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Autore: Roof_s    02/09/2015    2 recensioni
“Quindi voi due vi conoscete abbastanza bene!”
Sia io sia Catherine la guardammo, nuovamente a corto di scuse.
“No, non ci conoscevamo davvero” fece Catherine. “Harry ha... solo...”
“Ho suonato a casa sua” dissi.
Catherine mi lanciò un'occhiatina scocciata.
“Sì, ma solo per...”
“Aspetta un secondo” intervenne mia sorella. "Lei è la ragazza che ha organizzato la festa dove avete suonato tu e gli altri?”
Questa volta Catherine non si sforzò nemmeno di nascondere la propria espressione allibita.
“Ehm... Già, è lei” ammisi.
“Già, sono io” ridacchiò Catherine, imbarazzata.
Gemma rise. “Ora mi ricordo! Ma mi avevi detto che tra di voi non scorreva buon sangue, Harry!”
Con la scusa di voler mostrare una finta affinità tra noi due, Catherine mi rifilò un colpo al braccio che le riuscì straordinariamente violento.
“Ma non è affatto vero!” esclamò, fingendosi divertita.
“Oh, forse avevo capito male quando mi avevi detto che ero un insignific...”
Mi sentii pestare il piede con forza sotto il tavolo e le parole mi morirono in bocca. Catherine scoppiò a ridere e riprese a parlare: “Sono molto grata a Harry per aver accettato di suonare a casa mia con i suoi amici”.
“Sì, molto grata...” borbottai.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chi sei?


Harry


 
Odiavo la pioggia. E odiavo la pioggia in autunno. E odiavo la pioggia in autunno durante i tragitti verso scuola. Se però a tutto ciò si aggiungeva l'inizio di un nuovo anno scolastico, l'odio aumentava in modo spropositato.
Esattamente come quella mattinata.
Chiusi il grande ombrello blu scuro che avevo sottratto all'ultimo minuto a mia madre prima di incamminarmi verso scuola e lanciai un'occhiataccia torva all'ingresso dell'edificio grigio davanti a me.
Ci risiamo, pensai mestamente.
Era finalmente giunto il mio ultimo anno di liceo, anche se l'atmosfera era tutto fuorché rilassata e gioiosa: affrontare quattro anni alla Holmes Chapel Comprehensive School aveva richiesto una grande resistenza fisica e mentale.
Varcai la soglia assieme a svariati gruppi di studenti intenti a raccontare le proprie avventure estive e accelerai il passo per evitare di restare intrappolato nel solito caos da nuovo inizio. La mia classe era sempre la stessa: primo corridoio a sinistra, terza porta bianca. Ampia stanza dalle pareti imbiancate malamente e il soffitto smisuratamente alto, che impediva ai termosifoni di riscaldare in modo adeguato tutta l'aula. Mi cercai un posto libero nella prima fila, lasciando cadere lo zaino ai piedi del mio banco e lanciando un'occhiata furtiva alle mie spalle: la maggior parte dei posti era già stata occupata e nessuno sembrava aver fatto caso al mio arrivo.
Come sempre.
Sospirai, allungai un gomito sulla superficie immacolata del mio nuovo banco e poggiai il mento nel palmo della mano.
Nuovo anno, stessa storia. Ma d'altronde, cos'altro avrei potuto aspettarmi? Avevo convissuto per quattro lunghi anni con la desolante indifferenza dei miei compagni di classe, non mi sarei dovuto stupire del fatto che anche quel giorno nessuno mi avesse visto camminare e prendere posto in prima fila.
Almeno riuscirò a concentrarmi al meglio in vista degli esami, pensai con aria avvilita.



Uscii dalla classe il più in fretta possibile e mi diressi verso la macchinetta delle bevande calde. Infilai le monete, premetti il bottone che cercavo e attesi, mentre la gente sfilava alle mie spalle parlando a voce alta. Potevo sentire chiaramente racconti inerenti le prime lezioni di quel nuovo anno scolastico così come i dettagli minuziosi di appassionanti amori nati in splendide spiagge lontane nel tempo e nello spazio.
Mi allontanai dalle macchinette, attorno alle quali il traffico si stava facendo intenso e insopportabile, e intravidi all'istante i volti che stavo cercando con ansia fin dalla fine della lezione.
