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Autore: Adeia Di Elferas    19/09/2015    3 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Quel 26 dicembre era freddo, ma, una volta diradatasi la nebbia del primo mattino, si era fatto luminoso e secco, come molti giorni di Santo Stefano a Milano.
 La città era in fermento perchè da tradizione al Duca spettava d'assistere alla messa nella chiesa di Santo Stefano e come ogni anno, lui e la sua scorta sarebbero passati in mezzo alla città in pompa magna.
 Galeazzo Maria, in tutto il vigore dei suoi trentadue anni, montava un bellissimo palafreno, addobbato di tutto punto. Quel giorno non aveva voluto indossare l'armatura, nemmeno la piastra pettorale, malgrado sia Lucrezia sia il suo cancelliere avessero cercato in tutti i modi di convincerlo.
 Era in testa al corteo, il torace muscoloso messo in risalto dall'abito di velluto blu, seguito a pochi metri da sua figlia Caterina, raggiante nei suoi vestiti nuovi, in sella a un cavallo giovane e guizzante come lei.
 A breve distanza stava la guardia personale del Duca, una manciata di uomini fidati, pronti a dare la vita per lui e per la ragazzina.
 Dopo di loro stavano i soldati, con indosso armature luccicanti e mantelli sgargianti decorati con lo stemma degli Sforza.
 Solo in fondo, con le ultime guardie, c'erano Bona di Savoia, gli altri figli e, molto più defilata, praticamente sola, Lucrezia Landriani.
 La gente si accalcava nelle strade, godendosi lo spettacolo di tutti quei cavalieri e tutti quei colori. Era una grande festa, concitata, piena di allegria e curiosità.
 Molti gridavano il nome di Caterina, che ricambiava i saluti con gesti pacati della mano, sorrisi e qualche parola appena sussurrata. Pochi nominavano il Duca, e non tutti in tono lusinghiero, ma gli applausi per la giovane erano tanto forti da coprire quelle voci insolenti.
 Il corteo si spingeva sempre di più verso la chiesa di Santo Stefano, passando a stento nelle stradine rese ancora più anguste dalla ressa che faceva di tutto pur di avvicinarsi il più possibile.
 Galeazzo Maria vedeva a stento tutta quella gente. Non aveva voglia di tutta quella confusione. Era appena tornato da una guerra e desiderava solo starsene con la sua famiglia, nella calma del suo palazzo.
 Mentre percorreva una delle ultime strade, si trovò a ripensare a quello che si erano detti quella mattina lui e Bona. Il Duca le aveva espresso il desiderio di uccidere Girolamo Riario, il marito di Caterina. Ormai i quattordici anni della giovane erano alle porte, quindi doveva agire in fretta.
 La moglie lo aveva ammonito, dicendo che non portava bene dire certe cose in un giorno sacro come quello.
 A pensare quanta gente era lì per vedere il Duca e la sua famiglia e non per pregare, Galeazzo Maria si disse che forse non era poi un giorno così sacro. Era la curiosità, non la fede, a muovere così tante persone, quel giorno.
 Gli parve tutto così ipocrita e così effimero... Fu come se all'improvviso si fosse reso conto che il tempo rimastogli potesse essere poco.
 'Per assurdo – ragionò – potrei morire oggi e non avrei il tempo di liberare mia figlia da quell'animale'.
 Perso nei suoi pensieri, confuso dalla quantità di persone che lo circondavano, il Duca non notò alcune facce che occhieggiavano malevole tra la folla.
 Erano ormai davanti alla chiesa di Santo Stefano, a pochi metri dall'ingresso. Cola Montano tratteneva il fiato, mentre il suo cuore batteva come non mai.
 Si era messo in un posto defilato, così, nel caso remoto in cui il popolo non si fosse sollevato subito, avrebbe potuto scappare in fretta.
 Tra la folla si erano sparsi gli altri congiurati, tutti, tranne Vismara, che sarebbe stato troppo riconoscibile, a suo dire.
 Accanto alla porta della chiesa, sulla destra, stavano in piedi Giovanni Lampugnani e Carlo Visconti, mentre a sinistra c'era Girolamo Olgiati. Tutti e tre, malgrado la tensione, si sforzavano di apparire lieti come tutti gli altri e addirittura lanciavano qualche grido di festa, imitando i loro vicini.
 Galeazzo Maria si rese conto che le grida in favore degli Sforza stavano decrescendo, facendosi lontane. Con la coda dell'occhio si guardò alle spalle e ne capì il motivo. Sua figlia si era attardata a stringere qualche mano e rispondere a qualche invocazione e così tra loro si era creato un certo vuoto.
 Rassegnandosi alla realtà, il Duca lasciò alla figlia ancora qualche momento gloria, scendendo da cavallo senza aspettarla.
 Le sue guardie si rilassarono, visto che ormai il loro signore era alle porte della chiesa, un luogo sacro, dove di certo nessun milanese avrebbe osato fare nulla di pericoloso o sconveniente.
 Appena il Duca poggiò un piede sulla passatoia coperta da una stuoia color porpora, il coro della chiesa di Santo Stefano attaccò con l'inno 'Sic transit gloria mundi'. Galeazzo Maria sorrise, stupito da quel tempismo.
 Quando l'uomo fu esattamente sull'uscio della chiesa, un giovane si fece avanti e allargò le braccia, come se volesse tener lontana la folla. Altri due fecero altrettanto, tenendosi appena più lontani.
