Fuori dall’acqua
Un’onda più forte delle altre li scaraventò verso una
spiaggia che spariva nel buio del tramonto. Non si erano lasciati neanche per
un istante, la corda che li univa sarebbe stata quasi superflua davanti al
pensiero che li guidava: sei mio
compagno; non ti lascerò morire.
– Nami, forza! – la spronò Usop.
Il caso volle che nessuna malattia gli impedisse di toccar terra, quella volta.
Nami tossì, le sue gambe
cominciarono debolmente a nuotare spingendola, al fianco del cecchino, verso
l’isola che avevano davanti.
La risacca dell’onda li allontanava,
quasi che l’isola non li volesse sulle sue rive.
– Nemmeno per sogno – mugugnò Nami
respingendo quell’idea, quando ormai sentiva i sassi sotto ai piedi. Carponi,
con la sola forza della disperazione, puntò le mani in avanti lasciandosi
cadere, arpionò con le unghie le pietre del fondale e riuscì a contrastare la
corrente fino ad arrivare al bagnasciuga, trascinandosi dietro anche l’amico.
Si lasciarono cadere sulla battigia,
senza nemmeno più la forza di sollevare lo sguardo l’uno verso l’altra.
Usop immerse le mani nella ghiaia
e baciò i sassi umidi fra l’onda del mare che andava e veniva.
Nami pianse. Non aveva più liquidi
in corpo per versare lacrime, ma pianse.
Trascorsero minuti. Nessuno dei
due pirati aveva idea dello scorrere del tempo, martoriati com’erano dalla
lunga permanenza in mare e dalle privazioni vissute. Alla fine, quando si
resero conto che sui loro corpi spirava una brezza gelida, si avvicinarono l’un
l’altra e il ragazzo, senza commenti, strinse a sé Nami per darle riparo e
ricevere calore.
– Non possiamo rimanere qui –
sussurrò la navigatrice.
– Se mi muovo da qui, morirò… – si
lamentò il cecchino.
– Moriremo tutti e due se non ce
ne andiamo –
Nami aveva ragione, e Usop non
potè che rendersene rapidamente conto: erano bagnati fradici, deboli, senza
armi, e quella era come minimo un’isola autunnale. Senza contare che correvano
il rischio, esposti com’erano, di essere attaccati da chissà chi. Dovevano cercare
un riparo alla svelta, prima che calasse la notte rendendo invisibili ostacoli
e ricoveri, o prima che le nuvole basse e cupe che minacciavano pioggia
tenessero fede a quella promessa.
Quasi a dar ragione alla ragazza,
i brividi si presentarono puntuali e violenti per entrambi; allora i pirati si
trascinarono, un po’ carponi e un po’ aiutandosi a vicenda, fra le piante basse
della foresta che avevano davanti.
L’isola era umida e spettrale, a
quell’ora quasi crepuscolare; i fusti degli alberi si stagliavano cupi e magri
contro il tramonto, dal terreno si levava l’umido che avvolgeva come un sudario
le piante. I bassi sterpi graffiavano le gambe dei due, che venivano mosse a
fatica, mentre rumori di bestie che volavano e strisciavano lontane
serpeggiavano tetri inquietando i due naufraghi.
Arrivarono infine in una desolata
radura dove gli alberi lasciavano intravedere in lontananza, oltre una buia
valle piena di nebbia, una collina che a quell’ora aveva preso le tinte
del viola; su quel colle, a diversi chilometri da loro, rilucevano delle
finestrelle illuminate. Una casa.
– Non ce la faremo mai ad arrivare
lì… – boccheggiò Usop.
Nami aveva poco da essere testarda
e ottimista, in proposito.
–
Non adesso – rispose – Cercheremo di raggiungerla domani. Andiamo avanti
–
Volevano un luogo dove lasciarsi
cadere, dove il vento non li raggiungesse, dove potessero smettere di tremare,
dove potessero tentare di accendere un fuoco. Un anfratto tra le rocce, una
grotta, una vecchia tana di tasso, le radici di un albero secolare, qualsiasi
cosa.
