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Autore: Akemichan    31/08/2015    3 recensioni
"Per gli Alleati e per la Germania, sarà il giorno più lungo." E. Rommel.
Il 6 Giugno 1944 è il giorno che ha cambiato le sorti della Seconda Guerra Mondiale, permettendo agli alleati di sbarcare in Francia ed iniziare la controffensiva contro la Germania. Tuttavia, è stato anche il giorno che ha cambiato le sorti di molti soldati presenti, sia i morti e i sopravvissuti.
Come Sabo, nobile francese, che si è ritrovato a fare i conti fra il suo sogno, la sua famiglia e un paese invaso da liberare. Come Ace, che è diviso tra il desiderio di vendicare un fratello e il dovere di proteggere l'altro, senza dimenticare la promessa che ha fatto ad entrambi. E assieme a loro le storie delle persone che amano, dal fratellino Rufy con il sogno di diventare campione olimpico a tutte quelle persone che hanno caratterizzato la loro vita fino a quel fatale 6 Giugno.
Questa è la loro storia, la storia di tutti loro.
1° Classificata al Contest "Just let me cry" indetto da Starhunter
2° Classificata al Contest "AU Contest" indetto da Emmastar
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Ace/Marco, Koala, Marco, Monkey D. Rufy, Sabo, Sabo/Koala, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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1956




 
 
Parigi, 1 Giugno
 
«Sono un po' teso» ammise Sabo a Jinbe, mentre si risistemava la cravatta.

«Avresti potuto chiedere a Koala di restare.»

«Ho detto che sono teso, non che ho bisogno di una baby-sitter» ribatté lui, scoccandogli un'occhiataccia. «E in ogni caso non potevo chiederle di saltare il lavoro per una cosa del genere.»

Jinbe accennò un sorriso. «Andrà tutto bene. Non c'è niente che non vada in questo accordo.»

«Lo spero.» Sapeva che il lavoro svolto da Jinbe fino a quel momento era stato esemplare, ma se erano dieci anni che stavano dietro a quella causa non era certo per colpa sua, ma per l'ostruzionismo della sua famiglia. La conosceva abbastanza da capire che il rischio che si opponessero anche questa volta era alto. Però voleva davvero concludere quella storia una volta per tutte.

Sentì il campanello: erano arrivati. Scese al piano di sotto per aprire la porta lui stesso. Non li vedeva da sedici lunghi anni e non si poteva dire che si fossero salutati nel migliore dei modi. «Benarrivati» disse, con un sorriso tirato.

Sia suo padre sia sua madre erano invecchiati, ma cercavano di non dimostrarlo vestendosi elegantemente e truccandosi. Parevano essere diventati la caricatura di loro stessi. Stelly era ora la copia di suo padre: più panciuto e più ostentato nel modo di vestirsi. In pratica, erano diventati degli estranei.

«Che bell'uomo che sei» commentò sua madre. Il tono era forzato, sembrava che l'avesse detto perché sentiva che era la cosa più educata da dire, non perché lo pensasse davvero. E a Sabo non era certo sfuggita l'occhiata che i tre avevano dato alla sua cicatrice: dal vivo faceva tutto un altro effetto.

«Grazie. Vi vedo bene» rispose comunque, per non iniziare la conversazione subito in maniera aggressiva. «Prego.» Gli fece cenno di entrare e poi chiuse la porta.

«Avresti almeno potuto farci introdurre da un cameriere» commentò suo padre, che si era diretto con passo sicuro verso il piano superiore senza nemmeno attenderlo.

«Qui non ci sono camerieri» fu la risposta.

I tre si fermarono permettendogli finalmente di superarli solo sulla soglia dello studio, sorpresi dalla presenza di Jinbe, già accomodato al tavolo con i documenti preparati ordinatamente davanti a lui. «Questo è il signor Jinbe, il mio avvocato» lo presentò Sabo. Fece cenno alla sua famiglia di accomodarsi. «Posso offrirvi qualcosa?»