 La scorta del Duca era ancora in balia della ressa che si sporgeva per cercare di vedere meglio Caterina, ormai a pochi metri dal padre, perciò nessuno di loro, nemmeno l'immenso moro, il più feroce e valido degli uomini in armi, si accorse di quello che stava accadendo.
 “Viva il Duca!” urlò il ragazzo che si era fatto avanti.
 “Lunga vita agli Sforza!” fecero eco gli altri due.
 Galeazzo Maria lo guardò inebetito, senza capire da dove venisse tutto quell'entusiasmo. Quando scorse gli occhi accesi e folli di quello che era Giovanni Lampugnani, percepì il pericolo nascosto dietro la maschera.
 Il suo primo istinto fu quello di scappare, ma le sue gambe non si mossero.
 Era troppo tardi.
 Lampugnani si buttò improvvisamente in ginocchio, di fronte al Duca, e si tolse il cappello a mo' di saluto.
 Contraddetto, il Duca se ne restò immobile, incredulo. Possibile che i suoi uomini non avessero visto nulla di strano? Era lui che vedeva pericoli dove non ce n'erano? Quel giovane forse voleva davvero solo rendergli omaggio...?
 Galeazzo Maria non ebbe tempo per altre domande. Lampugnani lasciò cadere in terra il cappello e scattò in piedi, mostrando finalmente l'arma che teneva celata sotto al mantello.
 Con un unico movimento, infilò la daga nel corpo del Duca, tenendo ben salda l'elsa con entrambe le mani.
 Galeazzo Maria non riuscì nemmeno a gridare. Era stordito, incapace di credere che fosse successo davvero. Era tanta la sorpresa che nemmeno provava dolore.
 Nessuno aveva ancora visto quel che era accaduto, nessuno accorse in suo soccorso, e così gli altri due congiurati si fecero avanti.
 Il Duca ebbe il vago sentore di un ennesimo pericolo, ma tutto ciò che vide fu il bagliore di un'altra lama.
 E vide un volto. Lo riconobbe. Carlo Visconti... Il fratello di quella povera giovinetta... E l'altro...? Li conosceva tutti, ne era convinto...
 Nel secondo interminabile che lo separava dall'infinito che l'attendeva, ebbe modo di pensare a molte cose, come se il tempo si fosse dilatato.
 Ripensò a suo padre Francesco, che non era mai stato soddisfatto di lui e che non l'aveva mai trattato con affetto o gentilezza.
 Ripensò a sua madre, Bianca Maria, e a tutte le volte in cui gli aveva detto: “Non farti mai un nemico per caso”.
 E ora eccoli lì, i suoi 'nemici per caso'. Lo stavano ammazzando come un cane, davanti al portale di una chiesa, per delle colpe che aveva ormai dimenticato.
 'Madre...' pensò, come per farle sapere che finalmente era pronto a darle ragione su tutto: 'madre...'
 Mentre la lama si avvicinava rapidissima, ma allo stesso tempo con una lentezza esasperante, il Duca di Milano capì che non avrebbe avuto più modo di riappacificarsi con Caterina... Mai più. Quello era il suo unico dispiacere, nel morire quel giorno...
 La lama impugnata da Carlo Visconti raggiunse la gola di Galeazzo Maria, aprendola con un colpo secco.
 Il sangue schizzò ovunque, coprendo i congiurati. Il Duca cadde in avanti, gridando, la voce resa gorgogliante dal sangue che gli riempiva la bocca e il naso: “Madre mia! Madre mia!”
 Come un branco di cani, i tre assassini si chinaro e cominciarono a colpire ogni centimetro del corpo senza vita del Duca, squartando e dilaniando la sua carne.
 Nella confusione generale, nessuno, per quanto potesse parere impossibile, aveva capito a fondo quello che era accaduto. Forse perchè era successo tutto in una manciata da secondi.
 Caterina aveva appena finito di stringere le mani protese verso di lei come quelle dei fedeli che si sporgono a sfiorare la statua di un santo, quando i suoi occhi corsero al portone della chiesa.
 La sua attenzione fu attirata dal luccichio della seconda lama, quella destinata alla gola di Galeazzo Maria e poi da suo padre che cadeva a terra e infine vide il sangue imbrattare i tre uomini che lo colpivano.
 Comprese subito due cose: suo padre era morto e nessuno di loro era più al sicuro.
 “Padre! Padre!” gridò, cercando di tenere fermo il cavallo, agitato dalle grida della folla, che erano passate dall'essere festose, all'essere cariche di panico.
 “Aiuto!” invocò, facendo ampi gesti col braccio verso gli uomini della scorta: “Aiuto!”
 Tra tutti, il più rapido tra i soldati fu Francesco Ripa, che sguainò la spada e accorse, ancora a cavallo, all'ingresso della chiesa.
 La gente si muoveva come un fiume scosso da una tempesta. Qualcuno scappava, altri si avvicinavano, il caos era arrivato a Milano.
 Cola Montano, non capendo come si stava evolvendo la cosa, lasciò la situazione nelle mani degli altri congiurati. Sentì qualcuno fomentare la rivolta, ma dovette constatare che ciò che stava accadendo non era quello che speravano. Non tutto era perduto, ma non c'era più la certezza assoluta del successo. Troppa paura, troppa incertezza...
 Mentre correva lontano dalla chiesa di Santo Stefano, pensò al santo che avrebbero dovuto lodare quel giorno e gli tornarono alla mente le parole delle scritture: “E così lapidavano Stefano...” e, più forte di ogni altro, si fece in lui strada il dubbio che l'odiato Galeazzo Maria, il crudele e vizioso Duca, con quella morte, fosse stato da loro trasformato in un compianto martire.
 
   
 
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