Usop scivolò in avanti sul terreno
pregno d’acqua, ma invece di rialzarsi rimase lì in terra, senza nemmeno la
forza di opporsi. Nami si portò vicino a lui, gli passò il braccio in vita e si
mise quello del ragazzo sulle spalle, facendogli riprendere il faticoso
cammino.
Fecero altri passi, ormai la
tentazione di fermarsi lì, in mezzo a quella foresta, era sempre più forte e,
con l’avanzare delle tenebre, sarebbe diventata l’unica soluzione possibile.
– Fermati – ordinò lui in un
sussurro. Nami per una volta non si fece pregare.
Usop tese
l’orecchio, facendo un immane sforzo per concentrarsi – È acqua! – disse
eccitato.
Nami si
mise in ascolto, il volto le si illuminò mentre sentiva le forze tornarle per
arrivare prima possibile a quel meraviglioso tesoro.
Camminarono
senza parlare per altri duecento metri, facendosi guidare docili dallo scroscio
e stringendosi la mano con caparbietà, per esser sicuri che anche l’altro
stesse procedendo lì accanto.
Un
ruscello non più largo di tre passi aveva scavato il terreno per un paio di
metri, e nel fosso l’acqua scorreva felice e veloce verso il mare. Nami si
lasciò cadere verso il torrentello, trascinandosi dietro Usop, ed entrambi si
fermarono sul greto, e senza esitazioni immersero le proprie teste nell’acqua
gelida, bevendo furiosi e lasciando che l’acqua dolce spazzasse via il sale che
li disidratava, spaccando loro la pelle e facendoli sanguinare.
Nami fu la
prima a riemergere, col fiatone, e afferrato il compagno per i capelli lo tirò
fuori dall’acqua prima che, nella foga di bere, morisse annegato in quella
pozzanghera.
Usop si
passò la lingua sulle labbra, guardando fisso davanti a sé.
–
Fermiamoci qui – disse pratica la navigatrice – Più avanti non cambia nulla –
Ma il
cecchino puntò con l’indice destro davanti a loro, oltre il torrente.
Pietre.
Una
costruzione fatiscente li aspettava dall’altra parte del fiumiciattolo,
illuminata malamente dall’ultima luce del giorno che era riuscita a filtrare
fra le nuvole, e appariva loro come il più bello dei miraggi.
– Non ce
la farò mai ad arrivare fin lì – biascicò Usop, ma Nami lo arraffò per la
maglietta fradicia e lo trascinò nel ruscello per guadarlo. Era basso, l’acqua
non arrivava loro nemmeno alle ginocchia. Caddero, si tirarono su, ma alla fine
raggiunsero quel riparo.
Forse era
stato un ricovero per le pecore, o forse un capanno di qualche contadino almeno
un secolo prima. Una sola stanza quadrata che fu stimata dal cecchino essere
circa di quattro metri per lato, per metà invasa dalle tegole e dalle travi del
tetto crollato e per metà lurida e piena di foglie secche.
Nami si lasciò cadere lì per terra, seguita da Usop,
finalmente al riparo dal vento sferzante.
I brividi però non si arrestavano, il freddo continuava a
tormentare i due pirati.
– N-Nami… – la richiamò il
cecchino – Lo sai, vero, qual è un modo per scaldarsi? –
– A-accendere un f-fuoco? –
– Anche… m-ma soprattutto… i
vestiti b-bagnati… –
Ah, sì. Nami ci aveva pensato
eccome, però era -come dire?- imbarazzante. Anche se, vivendo assieme da anni e
anni, ormai il suo amico era abituato a vederla in ogni situazione e con ogni
vestiario, anche quello che lasciava poco all’immaginazione. Ma tra vedere e
toccare ne passa.
– Te lo metterò in conto – promise
irosa – E azzardati solo a pensare di mettere le mani in certi posti… –
Ma Usop la stava a mala pena
ascoltando, si era già slacciato le bretelle e stava per calarsi le braghe
senza tante cerimonie. Nami sospirò, appressandosi a liberarsi dei suoi jeans,
intrisi d’acqua fredda e appiccicati alla sua pelle.
Una volta con la sola biancheria
intima, si voltò verso l’amico.
Usop, in ginocchio e con nulla
addosso salvo i boxer, rovistava all’interno della pesante borsa che aveva con sé.
