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Autore: Holly Rosebane    20/08/2015    2 recensioni
Michael suona per vivere. Si esibisce con la sua chitarra tutti i pomeriggi in piazzola.
Eireen lo ammira in silenzio, e compone poesie su di lui.
Calum ha una passione smisurata per i dolci. E per una cassiera dai capelli blu.
Stacey è un po' isterica e serve in un bar all'angolo, di fronte alla piazzola. Non sopporta il disordine, e ancor meno un insistente giovane dai tratti vagamente orientali. Il quale passa di lì tutti i giorni.
Luke non è bravo con le parole e non riesce a relazionarsi con il prossimo. Preferisce che i suoi disegni parlino per lui.
Sydney è innamorata dell'arte. E della bravura di quello sconosciuto, incontrato casualmente in una caffetteria.
-
«Un po’ come la storia dell’Akai Ito, il “filo rosso del destino”. La leggenda narra che ognuno di noi ha un sottile spago scarlatto legato al dito mignolo. L’altra estremità, stretta al medesimo dito, appartiene alla nostra anima gemella».
«Ma potremmo non incontrarla mai», ribatté Sydney. Luke sorrise, scuotendo la testa.
«Impossibile. Siamo destinati a trovarci».
Genere: Comico, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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II.
Zucchero



«Torno a vederli
ed i fiori di ciliegio
nella sera sono già frutti
»

(BusonHaiku)
 