«Del brandy, anche se non mi aspetto che la qualità sia eccellente» rispose Stelly. Stava portando indietro la sedia per sua madre e sembrava seccato dal dover eseguire anche quel semplice gesto. «Non ci avevi detto che avremo bisogno di un avvocato. Certo sarebbe stato scomodo farlo venire dall'America, com'è stato scomodo per noi.»

«Talmente scomodo che hai prenotato due settimane di vacanza in Italia. Tua moglie e i bambini sono già a Roma, no?» domandò Sabo con un sorriso furbo, mentre gli versava il liquore. «A proposito, congratulazioni, mi hanno detto che tua moglie è di nuovo in dolce attesa.»

«Come lo sai?» Stelly lo fissava sospettoso.

«Ho un sacco di amici che sanno un sacco di cose» rispose Sabo sul vago. Aveva imparato da Dragon che le informazioni erano tutto, ma era importante anche non far sapere agli altri dov'era possibile reperirle. «Comunque non c'è bisogno di avvocati, Jinbe è qui solo per certificare la regolarità dell'atto.» Appoggiò un bicchiere davanti a suo padre e Outlook annuì per fargli segno che poteva versare anche a lui. Non stava però nascondendo il disgusto che provava all'idea che suo figlio non usasse un dipendente per fare qualcosa di così manuale.

«Hai riverniciato e arredato» commentò infine.

«Per forza, io vivo qui» rispose Sabo. «E poi era ridotta male, è stata usata come deposito di armi per la resistenza per anni.» Aveva deciso che avrebbe cercato di fare più riferimenti alla guerra possibili.

«Non mi piace.»

“Pensa quanto me ne frega” fu il suo pensiero, ma non lo disse. Doveva cercare di essere paziente, speranzosamente dopo non avrebbe avuto più a che fare con loro. Quindi lasciò la bottiglia di liquore sul tavolo e si sedette vicino a Jinbe.

Quest'ultimo allungò una copia del contratto verso di loro. «È come avevamo stabilito l'ultima volta» spiegò. «La casa di Parigi e lo Château d'Ô restano di proprietà del mio cliente, che né adesso né in futuro potrà vantare pretese su qualsiasi altra parte del vostro patrimonio.»

Stelly si impadronì della copia. Estrasse una lente d'ingrandimento e poi iniziò a leggerla con cura, come se si aspettasse che avessero inserito qualche cavillo minuscolo tra una lettera e l'altra. Outlook lo lasciò fare. Senza aggiungere una parola si alzò e cominciò a camminare a passi lenti nello studio, osservando ogni minima cosa con attenzione.

Sabo gli scoccò un'occhiata, ma cercò di non farsi innervosire da quell'atteggiamento. Suo padre l'avrebbe giudicato a priori, perché era quello che aveva sempre fatto. Lo studio era stato arredato con attenzione e l'aveva fatto cercando di rappresentare se stesso ed un luogo dove gli piaceva lavorare. Voleva che fosse accogliente. La cosa che gli piaceva di più erano i quadri che aveva scelto: tutte foto estremamente famose di Ace, che lui gli aveva firmato e regalato senza nemmeno chiedere un compenso. Ovviamente, erano le cose che Outlook aveva guardato con più disgusto.

«Mi pare che sia tutto regolare» affermò Stelly al termine della sua lettura. La voce aveva un tono sorpreso, come se si fosse davvero aspettato un qualche tipo di inganno. «Possiamo firmare senza problemi.»

Sabo prese la sua penna, per indicare che era pronto a farlo anche immediatamente, per primo.

«No» disse suo padre, che si era fermato davanti alla scrivania e gli dava le spalle.

Lui alzò gli occhi al cielo. «Qual è il problema, questa volta?»

«Cosa hai intenzione di fare con queste case?»