Quando erano in mare, e Usop stava
per svenire dalla stanchezza, quella borsa era stata una vera e propria mela
della discordia: Nami insisteva perché il cecchino se ne disfacesse,
poichè lo appesantiva inutilmente, ma il ragazzo non ne voleva
sapere, a costo di morire in mare.
– Nami, aspetta! – aveva
protestato il cecchino – Potrebbero esserci utili! – e l’aveva aperta tra le
onde, ben attento a non rovesciarne il contenuto.
– Ma q-quelli s-sono… – aveva
detto incerta la ragazza.
– Dial! – aveva sorriso Usop
– E t-tu avevi questi con te e non
li abbiamo usati per chiedere aiuto?! – aveva fatto Nami indicando un Lamp Dial
e un Flame Dial, prima di pestare il suo compagno con uno dei suoi pugni.
– Sono completamente zuppi! –
aveva spiegato il cecchino premendosi le mani sul bernoccolo – Forse quando
saremo su un’isola potremo usarli.
E adesso erano su un’isola. Un’isola
nebbiosa e fredda.
– Il Lamp Dial, Usop! – sollecitò
Nami – Dobbiamo lanciare un SOS! –
– Rischiamo di renderci visibili!
– si lamentò il povero ragazzo.
– È questo il senso di una
richiesta d’aiuto!! –
– Visibili a chi, Nami? – si
difese lui tremebondo – Non sappiamo da chi sia abitata l’isola, p-potrebbero
essere mostri spaventosi, cacciatori di taglie, zombie, qualsiasi cosa!
– Ai nostri amici… – impallidì
Nami, rendendosi conto della pericolosità di una richiesta d’aiuto da parte
loro.
– Non abbiamo la certezza che
siano approdati qui anche loro – fece Usop sconsolato, combattendo contro i brividi.
La tristezza parve calmare Nami, mentre stringeva tra le mani
la maglietta zuppa che si era appena tolta di dosso.
– Potevi a-almeno usarne uno per
accendere un fuoco – tentò, come ultima munizione per quel discorso,
stringendosi le spalle con le mani per tentare di racimolare da sola un po’ di
calore. Paradossalmente, tolti i vestiti bagnati, aveva meno freddo, anche se
era quasi nuda.
– Senza un riparo rischiamo che il
fuoco attiri altre persone – spiegò ancora il cecchino. Il suo carattere pavido
e pessimista, in quell’occasione, si stava rivelando provvidenziale. Valutava i
rischi con precisione e discernimento.
– Tra p-poco lo accenderò. Ma solo
qui dentro, e s-solo con i buio, altrimenti si noterebbe il fumo – sussurrò –
Cerco della legna q-qui fuori – disse; se fosse scesa la sera, non sarebbe
riuscito a veder nulla, mentre sarebbe stato necessario alimentare le braci.
Nami lo seguì stancamente.
Insieme, riuscirono a trovare
legna e sassi per formare un piccolo falò. Era stato difficile trovare rami che
non fossero fradici, ma alla fine tornarono nel rifugio con combustibile a
sufficienza per le ore della notte.
Le foglie secche ammucchiate nella
parte della stanza libera dal cedimento del tetto offrivano un giaciglio
tiepido. Usop vi si stese su e Nami al suo fianco fece altrettanto, lasciando
che l’amico, imbarazzato, la abbracciasse per scaldarla e scaldarsi.
Quando si furono abituati a quella
strana e intima situazione, i due tirarono un sospiro di sollievo. Erano vivi.
Erano all’asciutto. Le loro gambe si rilassarono, finalmente libere da quel
continuo dibattersi per mantenersi a galla, la testa di Nami si abbandonò sul
petto di Usop e quella del cecchino si adagiò su quella della navigatrice. I
capelli lunghi e bagnati di entrambi erano spaventosamente gelati.
Nami
socchiuse gli occhi, guardando attraverso l’uscio aperto il cielo prendere lentamente
la tinta del nero, le ombre divorare la nebbia che li circondava, il freddo
della notte strisciare anche fra quelle vecchie pietre. I brividi fecero
sentire i loro ultimi colpi, e lei intrecciò, quasi inconsapevolmente, le gambe
a quelle di Usop.