“Harry!” esclamò un ragazzo dai capelli biondi e lunghi con tanto di frangia spessa a coprirgli la fronte, Haydn.
Superai tre ragazze che non parvero nemmeno fare caso al fatto che per poco non avevo rovesciato il mio caffè sulle loro magliette attillate e raggiunsi i tre ragazzi dall'aria spaesata che mi aspettavano addossati a un muro.
“Ciao, ragazzi” salutai. “Come state?”
Non avevo più visto nessuno dei miei tre migliori amici per tutto il mese di agosto: Haydn era stato in Scozia dai suoi zii; Will aveva partecipato a un campo estivo come animatore, attività che gli aveva portato via praticamente tutto il tempo a disposizione; Nick, invece, si era concesso una lunga e piacevole vacanza in compagnia di Elisabeth, la sua fidanzata. E io ero rimasto solo a Holmes Chapel, mentre i miei pochi amici pubblicavano fotografie degli splendidi posti che visitavano.
Nick mi diede il cinque e sorrise. “Alla grande! Iniziavamo a preoccuparci per te, eri sparito dalla circolazione”.
Scossi il capo e sbuffai. “Sono rimasto tutta l'estate qui, non sapete che divertimento... Io, mia mamma e i vicini che innaffiavano il prato alle tre di notte”.
Will ridacchiò a quelle parole, anche se non poteva nemmeno lontanamente immaginare quanto in realtà avessi patito la solitudine e la distanza dalle poche persone con cui riuscivo a sentirmi me stesso.
“In ogni caso, ora che siamo di nuovo tutti qui dobbiamo riprendere i lavori da dove li abbiamo lasciati” proseguì Haydn con fare pragmatico.
Annuii convinto. “Non vedevo l'ora che lo dicessi”.
Haydn mi graziò con un sorriso luminoso e Will disse: “Io ho avuto poco tempo per la band, ma sono pronto a ricominciare anche oggi”.
“Già, quando intendiamo riprendere le prove, Haydn?” chiese Nick, curioso.
Haydn si guardò attorno, come se la risposta potesse piombare dal cielo.
Il nostro gruppo era nato proprio grazie a lui, tre anni prima. Io e Haydn eravamo grandi amici fin dai tempi delle scuole elementari, e avevamo sempre condiviso una passione sfrenata per la musica. Quando poi lui aveva iniziato a suonare la chitarra e a comporre pezzi tutti suoi, l'idea di fondare una band era stata quasi scontata.
Rigirai ancora lo zucchero nel bicchierino del caffè, dopodiché gettai via il bastoncino di plastica, ancora in attesa della risposta di Haydn. Quest'ultimo ricominciò a parlare con voce ferma: “Quest'anno ho intenzione di dare una scossa al nostro...”
Haydn non riuscì a terminare la frase perché proprio in quel momento da dietro l'angolo comparve una studentessa alta, dal corpo ben modellato e la carnagione olivastra che risaltava sorprendentemente in mezzo ai coloriti spenti delle altre ragazze lì attorno. Più di una testa si voltò al suo passaggio, e non si trattava solo di ragazzi.
Catherine Alexandra Cavendish aveva la straordinaria capacità di ipnotizzare chiunque la osservasse a distanza di pochi metri: alta abbastanza da spiccare in mezzo alle compagne, il seno sodo che attirava sempre parecchie occhiate, le gambe snelle e perfette per qualsiasi passerella d'alta moda e uno splendido paio di occhi verdi dal magnetismo incredibile. E la sua fortuna non finiva qua, perché Catherine era anche una delle ragazze più ricche della zona, cosa che non finiva mai di esibire regalando feste incredibili in una delle sue tante ville in stile barocco, poco distante dal centro di Holmes Chapel. Ovviamente nessuno di noi si era mai azzardato a farsi vedere in tali occasioni, siccome per lei sembravamo non esistere proprio. Ma se io almeno avevo avuto l'accortezza di non perdere la testa per quella che sembrava la ragazza perfetta uscita dal mondo dei sogni, lo stesso non si poteva dire di Haydn, il quale si era preso una terribile cotta per Catherine molti anni prima. La storia era sempre quella: lui ammutoliva davanti all'immagine di quella specie di dea scesa in terra, che naturalmente non lo conosceva e avrebbe piacevolmente evitato qualsiasi situazione nella quale fosse stata in obbligo di stringergli la mano.