«Viverci?» Non capiva il senso di quella domanda. In realtà era qualcosa che faceva già da anni: quando aveva deciso di rimanere a Parigi per entrare in politica quell'appartamento era stata la soluzione più facile, era della sua famiglia e nessuno poteva reclamarlo, tranne le persone davanti a lui, che però abitavano negli Stati Uniti e parevano non essere interessati alla Francia.

«Da quello che vedo potresti vivere da qualsiasi parte, sembri fuori posto qui» commentò Stelly divertito.

«Già, è vero, in fondo sono io quello che alla prima avvisaglia di pericolo ha preso tutto quello che aveva e si è trasferito in America ignorando il proprio paese in guerra per farsi una nuova vita.» Si fermò un attimo, come se si fosse improvvisamente ricordato di una cosa. «Ah, no, è vero, siete stati voi.» Riservò a Stelly un sorriso conciliante. «Se non avessimo vinto la guerra probabilmente queste case sarebbero state sequestrate dai tedeschi, come qualsiasi altra cosa. E dato che non avete nemmeno contribuito un po' alla vittoria...» Allargò le braccia per indicare che la conclusione era ovvia.

Stelly era sul punto di protestare, ma Sabo alzò un dito per fermarlo. «Non ci provare: lo so che avete continuato a fare affari con i tedeschi fino a Pearl Harbor. Quello deve avervi dato davvero fastidio.»

«Ho ereditato queste case da mio padre» commentò Outlook. «E lui da suo padre. Non avrei problemi a lasciarle a mio figlio, naturalmente» gli scoccò una lunga occhiata penetrante, «se facesse ancora parte della famiglia.»

Stelly afferrò di scatto la penna, quasi strappandola dalle mani di Sabo e firmò i fogli con foga. «Non abbiamo bisogno di lui, padre. Non l'abbiamo mai avuto. Hai detto che sono un fantastico vice-presidente.»

«Non ho alcun interesse ad entrare nei vostri affari.» Sabo fissò quello scarabocchio blu con soddisfazione, poi appose la sua firma con calma.

«Penso che potremo esserci utili a vicenda» rispose Outlook. «Sei un politico e i politici hanno bisogno dell'approvazione delle aziende e magari anche di soldi per le campagne elettorali.»

«E naturalmente le aziende hanno bisogno di leggi ad hoc.» Sabo fece un sorriso e scosse la testa. «Non sono in politica per quello.»

Outlook tentò di cambiare approccio. Prese la foto che era sulla scrivania: anche quella di Ace, ma non di quelle famose. Raffigurava lui e Koala sulla riva della Senna, con i loro due bambini. L'avevano scattata l'anno prima, durante l'estate. «Tua moglie?» Il tono era affettato. Sapeva bene che per lui, così com'era stato per Stelly, avrebbe voluto un matrimonio politico e non con un'illustre sconosciuta.

«No.»

«Che vuol dire no?» Outlook pareva essere preso in contropiede per la prima volta.

«Non siamo sposati» spiegò allora Sabo, con pazienza. «Abbiamo due religioni diverse e non volevamo scendere a compromessi per accontentare l'altro, avrebbe rovinato il nostro rapporto.»

«Avresti dovuto convincerla a convertirsi.»

«A parte che non avrei mai potuto farlo, non ne avevo il minimo interesse.»

«Ma è la madre dei tuoi figli!» Sua madre pareva scandalizzata e aveva totalmente perso la sua compostezza. «Cosa dirà la gente!»

«Danno tutti per scontato che ci siamo sposati durante la guerra e che il certificato sia andato perso nei bombardamenti» rispose Sabo. «Non ci siamo mai preoccupati di correggerli. E francamente non ce n'è mai importato niente.» La vide impallidire e rimanere ancora più sconvolta, fino ad allungare la mano per prendere il bicchiere ancora pieno del marito e berlo tutto d'un fiato.

«Ti rovinerà la carriera» esclamò Stelly. «Oh, se te la rovinerà. Non voglio niente di mio associato a una cosa così scandalosa.»