Poi sentì, lento ma inesorabile,
qualcosa di duro premerle contro il ventre, quasi che una talpa avesse deciso
di mettere il capo fuori dalla sua galleria proprio fra il bacino suo e quello
del compagno.
Poi realizzò che non era una
talpa.
E che non veniva da nessuna
galleria.
– Usop – ringhiò.
– Mi dispiace, Nami! – si
giustificò il povero ragazzo – Sto pensando a tutt’altro, ci sto provando in
ogni modo – piagnucolò, allontanando il proprio bacino da quello della
navigatrice – Dammi un attimo, cerco di calmarlo –
– Metterò in conto anche questo –
dichiarò furibonda.
Quando i buio non permise più
nemmeno di guardarsi in volto, Usop si decise ad utilizzare il Flame Dial.
I legnetti ammucchiati entro il
cerchio di sassi presero rapidamente fuoco, dipingendo spaventose ombre sulle
pareti che intimorirono il coraggioso ed impavido Usop.
Nami, mentre il ragazzo era
accovacciato ad alimentare il fuoco, lo abbracciò da dietro cingendogli le
spalle. Faceva troppo freddo per separarsi, e il fuoco non aveva ancora
cominciato a scaldare l’ambiente.
– Questa va tra i debiti? – fece
mogio Usop, sentendo le bombe dell’amica premere sulle sue spalle, e trovando
sempre più difficile pensare a cose disgustose per distrarsi.
– Certo – concesse comprensiva
Nami.
Il fuoco si appiccò vincendo
l’umidità della legna e finalmente un piccolo tepore si sparse attorno al falò;
i due pirati tesero le mani verso le fiammelle.
– I capelli – disse Nami all’improvviso;
quelli erano le prime cose da asciugare se non volevano trovarsi, oltre che
nudi e sperduti, anche con la febbre alta.
Si misero seduti vicini vicini,
davanti al falò, e rovesciarono le chiome in avanti per esporle al calore.
– Ti immagini se ci vedesse
qualcuno? – dovevano sembrare ben strani: due ragazzi in biancheria, seduti
gomito a gomito e con i capelli ribaltati in avanti.
– Districateli con le dita, si
asciugheranno prima – lo rimbeccò Nami.
Per la prima volta notò quanto
fosse lunga e crespa la criniera del compagno. Prima che a Sabaody si
dividessero gli arrivavano appena alla nuca, ed erano sempre coperti dal
cappello. Poi, dopo i due anni di separazione, erano ben evidenti, lunghi e
crespi dietro le sue ormai forti spalle, ma era raro che non avesse il capo
coperto. Nami afferrò con due dita l’estremità di una ciocca nera,
attorcigliata su se stessa nonostante l’acqua che la appesantiva, e la tirò
verso il basso distendendo il ricciolo.
– Abbiamo i capelli più lunghi
della ciurma? – considerò la ragazza all’improvviso.
– Uh? – Usop guardò i tendaggi che
avevano davanti agli occhi – Pare di sì! –
Quelli di Robin erano lunghi, ma
meno di quelli di Nami.
La ciurma.
Usop e Nami si guardarono negli
occhi, colti dallo stesso pensiero.
– Staranno bene.
– E se sono morti?
– Le correnti portavano da questa
parte.
– E se un Re del Mare li avesse
inghiottiti in un boccone?
– L’isola era in vista, quando ci
siamo separati.
– O era un banco di nuvole?
– Usop, smettila! –
Era la loro famiglia. Era tutto
ciò che avevano. Si strinsero di nuovo fra loro mentre i capelli, lentamente,
si asciugavano.
Anche se asciutti grazie al calore
del fuoco, i loro vestiti non erano neanche lontanamente sufficienti per
scaldarsi in quel clima rigido e umido, così per passare la notte i due si
abbracciarono nuovamente e si coricarono poco distante dalle fiamme.
Usop rimase sveglio, di guardia
per la notte, seppur a malincuore. Ma in fondo, con tutte quelle presenze che
percepiva fuori dal rudere, non sarebbe riuscito facilmente a prendere sonno;
però da sveglio avrebbe potuto accorgersi di un pericolo e scappare. Nami,
distrutta dalla permanenza in mare, si addormentò immediatamente, raggomitolata
sul suo petto.