Will rise e io non potei fare a meno di provare pena per il mio migliore amico, intrappolato in una prigione dalla quale non vedeva via di fuga. Haydn, come risvegliandosi da un brutto sogno, tornò a guardare nella nostra direzione e assunse improvvisamente un'aria amareggiata.
“Qual è il nuovo flirt di inizio anno?” domandò Nick con fare provocatorio.
Haydn gli scoccò un'occhiata depressa. “Non lo so”.
“Non avrà ancora avuto tempo di mostrare il suo nuovo cagnolino in pubblico. Aspettiamo domani” ridacchiò Will in tutta risposta.
Sospirai. “Ragazzi, concentriamoci sulla band”.
Haydn annuì, per niente felice. “Quest'anno rivoluzioneremo il nostro repertorio. Vi voglio pronti a schiacciare qualunque band rivale e a dare il massimo”.
“Sarà forse la volta buona?” domandò Nick.
“Per che cosa?” chiesi io.
“Per farci finalmente notare da Catherine” replicò lui, sghignazzando di nuovo.
“Oh, basta!” sbottai a quel punto; tutti si zittirono e fissarono i propri sguardi sul mio volto serio. “Ragazzi, Haydn ha ragione. Lavoriamo sodo per noi stessi e solo dopo penseremo al parere degli altri. La band vale più di una ragazzetta snob qualunque, giusto?”, e guardai in direzione di Haydn.
Lui annuì, seppur mantenendo quella strana espressione di pura infelicità. Potevo capirlo, ma avrei fatto di tutto per evitare che quella situazione degenerasse. Mancava un solo, fatidico anno alla fine di quell'inferno, fatto di solitudine e incertezze. Haydn ed io avremmo potuto uscire a testa alta dal liceo, ma la scelta toccava solo a noi.
“E per quanto riguarda le prove col gruppo” ripresi a parlare, prima che la campanella che segnava la fine della pausa suonasse, “io direi che si potrebbe già iniziare a lavorare da domani o dopodomani. Che ne pensate?”
Sui volti magri di Nick e Will comparvero due enormi sorrisi di sfida.



La verità era che nemmeno io ero troppo entusiasta alla prospettiva di un altro anno nella Holmes Chapel Comprehensive School. Avevo risollevato il morale a Haydn, perché sapevo perfettamente come si sentiva, ma non ero sicuro di essere stato sincero al cento per cento.
Mi sentivo più solo che mai, e le dispute con mia madre a proposito del mio futuro si facevano sempre più serie. Avevo trascorso l'intera estate a fare la spola dalla camera da letto al salotto nel tentativo di trovare un'idea, ma non ce n'erano state di particolarmente significative. Non volevo studiare legge, non mi interessava capire il corpo umano e operare pazienti, non avevo alcuna intenzione di studiare altre lingue che non fossero la mia e la prospettiva di aprire un libro di economia mi toglieva il sorriso. Che cosa avrei potuto fare della mia già inutile esistenza?
Per fortuna c'era la band, e c'erano Haydn, Will e Nick, che capivano il mio stato d'animo e condividevano i miei stessi sogni. La musica era tutto ciò che mi rimaneva, l'unico modo grazie al quale ero riuscito a sopravvivere agli anni infelici del liceo. Volevo cantare, volevo produrre la mia musica e farla conoscere al mondo intero, volevo vivere di canzoni e di note. Ma non mi andava l'idea di poterlo fare solo dopo altri lunghi anni di studi universitari su libri inconcludenti e accompagnato da freddi insegnanti interessati solo al proprio stipendio.
Mia madre insisteva nel dire che le mie erano opinioni fasulle, del tutto condizionate dalla poca voglia che avevo di studiare, e non perdeva nessuna occasione per sbattermi in faccia i successi accademici di mia sorella Gemma, che al contrario di me era una studentessa formidabile.
Infilai le chiavi nella serratura del cancello della modesta villetta a schiera nella quale abitavo assieme alle donne della mia vita, spinsi in avanti e attraversai il giardino frontale. Entrai in casa accolto dall'invitante profumo di carne cotta al forno, mentre la voce di mia madre riempiva il soggiorno.