«Be', allora la cosa migliore è che tu non dica nulla» commentò gentilmente una voce alle sue spalle.

Sabo aveva alzato lo sguardo verso la soglia e poi aveva allargato le labbra in un ampio sorriso nel vedere Ace. Adesso si sentiva veramente rilassato. «Quando sei arrivato?»

«Poco fa, l'aereo era in ritardo.» Poi fissò nuovamente Stelly. «Anche perché non sarebbe bello andare a dire in giro i segreti degli altri, no? Insomma, pensa che brutto sarebbe se qualcuno dicesse ai giornali di certe transazioni non proprio legali delle tue aziende.» Se ne intendeva di queste cose, dato che il suo vecchio commilitone Law aveva un patrigno che controllava una buona parte della malavita della costa est.

Con Sabo, Stelly aveva sempre tenuto un atteggiamento di superiorità. Di fronte ad Ace, i suoi occhi esprimevano solamente odio, forse perché una volta aveva sperato di essersi vendicato e di aver raggiunto il successo prima di lui, ma adesso Ace era un eroe di guerra e un fotografo famoso, decisamente più apprezzato di un vice-presidente che era in quella posizione per diritto ereditario. «Come sei entrato? Questa è una riunione privata!»

«Ho le chiavi» rispose Ace alzando le spalle. Trovava la domanda particolarmente stupida e non lo nascondeva di certo.

«Hai dato le chiavi di casa nostra ad un estraneo?!» Si era voltato nuovamente verso Sabo e lo fissava scandalizzato.

«Ho dato le chiavi di casa mia a mio fratello» lo corresse gentilmente Sabo. «Non ci vedo nulla di strano.»  Si alzò e si avvicinò a Ace, che nel frattempo  era entrato nello studio, per  abbracciarlo. Non si vedevano da qualche mese, dato che lui era stato impegnato per un servizio fotografico in Italia, in occasione dell'inizio dei lavori per la nuova autostrada.

«Resto solo fino all'inaugurazione, poi devo partire per la Svezia per le Olimpiadi» gli disse. «Spero di riuscire a tornare presto, però. Com'è la situazione?»

«Ci sono stato una settimana fa, era già tutto pronto» rispose Sabo. «Sarà una bella cerimonia e il posto è splendido. Certo, resta un cimitero, ma almeno è curato.»

Avevano iniziato a parlare come se fossero soli nella stanza e questo ovviamente irritò Stelly oltre misura. «Non è tuo fratello! Non ha alcun diritto su questa casa!»

Sabo alzò gli occhi al cielo, chiaramente seccato da quell'interruzione. «In realtà ne ha più di voi, ma soprassediamo» rispose. Aveva deciso che aveva esaurito la sua pazienza e la presenza di Ace gli dava più forza. «Mi avete chiesto perché voglio tanto queste case. Bene, il primo motivo è perché me le sono guadagnate.»

Accennò un'occhiata ad uno dei quadri, che raffiguravano un edificio crollato nel centro di Brest, in cui si potevano vedere ancora gli interni a metà delle case. «Io ho protetto la Francia e quello che ne è conseguito mentre voi eravate al caldo e al sicuro.»

Allungò il braccio per indicare la sala al di là dello studio. «Io e Koala abbiamo fatto l'amore per la prima volta là, per terra, su delle coperte sporche, il giorno dopo la liberazione di Parigi. A Château d'Ô ci abbiamo vissuto, quando ci nascondevamo dai tedeschi assieme al resto della resistenza ebrea. Queste case sono mie. I miei figli ci vivranno sapendo che cos'è la guerra e perché bisogna impedire che accada di nuovo.»

Ace mosse leggermente le labbra in un sorriso ironico. «Tu al massimo potresti usarle per insegnare ai tuoi figli come si riesce a non cadere nel lago. Anzi, no. Non ne sei mai stato capace.»