 
No, eh. Non di nuovo”.
«Buongiorno!»
La giovane cassiera dai lunghi e ondulati capelli color blu notte si voltò verso lo scaffale delle caramelle, stringendo gli occhi per la disperazione e dando le spalle alla cassa. Si lasciò sfuggire un gemito soffocato, dando voce ai suoi tre secondi di frustrazione.
Poi, prese un respiro profondo e si girò dalla parte dell’entrata del negozio. Per vedere sempre il solito spilungone indie con la voce profonda e le spalle larghe, che molestava tutti i giorni la tranquillità di quel modesto bar all’angolo.
«Hai fatto qualcosa ai capelli?» Chiese, di punto in bianco. Stacey Jones si morse il labbro inferiore per non rispondergli male all’istante e si sforzò di sorridere.
«No. Sono sempre gli stessi di ieri. E dell’altro ieri. E dell’altro ieri ancora» scandì con una certa punta di acredine, ricordandosi di quante volte quel giovane fosse passato al bar solo per il semplice scopo di vederla. Infatti, il tipo si strinse nelle spalle e piegò un po’ la testa di lato.
«Sei sicura? A me sembrano diversi».
«Cosa prendi, oggi?» Tergiversò Stacey, cercando di non prolungare quell’incontro oltre i quattro secondi massimo.
«La cassiera è in vendita?»
«No. Come sempre».
Allora lo vide appiccicare entrambi i palmi delle mani alla vetrinetta dei dolci, esaminando le paste con notevole interesse.
Al rumore delle dita sul plexiglas, Stacey sussultò lievemente, chiudendo gli occhi. Odiava quando, in controluce, spiccavano le impronte in trasparenza. Le dava un incredibile senso di disordine, sporcizia, sciattezza. E lei odiava a morte tutt’e tre. Ma, forse, detestava di più quella pertica maori tutta tatuaggi e niente cervello che stava adocchiando la caprese italiana ancora intatta.
Fisicamente, poteva anche essere bello. Grandi occhi a mandorla dalle iridi così scure da non potervi distinguere le palpebre. Spettinati e lucenti capelli neri non troppo corti, labbra rosate spesso aperte in un largo sorriso a 32 denti, tutti perlacei e luminosi. Incarnato olivastro che lo faceva sembrare perennemente abbronzato per tutto l’anno. Tatuaggi che sottolineavano la sua parentela con avi cherokee e neozelandesi.
Vestiva con abiti stretti che parevano appositamente scelti di una taglia in meno, che lo facevano sembrare ancora più alto e ben piantato. Più strappi potessero esserci sopra, meglio era. Stacey gl’invidiò i quindici centimetri extra che la costringevano ad alzare la testa per fissarlo negli occhi. E il suo inspiegabile, perenne buonumore.
«La crostata di pesche sembra buona. Lo stesso per quella sottospecie di rotolo alla frutta…»
«Si chiama strudel. È tedesco», lo corresse la giovane, spostando lo sguardo su ognuno dei dolci che gli nominava.
«Fa lo stesso, siamo in Australia e non vedo il motivo di parlare un’altra lingua. Ad ogni modo, sono anche indeciso su quei pasticcini alla crema, ho sempre avuto un debole per la crema pasticcera. Però non posso mangiarne molti, altrimenti ingrasso. Sai, non sarebbe carino che mettessi su della ciccia extra, poi non potrei più rimorchiare, mi vergognerei ad uscire e non potrei più venire qui a veder…»
«Scegli. Un. Dolce» scandì Stacey, la cui tolleranza era affogata nella crema dei pasticcini. Vide il moro socchiudere gli occhi e poi puntare deciso il dito verso la caprese, stampando la propria impronta digitale sulla plastica trasparente. E c’era stato il bisogno di chiacchierare così tanto?
«Quella lì al cioccolato», disse. La giovane aprì la vetrinetta e ne tagliò abilmente una fetta, per poi sistemarla su un piattino e allungarla al ragazzo sul plexiglas. Quindi cominciò a pregare mentalmente che se ne andasse in fretta, iniziando anche ad essere di umore leggermente più amichevole.
«Fanno…»
«Posso pagare domani? Ho scordato il portafoglio a casa», l’interruppe lui, prim’ancora che potesse dire una cifra. Stacey lo fissò negli occhi e sospirò profondamente.
«Basta che ti ricordi», commentò, richiudendo la vetrinetta e tornando al suo posto in cassa. Si sedette, sprofondando il mento fra le mani, osservando il moro masticare il suo dolce con calma.
«Sai che ancora non so come ti chiami?» Rifletté lui, sputacchiando briciole color cioccolato a destra e a manca. Quello fu troppo.
Stacey trasalì e scomparve sul retro. Tornò alcuni secondi dopo, rossa in volto, con una scopa e una paletta. Cercò di contenere la sua ira, incenerendo il ragazzo che continuava a masticare senza problemi.
«Non ti hanno insegnato le buone maniere, a casa? O parli, o mangi!» Esclamò, iniziando a spazzare freneticamente attorno al moro.
«Veramente…» ribatté, provocando un’altra pioggia di bricioline.
«Per la miseria! Stai zitto!» Urlò Stacey, passando di nuovo la scopa sullo stesso identico punto. «Finisci di masticare e poi potrai parlare».
Il moro, per nulla intimidito da tanto strepito, continuò a mangiare senza problemi. E sorridendo alla cassiera che continuava a guardarlo con astio, stringendo in mano scopa e paletta.
«Ecco qua! Ho finito!» Sentenziò, posando il piattino sul plexiglas e alzando le mani in segno di resa, ancora con la bocca piena. Stacey diede un’ultima pulita in prossimità delle slargate Vans a scacchi del ragazzo e sparì di nuovo nel retro. Quando tornò, si limitò a lanciargli una truce occhiata da sopra la cassa e a soffocare uno sbadiglio.
«Dicevo… non conosco il tuo nome», riprese.
«Vivrai a lungo e in salute anche ignorando questo particolare», gli rispose, osservandosi le unghie laccate di nero.
«Eddai. È un mese esatto che vengo qui tutti i pomeriggi, credo di meritare un premio!» Protestò, con la sua voce dal timbro così basso da contrastare terribilmente con il volto quasi infantile. Stacey represse la voglia di urlargli “non te l’ho chiesto io!” nelle orecchie e sospirò.
«Stacey Jones».
«E io sono Calum Hood».