“... no, certo che no... Be', sì, è ovvio... Ma certo, sai che lo farei in ogni caso... D'accordo, d'accordo, gliene parlerò...”
Mi affacciai dall'entrata della cucina e la intravidi appoggiata al ripiano della cucina, col telefono attaccato all'orecchio e lo sguardo puntato sul pavimento lucido.
“Ciao, ma'!” salutai stancamente.
Lei alzò di colpo gli occhi e mi sorrise. “Ciao, tesoro. Tra poco la cena sarà pronta”.
“Perfetto” risposi, vago.
Tornai in salotto e salii la scalinata che portava all'unico altro piano della casa. La mia stanza, la prima a destra nello stretto corridoio che costituiva il secondo piano, era un tripudio di colori e il disordine vi faceva da sovrano. Non permettevo a nessuno di ficcare il naso nel mio spazio personale, perché quel caos mi trasmetteva una sensazione di calorosa accoglienza.
Sbattei la porta alle mie spalle e poggiai la cartella sul pavimento. Raccolsi un paio di giornali sportivi caduti a terra ai piedi del letto e li gettai sulle coperte sfatte.
Un colpo contro la porta. Mi girai in tempo per vedere mia madre entrare nella mia stanza, storcendo il naso alla vista dei calzini sparpagliati a terra vicino al comodino.
“Allora, com'è andato il primo giorno di scuola?” domandò allegramente.
Mia madre stese una mano sulle coperte e dispiegò un lembo per renderlo più accogliente. Si sedette e mi guardò con l'aria di chi si appresta ad affrontare un lungo discorso.
“Bene” risposi in tono incerto; non ero abituato a quelle ispezioni, perciò sospettavo che ci fosse qualcosa sotto.
“Non hai nulla di più interessante da raccontarmi? Nuovi compagni? Nuovi professori?” proseguì mia madre perplessa.
Scossi il capo e infilai alcuni libri in un cassetto della scrivania.
“No, mamma. Siamo all'ultimo anno, è altamente improbabile che si aggiungano nuovi compagni” dissi.
Soprattutto in un posto sperduto e monotono come questo, pensai con sconforto.
Mia mamma sorrise e sospirò. “Be', allora se tu non hai nulla di grandioso da dirmi, parlerò io. Ho una proposta per te”.
Alzai gli occhi, incuriosito e al tempo stesso dubbioso. “Di che si tratta?”
“Tuo padre mi ha chiamata. Mi ha parlato di uno stage presso la sua azienda. Stanno cercando ragazzi che abbiano voglia di fare nuove esperienze lavorative, e siccome tu non sai ancora che studi intraprendere dopo il liceo, io e tuo padre abbiamo pensato che...” spiegò mia madre tutto d'un fiato.
Lasciai perdere i libri di scuola che stavo riordinando e guardai mia mamma con aria scioccata.
“Mi stai dicendo che papà mi ha proposto per lo stage?!” esclamai, innervosito.
Mia mamma si interruppe e mi guardò con aria colpevole. “No, certo che no, Harry! Mi ha chiesto di proporti questa esperienza. Ci piacerebbe molto vederti impegnato in...”
“Mamma, a me non interessa lavorare nell'azienda di papà” tagliai corto.
Distolsi lo sguardo e la sentii chiaramente sbuffare contraddetta.
“Non mi hai nemmeno lasciato spiegare di che cosa si tratta” mi fece notare.
“Non mi interessa, fine della questione”.
“E che cosa dovrei dire io? Io ti mantengo, Harry. Ti pago le rette della scuola, ti pago i viaggi che fai...”
“Non mi sono mosso da Holmes Chapel per tutta l'estate”.
“Ogni volta che hai bisogno di soldi, io ci sono! Perché non inizi a guadagnarti qualcosa da solo?”
Chiusi gli occhi, sentendo che la rabbia stava riaffiorando velocemente. Ero stanco di sentirmi dire che non facevo abbastanza, che ero un peso sulle spalle di mia madre.
“Se proprio vuoi che guadagni dei soldi, lasciami fare ciò che voglio!” sbottai, lanciando sulla scrivania il mio orologio da polso.
Mia madre si alzò dal letto, gli occhi socchiusi che incutevano timore. Mosse un passo nella mia direzione e, alzando a sua volta la voce, gridò: “Tu non hai la più pallida idea di che cosa vuoi fare, Harry! Sto cercando di aiutarti, non lo vedi?”