«Fosse per me avrei anche evitato di contattarvi dopo la guerra, ma c'è un altro motivo per cui l'ho fatto.» Sabo fece un sorriso soddisfatto in direzione di Ace e poi terminò: «Per farvi incazzare».

Tornò vicino al tavolino, prese i fogli del contratto e le penne e le pose sulla scrivania, vicino a suo padre che non si era mosso, né aveva appoggiato la foto che teneva ancora in mano. «Questa è la miglior offerta che potrete avere, oppure cercherò con ogni sistema di prendermi la parte dell'eredità che mi spetta al solo scopo di darvi fastidio.»

«Papà, firma.» Quello di Stelly era quasi un ordine. «Te ne pentirai, il giorno in cui ti serviranno soldi. Ed io non ti darò nemmeno un centesimo.»

Sabo gli rivolse un sorriso condiscendente. «Ho vissuto per sei anni a carne cruda e rape, credimi quando ti dico che non me ne faccio nulla dei tuoi soldi.»

«E poi probabilmente farà fallire l'azienda alla prima occasione» aggiunse Ace divertito.

«Non ho bisogno nemmeno di voi come famiglia, ne ho già una.» Sabo tornò a rivolgersi a suo padre. «Ho mio fratello.» Indicò Ace, che rispose con un sorriso soddisfatto. «Ho Koala e i nostri due figli, che voglio tenere il più lontano possibile da voi. Ho mio nipote, il figlio dell'altro mio fratello, con sua madre. Ah, c'è anche il suo nuovo marito con la loro figlia. Ti ho accennato al fatto che è di colore e che sta lavorando con Martin Luther King?»

Ace si stava trattenendo a malapena dal ridere. Il viso dell'intera famiglia Outlook era una maschera a metà fra il disgusto e l'incredulo, laddove Sabo non era mai apparso più soddisfatto. E poi c'era Jinbe, che faceva davvero fatica a mantenersi serio. Alla fine prese un sospiro profondo.

«Quindi hai in famiglia due figli illegittimi fuori dal matrimonio, per di più con un'ebrea, e una coppia interrazziale con due bambini da due padri differenti.»

«E un fratello omosessuale» aggiunse Ace. «Vuoi farmi passare per l'unico normale?»

«Giusto» annuì Jinbe. Aveva un atteggiamento serio, ma era chiaramente divertito. «Ditemi se non è la famiglia migliore con cui io abbia avuto a che fare.» E lo pensava davvero, l'aveva pensato da quando aveva visto Sabo e Koala stringersi la mano il giorno della liberazione di Parigi. Certo, erano poco convenzionali, scandalosi anche, e rappresentavano tutto ciò che la società stava rifiutando.

Erano il futuro così come avrebbe dovuto essere.

Outlook sbatté a terra la foto con forza, distruggendone il vetro, quindi afferrò i fogli e li firmò con una foga da quasi bucare la carta. Prese la sua copia. «Andiamo.» Lasciò la stanza a grandi passi, immediatamente seguito dagli altri due, senza che nessuno si preoccupasse di salutare.

Ace si avvicinò alla scrivania. Sabo aveva aspettato che la sua famiglia uscisse prima di accasciarsi leggermente e tremare. «Tutto bene?»

«Ho salutato per l'ultima volta molte persone negli scorsi anni e sono morto dentro ogni volta.» Poi alzò lo sguardo: sorrideva e gli occhi gli brillavano. «È la prima volta, finalmente, che sono contento di averlo fatto.»
 
 
 
Colleville-sur-Mer, 6 Giugno
 
Non gli avevano detto che avrebbe dovuto tenere un piccolo discorso, il che non rendeva le cose semplici perché non si era preparato nulla da dire. Aveva quasi pensato che fosse un tentativo di metterlo in imbarazzo davanti al mondo intero, ma poi aveva capito che era un modo per riconoscere il suo impegno nella costruzione di quel cimitero.

Guardò la folla davanti a sé e poi la fila di lapidi bianche a forma di croce o di stella che si perdevano in lontananza, chiaramente visibili sul perfetto prato verde.