Il cecchino non potè che sentirsi
importante, adesso che la vita di Nami non dipendeva dai “mostri” della ciurma
ma unicamente da lui. Immediatamente dopo però cadde nel nervosismo più totale
pensando all’ira di Rufy, Zoro e Sanji se alla loro navigatrice fosse successo
qualcosa per causa sua.
E con la morte nel cuore si guardò
intorno e tese le orecchie, sperando che non succedesse nulla in quella notte
fredda e spettrale, con la nebbia che avvolgeva i colli e gli alberi spogli e
la notte che amplificava ogni rumore mentre, ne era sicuro, attorno a quel rudere
giravano bestie d’ogni genere attratte dal loro invitante odore.
~
– Fermi! Quella che roba è? –
berciò una voce maschile.
– Una rimessa per maiali del
secolo scorso? – azzardò una seconda voce.
– Ci hanno messo un po’ troppo
impegno, per un porcile – tuonò una terza.
Tre pirati stavano attraversando
il sottobosco, facendosi strada tra gli arbusti falciandoli via a colpi di
scimitarra e machete. Erano vestiti pesantemente, i mantelli frusciavano
attorno alle loro caviglie e le armi tintinnavano cupe sulle loro spalle
possenti. Non sembravano aver paura di essere scorti da chicchessia, e procedevano
spediti tra motteggi e battute.
Si guardavano attorno con avidità,
prendendo mentalmente appunti sul territorio che stavano attraversando.
– Ha troppe porte… – considerò quello
che doveva essere a capo del piccolo drappello.
– Ce ne sono tre – notò un uomo dalle spalle massicce e i dreadlocks in testa.
– Hai mai visto un porcile con tre
porte? E guarda – l’uomo che aveva parlato per terzo fece il giro della costruzione
– Qui c’è la quarta, tappata da un crollo! Una per lato! –
Usop sbarrò gli occhi,
stringendosi inconsapevolmente alla ragazza. Voci. Voci che non aveva mai
sentito prima. Trattenne il respiro, divenne mortalmente pallido di paura. Non
poteva scappare. Non poteva chiamare nessuno in soccorso. Nami dormiva stremata
e diventava sempre più gelida, respirava pianissimo. Strinse i denti, si passò
una mano sugli occhi. Magari erano brave persone. Magari erano gli abitanti
dell’isola. Forse li avrebbero aiutati. O magari erano stupratori, assassini,
mercanti di schiavi, cacciatori di taglie. O Marine, e li avrebbero portati
senza sforzo ad Impel Down.
Lo scalpiccio dei loro piedi
danzava attorno alla costruzione.
Usop pensò di scappare, irrigidì i
muscoli delle gambe per tirarsi in piedi, ma l’acido lattico accumulato le
aveva rese dei pezzi di legno pesanti come il piombo, i muscoli si rifiutarono
di sorreggere il peso di due persone.
– Il tetto è fuori uso – disse uno
di loro. Il Re dei Cecchini lo sentì varcare una delle tre soglie e si preparò
all’inevitabile.
Curtis rimase di sasso. Gli occhi
di un ragazzo di vent’anni lo fissavano, pieni di paura e di rassegnazione. Un
ragazzo abbronzato e atletico, coperto di lividi, dal volto scavato e scosso da
tremori. Stringeva una ragazza nelle stesse condizioni, che però era pallida, e
sembrava dormisse. Entrambi erano quasi nudi e sporchi di terra, sangue e
salsedine.
– Benn! C’è gente! – gridò. – Ho
interrotto qualcosa? – sussurrò sarcastico.
– Gente? – Benn Beckman si
affacciò all’uscio.
Dietro le quinte...
E dopo la pausa estiva, ben ritrovati all'ascolto di "La Valle Tragica"! Qualcuno ricorda di che ciurma fa parte il citato Benn Beckman? Sì signori, sta per arrivare una personalità piuttosto importante dell'universo di One Piece!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e che abbia reso abbastanza bene la Nakamaship tra Nami e Usop.
Se ho fatto errori logistici o grammaticali vi prego di farmelo notare nelle recensioni, provvederò immediatamente ad una correzione!
Grazie mille,
Yellow Canadair