano a prendere direttamente a domicilio, mettendo in
pericolo tutti?
Decisamente
Violetta era la sua sorella preferita, e rimpiangeva i tempi in cui abitava
ancora con loro. Lei, a differenza del resto della sua famiglia, aveva vissuto
gran parte della sua vita in una forzata normalità ed era la persona che lo
capiva di più. Apprezzava, inoltre, la sua scelta di non fare la supereroina.
Violetta aveva infatti deciso di diventare giornalista. E chi meglio di lei e
della sua tendenza a rendersi invisibile,
in tutti i sensi, poteva carpire i segreti più scottanti della società?
Ma quella
sera erano solo lui e i suoi genitori.
Bob lo
guardò con una luce raggiante negli occhi: «Steve mi ha detto della tua impresa!»
J.J. alzò gli
occhi al cielo: «Steve esagera sempre, papà...»
«Hai
salvato una macchina!»
«Suo
padre ha avuto un colpo di sonno e io mi sono limitato a tirare il freno a
mano. Non lo definirei esattamente un “salvataggio” da supereroe...»
L’uomo insistette
speranzoso: «Ma per intervenire al momento giusto servono nervi d’acciaio!
Riflessi pronti! Tempismo preciso!»
Jack-Jack
ridacchiò: «Che ti devo dire? Sarà stato un piccolo guizzo del vostro gene del
supereroe silente nel mio DNA...»
«Poca
ironia, J.J.! È un segno! Sta per giungere anche per te il
momento di dedicarti alla nobile attività di salvare vite innocenti!»
Il
ragazzo ringraziò mentalmente di non avere ereditato la super forza del padre,
o la forchetta che stava stringendo con più forza del necessario si sarebbe già
piegata fra le sue dita: «Io non posso fare
il supereroe, papà, quante volte te lo devo dire?»
«Se solo
lo volessi, tu...»
«Io non
ho superpoteri, papà. Non è una questione di volontà. Non ce li ho. Fine della questione! Perché non lo accetti?»
Bob si
alzò in piedi: «Perché non è vero! Io
ho visto con questi occhi cosa sei in grado di fare, Jack-Jack!»
Il
ragazzo tenne per sé la battuta di farsi prescrivere un paio di occhiali
migliore: «Cosa ero in grado di fare.
Senti, mi dispiace che sia andata così, ok? Ma perché a questo punto non posso
farmi la mia vita?»
L’uomo
batté un pugno sul tavolo, rischiando seriamente di sfondarlo: «Perché non
posso accettare che mio figlio voglia fare l’odontoiatra
invece che salvare la vita delle persone!»
Il
ragazzo non poté non notare che il padre aveva pronunciato il mestiere con un
tono che sapeva d’insulto: «Salvare anche i denti delle persone mi sembra
un’onesta occupazione con un’utilità sociale, al pari del supereroe. Anche Violetta
non fa la supereroina, ma di lei non ti lamenti mai!»
«Lei non
era dotata come te!»
J.J. sospirò,
alzandosi dal tavolo: «Inutile, con te non si può ragionare. Mi è passata la
fame, me ne vado in camera mia. Buonanotte.»
Era un
copione frequente in casa sua. Probabilmente i suoi ora avrebbero litigato, ma
lui non sarebbe rimasto ad ascoltarli. Se ne sarebbe tornato in camera sua,
dalla sua musica e dalla sua normalità, in
pace.
«Hai di
nuovo litigato con i tuoi, vero?»
Jack-Jack
fece una smorfia: «Si vede così tanto?»
Melanie
gli sorrise: «Quando lo fai non alzi gli occhi dal pavimento per tutta la
giornata.»
Steve gli
diede una pacca sulla spalla: «Su con la vita, amico! Sempre la solita
questione?»
J.J. sorrise.
Melanie e Steve, i suoi migliori amici. Squisitamente normali, come piaceva a
lui. Amici con cui poteva nascondere le sue stranezze familiari, amici con cui
poteva parlare di musica, di film e di tutte quelle cose normali da
adolescenti. Era felice di poter passare quel pomeriggio d’estate con loro, con
tutta la casa a disposizione.
«Sì. Non
vuole proprio accettare che non voglia continuare... l’attività di famiglia!»
Steve si
aggiustò gli occhiali: «Come non capirti? Nemmeno io vorrei passare la vita
dietro una scrivania a occuparmi di assicurazioni...»
Jack-Jack
sorrise tristemente. Non era arrabbiato con Steve per aver detto a suo padre
del freno a mano. Dopotutto era stato anche un aneddoto divertente, di quelli
che si ricordano per anni e su cui ci si fa una risata. In situazioni normali.
Melanie prese
lo zainetto da dietro il letto di J.J.: «Massì, non pensarci...»
La
ragazza dai capelli neri rovistò per un po’ all’interno, facendo uscire di
tutto: l’immancabile rossetto nero che si metteva sempre sulle labbra,
fazzoletti, libri... fino a trovare quel che stava cercando, un flauto
traverso, strumento che suonava fin da bambina. Quanto stonava quel suo hobby
con il suo stile rockettaro di vestirsi! Ma dopotutto difficilmente avrebbero
mai associato a Steve, biondo, con le lentiggini, gli occhiali, magro come un
chiodo, con quell’aria seria da signorino e l’onnipresente camicia bianca, la
chitarra elettrica e, soprattutto, l’heavy metal...
era quasi come se avessero entrambi una doppia identità musicale, diversa da
quella che mostravano invece nella loro vita normale.