«Non ho preparato un discorso perché nessuno mi aveva detto che dovevo farlo» cominciò, dopo aver preso un lungo sospiro. «Normalmente siamo più organizzati, giuro. Se dirò qualche strafalcione perdonatemi e fate finta di niente. Parlo soprattutto di quella giornalista là con i capelli rossi che sicuramente scriverà tutto.»

Nami gli scoccò un'occhiata di fuoco, prima di tornare a concentrarsi sul suo blocco appunti, mentre tutti si fissavano a guardarla, chiedendosi se non fosse una persona famosa. «Taci e prosegui!»

Sabo pensò che difficilmente avrebbe potuto continuare il discorso se doveva stare zitto, per cui si limitò a sorridere appena. «Qualunque cosa potrei dire riguardo a questo luogo sarebbe banale e ridondante ed altre persone l'hanno già fatto prima di me» proseguì. «Quindi parlerò di me personalmente. A Omaha Beach ho perso un fratello. Non era davvero mio fratello, ma lo consideravo tale. Ora è sepolto qui assieme a tutti gli altri.» Fece una pausa per lasciare che ognuna delle persone davanti a sé si ricordasse dei propri defunti. «Mio fratello si era arruolato per venire ad aiutare me, in Francia, e per questo motivo ha perso la vita. È una cosa che non potrò mai perdonare a me stesso.» Lo sguardo si spostò sulle vere celebrità di quella festa, il presidente francese Pompidou e il presidente americano Eisenhower. «Anche se non ero stato io a voler entrare in guerra, mi ci ero solo ritrovato. È anche per questo che sono entrato in politica: per evitare che qualcun altro possa provare lo stesso senso di colpa che sto provando io.» Alzò la voce. «Ed è per questo che volevo qui questo cimitero: per ricordarci delle vite che sono state date per la salvezza di altri e per ricordarci costantemente che siamo in debito con loro. E che l'unico modo per ricambiare è non farlo accadere ad altri.»

«È stato un bel discorso» gli disse Ace, una volta che Sabo l'ebbe raggiunto, alla fine della cerimonia d'inaugurazione, davanti alla tomba di Rufy. Non era più una semplice croce di legno, ma in marmo perfettamente scolpita, con la data della morte e l'appartenenza alla 29° Divisione ben in vista sotto il suo nome.

«Non so, alla fine mi pare di aver detto le banalità che volevo evitare.» Sabo però non aveva saputo cos'altro dire, se non la verità. Non si sarebbe mai perdonato la morte di Rufy, né l'avrebbe mai potuta dimenticare pur andando avanti con la propria vita. Poteva solo cercare di proteggere gli altri da un destino che conosceva come tremendo.

«Però è stato divertente, sembrava qualcosa che Rufy avrebbe potuto tirare fuori» rise Ace.

«L'idea era quella.»

Ai piedi delle croci erano stati deposti molti fiori, da tutti i parenti che erano riusciti ad essere presenti per l'inaugurazione, ma forse quella di Rufy era una delle più decorate. Ace ne aveva approfittato per rivedere dei vecchi commilitoni, tra cui anche dei Colonnelli venuti per l'ultimo saluto a Marco e a Newgate.

«Come ti senti?» gli chiese quindi Sabo. Era l'unico che era rimasto da solo, fedele al suo lavoro come fotografo, che non gli permetteva di sistemarsi in un solo luogo, e alla famiglia che Sabo e Rufy avevano creato.

«Non riuscirò mai a capire ed accettare di essere sopravvissuto, rispetto ad altri» ammise. «Però ci posso convivere.»

«Zio Ace! Zio Sabo!» Junior era cresciuto e a dodici anni assomigliava davvero molto a suo padre, anche se certe espressioni e la furbizia negli occhi erano di Nami. Dietro di lui si scapicollavano i due figli di Sabo, che avevano rispettivamente dieci e sette anni. «È vero che una volta siete stati rapiti e papà vi ha salvato?»