“Io non voglio studiare, non voglio lavorare in una stupida azienda!” esplosi.
Mia madre sbatté le braccia contro i fianchi, cercando di reprimere una nuova ondata di rabbia.
“E che cosa vorresti fare?” mi chiese, regolando il tono della voce.
Sospirai profondamente, provando a imitare il suo esempio. Infine decisi di dirle la verità.
“Io voglio cantare”.
Lo sguardo che mia madre assunse sembrava quello di un adulto che veda un bambino provare a volare. Distolsi gli occhi. Ero stato sicuro che avrebbe reagito in quel modo.
“E come pensi di poterlo fare? Sei senza soldi, senza conoscenze...” mi fece notare con voce compassionevole.
“Se hai intenzione di farmi notare quanto sia un povero illuso, la porta è da quella parte”.
“Harry, ascoltami” fece lei, calma. “Non voglio assolutamente insultarti”.
“E allora che cosa abbiamo ancora da dirci?” gridai, afflitto.
Mia madre sospirò, incerta su che cosa dire.
“Sono sicura che cantare ti piaccia molto, ma... suoni in una band amatoriale che non si è mai esibita pubblicamente e io stessa so a stento dire se sai davvero cantare o no. Non sarebbe meglio dedicarsi ad altro e nel frattempo coltivare la passione del canto?”
Scossi il capo, ostinato. “Tu non capisci come mi sento io quando canto. Io sto bene, mamma. Io mi sento un'altra persona. Non sono più... lo sfigato che tutti ignorano, sono forte e indistruttibile”.
Mia madre sospirò nuovamente e rimase in silenzio a guardarmi. Infine sorrise debolmente e disse: “Allora ti consiglio di iniziare a trovare agganci utili al tuo obiettivo. Ci sono migliaia di giovani, là fuori, pronti a seguire la tua stessa strada”.
Alzai gli occhi al cielo e le indicai la porta della stanza. “Possiamo terminare qua questa conversazione? Grazie”.
Lei annuì e si avviò alla porta senza aggiungere altro. Aspettai che se ne fosse andata per gettarmi a pancia in su sul letto, nervoso e inquieto. Purtroppo mia madre aveva ragione, e io non avevo la più pallida idea di che cosa avrei potuto fare per emergere dalla nebbia che avvolgeva i cantanti in erba come me.
Mi rialzai dopo poco e spalancai l'armadio, alla ricerca dei pantaloncini e della felpa: correre mi avrebbe aiutato a scaricare la tensione.



Il posto dove preferivo fare jogging era fuori da Holmes Chapel. A circa venti minuti a piedi da casa mia si poteva raggiungere un bel parchetto isolato dal traffico della strada principale che da Holmes Chapel portava a Manchester.
Quella sera il tempo non era stato molto clemente: il cielo si era oscurato in fretta e grosse nuvole nere cariche di pioggia si avvicinavano in lontananza. Tenendomi strettamente attaccato al bordo della strada e camminando a passo spedito, mi avviai verso il ponticello che precedeva la stretta stradina sterrata posta all'inizio del mio percorso.
Sentii un tuono risuonare lontano, aumentando pian piano di volume. Mi strinsi nella felpa e arrivai sul ponte. Ma a mano a mano che mi avvicinavo al centro del ponte in legno, la mia attenzione al temporale in arrivo diminuiva.
Era già scuro tutto intorno a me, ma fui sicuro di riuscire a distinguere una figura poco lontana da dove mi trovavo io, pericolosamente seduta sul corrimano consumato del ponte.
Non è possibile, pensai, terrorizzato all'idea che la mia vista non mi stesse ingannando.
Accelerai il passo e in un istante fui vicino alla persona che ― ormai era chiaro ― voleva buttarsi di sotto.
“Ehi!” esclamai, il panico udibile nella mia voce.
La persona si voltò di scatto. In un primo momento non riuscii a vederla in volto, ma dopo qualche altro passo riconobbi il volto magro dai lineamenti perfetti e i grandi occhi verdi.
“Chi sei?” sbottò Catherine Alexandra Cavendish con aria inorridita.







 
   
 
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