«Evvai», commentò, sollevando un pugno in aria e fingendo allegria. Calum parve riflettere per qualche istante. Momento nel quale Stacey quasi sperò che dicesse una frase intelligente.
«E quanti anni hai?» Domandò, invece. Ella alzò un sopracciglio, fissandolo da sopra la cassa.
«Mi stai facendo un interrogatorio, per caso?»
«Non si risponde alle domande con un’altra domanda», disse il moro. La cassiera non riusciva a capire dove volesse andare a parare.
 In genere Calum arrivava al bar, ordinava qualcosa e attaccava a parlare di una qualsiasi stupidaggine, per un’ora o due. Alternando ai suoi futili discorsi qualche frase da latin lover per abbordarla. Poi si ricordava di aver un impegno a caso e andava via.
Non aveva mai accennato al conoscersi meglio, come invece stava facendo quel pomeriggio. E lei non sapeva se esserne scocciata o… felice.
«Diciassette».
«Hah, sei più piccola di me!» Esclamò Calum, sorridendo amabilmente. Stacey scattò in piedi, shockata.
«Che cosa?!» Chiese, incredula. Non poteva essere possibile che quello spilungone dal baby cervello fosse più grande. No, semplicemente.
«Già. Ho diciannove anni. E perciò devi chiamarmi Mr. Hood».
«Mai e poi mai».
«Ragazzina, mostra rispetto», la redarguì, imbastendo un tono di voce da coordinatore scolastico e agitandole contro un abbronzato indice perentorio.
«Come mi hai…» cominciò Stacey, ma la voce del proprietario del bar l’interruppe.
«Jones, il tuo turno è finito», l’informò, sbucando dalla porta sul retro. Ella si produsse in un’esclamazione e corse nello stanzino riservato al personale.
 Lanciò il grembiule al gancio apposito, facendo attenzione che non rovinasse a terra. Poi, prese il pesante borsone all’angolo e se lo sistemò in spalla. Salutò il proprietario e uscì dal bancone. In tutto questo, Calum era ancora lì, ad aspettarla.
«Stai andando a casa?» S’informò, guardando Stacey negli occhi. Pensò a come sarebbe stata senza quel pesante strato di eyeliner a decorarle lo sguardo, cercando di immaginarsela. La giovane dai capelli blu davanti a lui scosse la testa, aprendo la porta tirando il maniglione antipanico verso di sé.
«Direi che possiamo anche salutarci qui», sorrise al moro. Ma questi scosse la testa.
«Voglio accompagnarti. E se poi ti perdessi?»
«Conosco la strada. Va’ a casa e dormi sonni tranquilli» disse Stacey, avviandosi. Tuttavia, Calum cominciò a seguirla.
«No, no. Fra l’altro, oggi sono stato pochissimo insieme a te. Mi serve tempo extra», ribatté, convinto. Lei non poté far altro che sospirare e lasciare che la seguisse. Per tutto il tragitto, Calum chiacchierò del più e del meno, riempiendo il grave silenzio che altrimenti li avrebbe accompagnati per un buon quarto d’ora. Stacey iniziò a pensare che sì, era assolutamente insopportabile… però le rendeva tutto il resto sopportabile.
Quando arrivarono a destinazione, Calum non fece nemmeno una domanda sul perché fossero lì. Non mostrò di stupirsi per come la sua compagna si orientasse bene all’interno della struttura, sorridendo al personale e a qualche avventore fortuito. Neanche nel momento in cui lei entrò in un ascensore e premette con sicurezza il pulsante 3, facendoli salire silenziosamente.
Arrivarono dinanzi alla porta della stanza numero 483 e Stacey bussò lievemente. Una vocina scandì “avanti” e lei abbassò la maniglia, facendo cigolare l’infisso.
«Come sta la principessina di casa Jones?» Domandò, sporgendo la testa color blu notte nella stanza di un asettico bianco e verdognolo.
«Cece!»
Erano arrivati in un ospedale. E la dolce bambina che stava sdraiata sul candido letto al centro della stanza stava sorridendo amabilmente alla ragazza. Le somigliava molto e dedusse che dovesse trattarsi di sua sorella. Lunghi capelli scuri che le ricadevano lisci sulle spalle, incorniciando il volto dai grandi occhi e le labbra scarlatte. Sembrava una bambola di porcellana, anche se indossava un anonimo pigiamino rosa a fiori.
Stacey si avvicinò a lei, abbracciandola piano, facendo attenzione a non urtare le flebo attaccate alle braccia della piccola. Ecco perché si era mossa con così tanta sicurezza, sapendo perfettamente dove andare. Calum si appoggiò allo stipite della porta, infilando le mani nelle tasche degli skinny.
«Quello è un tuo amico, Cece?» Chiese la piccola, accorgendosi della sua presenza. La giovane si voltò, e lo fissò per qualche istante. Poi, sorrise.
«Più o meno, Carol».
«E come si chiama?»
«Kiwi», rispose allora Calum, avvicinandosi al letto. La bambina piegò la testa di lato, alzando le sopracciglia.
«Perché?»
«Perché se ti tocco… ti faccio il solletico!» Esclamò, facendole un agguato che la piccola non si aspettava. Carol rise di gusto, sotto gli occhi sbalorditi della sorella maggiore.
In genere, con gli estranei era sempre timorosa e schiva. Invece eccola lì, che parlava con Calum e sorrideva, come se lo conoscesse da secoli.
«Cece, porta Kiwi qui più spesso! È tanto simpatico», disse la bimba, in un momento di silenzio. Gli sguardi di entrambi s’incontrarono, per un breve attimo. E sorrisero, gentilmente.


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Nota: secondo capitolo, stavolta su Calum! Devo ammettere che è stato inedito, creare un Hood con questo carattere. Anche se molto divertente. Soprattutto per quanto riguarda i commenti di Stacey. Ho dato fondo a buona parte del mio sarcasmo, per darle vita. Bene. Ci rimangono altri due capitoli e poi anche questa storia sarà conclusa! Ma, per adesso, non pensiamoci. Come già detto nel capitolo precedente, questa storia è leggera e senza alcuna pretesa: qualcosa di carino da leggere per distrarsi un po' in questi giorni di fine estate. Stasera sarò piuttosto breve, preferisco lasciare i commenti a voi! Ricordatevi che spessissimo non mordo, quindi non siate timidi! E vi ringrazio in anticipo per il tempo che le dedicherete!



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