«Allora, innanzitutto è stato lui che si è fatto rapire per primo e noi siamo dovuti andarlo a cercare» precisò Ace, facendo un gesto con la mano che indicava che non avrebbe mai accettato una spiegazione dei fatti diversa da quella.

«Ma poi è stato papà che ha tirato fuori tutti dai guai, no?» incalzò Junior.

Sabo annuì. «In effetti sì, è stato lui a chiamare aiuto e a farci ritrovare.»

«Ve l'avevo detto!» esultò Junior, riferendosi agli altri due. «Mamma, avevo ragione io!»

«Se non si fosse fatto rapire lui per primo, non ci sarebbe stato bisogno di salvarci!» esclamò Ace, ma era troppo tardi perché i tre bambini erano già corsi via. Sabo rise, mentre li seguiva con lo sguardo. Nami e Koala lavoravano assieme da qualche anno per ritrovare i dispersi degli altri eserciti, non più solo gli ebrei, ed erano quindi impegnate in una fitta conversazione. Usop era  separato da loro, a parlare con gli altri soldati sopravvissuti del suo battaglione e a presentare a tutti la figlia di cinque anni, di cui andava orgogliosissimo e di cui raccontava molte più cose di quelle vere.

A Sabo tornò in mente l'espressione sconvolta di suo padre quando gli aveva descritto la sua famiglia, ma lui non avrebbe potuto chiedere niente di meglio. «Chi ha dato a Junior il cappello di paglia?»

«Il vecchio, l'ha trovato in camera di Rufy e ha pensato che fosse un regalo simpatico.» Per Ace era davvero difficile vederglielo indosso: adorava suo nipote, ma doveva continuamente ricordarsi che non era un sostituto del fratello.

«Hai mai avuto occasione di incontrare Shanks? Rufy ne parlava continuamente.»

Ace annuì. «Mi ha detto che era certo che Rufy sarebbe riuscito a rispettare la promessa che gli aveva fatto, per cui per lui andava bene così.»

Sabo pensò che comunque non c'erano particolari alternative e l'accettazione della perdita era l'unica cosa possibile. Forse Shanks era comunque orgoglioso di aver salvato un uomo che era diventato un eroe. Quindi rimase stupefatto quando Ace affermò: «Io invece penso finalmente di essere riuscito a mantenere la mia».

«Come?» Non sarebbe mai stato possibile fotografare Rufy sul podio olimpico.

«Be', ovviamente non è la stessa cosa» precisò immediatamente Ace. Aveva pensato per anni, mentre continuava a fare il fotografo, a come poter pareggiare i conti con Rufy. «Però penso di aver trovato qualcosa che vada bene lo stesso. Qualcosa che ha a che fare con una foto e con Rufy.»

Sabo lo guardò seccato. «Avanti, spara, mi stai facendo morire di curiosità.»

«Non è stato ancora annunciato, ma una mia fotografia ha vinto il premio della World Press Photo.»

«Davvero?» Era stato istituto da solamente due anni, ma era composto dai massimi esperti di fotografia al mondo ed era praticamente un marchio di qualità. «È fantastico!»

Ace frugò nel suo zaino e ne estrasse un pacchetto: la dimensione e la forma davano chiaramente l'idea che si trattasse di un portafoto. «Volevo che fosse questa foto a vincere, perché era l'unico modo per mantenere la promessa.»

«Hai fatto una copia anche per me?» capì Sabo, vedendo che gli stava porgendo il pacchetto.

«Certo. Tra tutte le mie, questa è quella che sicuramente devi avere.»

Sabo la aprì con mano tremante, perché si rendeva conto che si trattava di una foto molto importante. Rimase sorpreso quando la vide e per un attimo rischiò di farla cadere: raffigurava lui stesso, visto di spalle, sulla spiaggia di Omaha Beach, il giorno in cui si erano ritrovati per caso. Si era quasi dimenticato dell'esistenza di quell'immagine, perché Ace non gliel'aveva mai mostrata prima di allora, né l'aveva mai fatta esporre nelle sue mostre.