Jack-Jack,
invece, non suonava nulla, ma si riteneva un buon ascoltatore.
Melanie
si pulì il rossetto, per poi intonare qualche nota. Steve, invece, tirò fuori
l’altra sua grande passione oltre la musica, l’unico vero difetto che Jack-Jack
rimproverava all’amico.
«Stai
ancora dietro a quelle sciocchezze?»
Steve si
sistemò gli occhiali: «Proprio non capisco questa tua antipatia per i fumetti
sui supereroi...»
J.J. sospirò.
E come gliela poteva spiegare senza passare per pazzo?
Melanie
finì il pezzo che stava suonando, poi disse: «Non sono sicura di essere pronta
per l’esame di ammissione al conservatorio...»
Jack-Jack
le sorrise: «Io invece penso di sì. Sei bravissima!»
Steve
annuì senza alzare gli occhi dall’albetto: «È vero, fidati.»
Il
giovane Parr fece una piccola smorfia: «Forse però
hai steccato un po’ nell’ultima parte... fischiavi...»
Melanie
lo guardò inorridita: «Davvero?»
«Non ne
sono sicuro, in realtà... aspetta...»
Il
ragazzo si avvicinò alla finestra della sua camera e la spalancò, aguzzando
l’orecchio. Poi sorrise, voltandosi verso gli amici: «Tutto a posto, scusa! Era
un rumore che proveniva da fuori, non eri t...»
I loro sguardi
si erano fatti improvvisamente vacui e confusi.
«Ragazzi?»
J.J. si
avvicinò preoccupato, passando loro una mano davanti agli occhi: «Ragazzi? Mi
sentite?»
I due
amici di tutta risposta si alzarono e si diressero verso la porta.
«Dove
andate? Ragazzi!»
Jack-Jack
era fuori di sé dall’ansia. Non gli piaceva per nulla quella situazione e
quell’insistente ronzio sembrava volergli perforare le orecchie e il cervello
non lo aiutava certo a concentrarsi...
La sua
testa fece una strana quanto azzardata associazione mentale. Prima di quel
misterioso fischio, i suoi amici erano normali, invece in quel momento
sembravano quasi in trance... o sotto
ipnosi...
Pensando
a come poter tappare loro le orecchie in modo efficace, li seguì per le scale,
che avevano entrambi iniziato a scendere in fila indiana, con passo lento e
cadenzato. Jack-Jack li superò e cercò di trattenerli per le maglie o
d’impedire loro il passaggio in ogni modo.
«Ragazzi!
Ragazzi, per favore, smettetela, non è affatto divertente!»
Con la
coda dell’occhio guardò fuori dalla finestra e l’ipotesi di uno scherzo di cattivo
gusto iniziò a crollare come un castello di carte. Molte persone si stavano
riversando in strada, con lo sguardo perso nel vuoto, come se un misterioso
pifferaio di Hamelin li stesse attirando con il
suono.
Approfittando
di quel momento di distrazione, Steve e Melanie, con un’agilità inaspettata, si
lanciarono contemporaneamente giù dalla rampa di scale, lasciando interdetto il
ragazzo. Si affrettò a seguirli, senza mai smettere di chiamarli, notando però
che la loro velocità era aumentata e che si dirigevano senza ombra di dubbio
verso la porta di casa, diretti anche loro in strada. Non riuscendo a fermarli,
J.J. fece per seguirli, ma giunto sull’uscio si fermò
di colpo.
Cosa stava facendo? Si stava
buttando dritto dritto nei guai, come un supereroe di
terza categoria, di quelli dei fumetti di Steve. Proprio lui, poi! Quella storia aveva l’aria di essere
maledettamente pericolosa e lui era completamente disarmato. Cosa pensava di
fare, di salvare i suoi amici? E da cosa,
poi? Quello era lavoro per Flash, non per lui! Che gli era preso? Forse, di nuovo, quel maledetto gene
silente del supereroe che aveva deciso di dargli un segnale di vita, giusto il
tempo di metterlo nei guai. Non lo sapeva con sicurezza, ma non riusciva a
togliersi dalla testa l’idea di dover andare. Flash stava tardando ad
intervenire e questo era tutto fuorché normale. E se anche lui fosse stato
ipnotizzato?
Il
ragazzo scosse la testa. Perché improvvisamente era diventato così ansioso nei
confronti del fratello? Lui era un supereroe, sapeva certamente come cavarsela
meglio di quanto avrebbe potuto mai fare lui!
Però...
Indugiò
ancora un momento sulla porta di casa. Non riusciva a togliersi di dosso
l’opprimente sensazione, quasi un presentimento, che se fosse uscito, non ne
sarebbe più rientrato.
Ma era
inutile ripensarci, Melanie e Steve si erano già avviati e lui non poteva fare
altro che seguirli.
E rieccomi qua, con un’altra
storia sugli Incredibili, tutta incentrata su un piccolo (qui non più, in
realtà) eroe che mi ha sempre affascinato, Jack-Jack. A quanto pare continuo ad
essere l’unica scrittrice della sezione, ma pazienza…
Sperando che a qualcuno interessi questa storia e
abbia la pazienza di seguirla, e magari di lasciare un commentino, vi aspetto
al prossimo capitolo!
CIAO!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Hinata 92