«È questa la foto che ha vinto il premio?» domandò, con voce tremante. Aveva la gola completamente bloccata. «La foto della promessa?» Non era giusto: quella foto avrebbe dovuto rappresentare Rufy, non lui.

«Sì, è l'unica adatta» annuì Ace. «Una mia foto. A mio fratello. Sulla spiaggia dove è morto l'altro mio fratello.» Non lo disse perché sentì che gli stavano venendo le lacrime agli occhi, ma quella fotografia rappresentava qualcosa di importante: non solo la perdita, ma anche la gioia di aver ritrovato quello che considerava perso per sempre. «Credi che vada bene?»

Sabo non sapeva se avrebbe ritrovato la voce per parlare, perciò si limitò a fissare l'immagine finché non sentì le labbra smettere di tremargli. «Credo che vada benissimo» affermò. «Essere su quella spiaggia, occuparmi di questo cimitero... Era un modo per salutarlo un'ultima volta, perché non c'ero riuscito di persona» ammise.

Nemmeno Ace aveva potuto farlo, perché era arrivato con due giorni di ritardo. «Ora è l'ultimo saluto anche per me.»

Si sedettero sull'erba perfettamente tagliata ed appoggiarono la foto contro la croce bianca, sopra i fiori di tutti i colori, e rimasero in silenzio finché gli altri non vennero a chiamarli. Allora si alzarono e si lasciarono la lapide alle spalle.

 
Fine
 
Akemichan parla senza coerenza:
Eh sì, alla fine siamo arrivati in fondo a questa storia. Devo dire di essere la prima a dispiacersene, perché è una storia a cui sono molto affezionata, che ho scritto con il cuore, su cui ho pianto e ho sudato per recuperare tutte le informazioni e di cui in generale sono molto soddisfatta, cosa che mi capita raramente. Mentre la pubblicavo mi sono venute in mente mille altre sottotrame che avrei potuto inserire, e chissà che un giorno non decida di riprenderci mano e allungarla, ma per ora questa è davvero la fine.
Il banner che vedete qui è di Starhunter, per il suo contest a cui ho partecipato con la storyline di Marco e Ace dell'anno 1944; l'ho adorato e ho voluto metterlo qui come cover conclusiva dell'ultimo capitolo. Che spero vi sia piaciuto e che rappresenti una degna conclusione per questa storia.
Devo ringraziare sicuramente Emmastar, perché non so se sarei riuscita a trovare lo stimolo giusto per scriverla senza il suo contest. Poi voglio ringraziare _Lady di Inchiostro_ che in pratica mi ha recensito ogni capitolo rendendomi felicissima con i suoi commenti; fightformanga1 che da quando ha scoperto la storia non ha mai mancato un capitolo ed è sempre stata puntualissima nel commentarmi; fenicerossa_00 che è stata la prima a commentare quando questa storia ancora non se la filava nessuno; sarathepooh, che è stata l'ultima arrivata ma mi ha commentato sempre; Kuruccha che ha iniziato a recuperare i capitoli pian piano commentandoli tutti; LysL_97 e Out_Jean che mi hanno lasciato commenti sparsi ma sempre graditi.
Spero di non aver dimenticato nessuno! Davvero, grazie a tutti per i commenti che mi avete lasciato, sono stata felicissima di riceverli e di poter continuare a pubblicare la storia per voi. Spero che la conclusione vi abbia soddisfatto :) E grazie anche a tutti quelli che hanno seguito silenziosamente tutti i capitoli. Lasciatemi un commento, se vi va, ma in ogni caso grazie anche solo per averla letta.
Ci rivediamo alla prossima con un'altra storia. Come al solito, potete trovarmi su blog, facebook, twitter, tumblr e ask. A presto! :)

 
 
 
   
 
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