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Autore: Adeia Di Elferas    24/09/2015    3 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Non lo troveranno. Abbiamo il silenzio del prete e nessuno sa, a parte noi.” stava dicendo Bona, esausta.
 Era quasi l'alba, ma nessuno era ancora riuscito a prendere sonno. Dalla morte del Duca, le ore si erano inseguite senza tregua, portando continuamente novità nel bene e nel male.
 “Secondo me, comunque, sarà meglio spostarlo, alla prima occasione.” disse Lucrezia, il naso ancora arrossato.
 Era stata molto provata dagli avvenimenti di quel giorno, ma già da un paio d'ore sembrava essere tornata in sé e si era messa subito a dare man forte a Bona, consigliandola come meglio poteva sul da farsi e ringraziandola, con ogni sguardo, per non aver perso di vista nemmeno per un secondo il bene del Ducato.
 Erano assieme ai figli nella camera che era stata del Duca. Per quella notte avevano preferito evitare di spostarsi nella torre centrale. Non era molto ospitale e si sentivano già al sicuro con le guardie alle porte.
 La popolazione sembrava aver accolto con diffidenza il tentativo di rivolta, per cui ora i veri nemici erano in seno alla famiglia, Ludovico in primis.
 Fin dal primo momento, infatti, Bona aveva temuto per la sorte del figlio, Gian Galeazzo Maria, erede legittimo del defunto Galeazzo Maria, ma ancora un bambino.
 “Hai ragione, Lucrezia.” convenne Bona: “Non possiamo lasciarlo sepolto tra due colonne della chiesa in cui è stato ucciso, non è giusto.”
 I figli dormivano bene o male tutti. Solo Carlo e Caterina, i due più grandi, seguivano i discorsi delle due donne. Il primo era spaventato, gli occhi ancora cerchiati dal pianto e il viso esangue. Aveva già diciotto anni, un uomo praticamente, eppure quella notte sembrava appena un bambino.
 Caterina, invece, non aveva versato nemmeno una lacrima, non aveva voluto cedere alla disperazione che minacciava di farla cadere da un momento all'altro. Si era imposta di stare attenta, di seguire ogni minimo passaggio di quello che stava accadendo e – se poteva – di dare una mano.
 Per il momento si era limitata a consigliare timidamente qualche piccola precauzione di sicurezza, in particolare aveva spiegato a Bona come far disporre le guardie attorno al palazzo e come organizzare le provviste, in caso il palazzo fosse stato preso d'assedio dalla popolazione.
 Bona aveva seguito con fiducia quello che le aveva detto la figlia, perchè era conscia del fatto che Caterina ne sapeva molto più di lei, su argomenti del genere.
 “Ora dobbiamo solo aspettare che qualcuno degli assassini parli.” terminò Lucrezia, con un sospiro stanco, mentre, inconsciamente, con una mano accarezzava la testa della più piccola tra i figli di Galeazzo Maria, Anna Maria, poco più che treenne.

 Le urla di Carlo Visconti si sentivano fin da diversi metri di distanza dal palazzo di Porta Giovia. Erano strazianti, come quelle di un'anima dannata che vaga nella notte più buia di tutti i tempi in cerca di redenzione.
 La sua cella dava verso la città, ed era separata dal mondo solo da una grata, che permetteva a tutti di condividere la sua sofferenza.
 Era stata Bona a volerlo mettere lì, affinché tutti sapessero che lei non scherzava, che non era una donnetta spaventata e debole. Dovevano capire che la legge veniva rispettata anche da lei, che non transigeva e che avrebbe punito tutti i colpevoli, senza alcuna eccezione, senza nessun riguardo, nemmeno per chi era di sangue nobile come il povero Visconti.
 Non le piaceva, pensare di avere la vita di quel giovane e degli altri congiurati sulla coscienza, ma non aveva scelta, se voleva permettere ai propri figli di avere un futuro.
 Il pugno duro che aveva adottato contro Carlo Visconti fu utile, visto che il ragazzo fece i nomi degli altri congiurati e raccontò pressoché tutto quello che sapeva, prima di morire.
 Di tempra ben diversa si dimostrò Girolamo Olgiati, di appena ventidue anni, ma abbastanza risoluto da non cedere a nulla, neppure alle peggiori torture.
 Alla fine, visto che tanto aveva già cantato Visconti, Bona acconsentì di porre fine alle sofferenze di Olgiati, concedendogli il perdono, a patto che si pentisse pubblicamente del suo errore.
 Girolamo Olgiati non era uomo da tirarsi indietro di fronte al prezzo delle sue azioni, perciò rifiutò la grazia, dicendo che nel regno dei Cieli lo attendeva una grande ricompensa, visto che aveva liberato Milano da un tiranno.
 A quel punto, con il cuore spezzato, perchè con quella condanna Bona si sentiva una criminale alle stregua di quegli assassini, la donna non poté evitargli una fine orribile.
 Girolamo Olgiati fu condotto nella cella più nascosta del palazzo, in modo che le sue urla non si sentissero. Questo fu un ultimo gesto di rispetto, che Bona si sentì in dovere di fare, per evitargli almeno il disonore di urlare in pubblico mentre moriva, come invece era successo a Carlo Visconti.
 Lo aprirono in due, ma, malgrado la durezza dell'esecuzione, Olgiati gridò solo lo stretto indispensabile, per non dare nessuna soddisfazione ai suoi aguzzini.
 Quando uno dei carcerieri andò da Bona per comunicarle della morte dell'ultimo prigioniero, ella annuì e spiccò l'ordine di trovare e giustiziare tutti gli altri congiurati, quelli citati da Carlo Visconti.
 “Solo quando saranno morti tutti potremo far scendere la notte su questa faccenda.” spiegò.
 E mentre il carceriere si allontanava quasi di corsa, Bona si strinse le mani al petto e pregò: “Che scenda la notte, che scenda la notte su questa disgrazia!”
 
 La rivolta era ormai quasi del tutto sedata, anche se, dopo un simile affronto, la fiducia degli Sforza nei confronti dei milanesi sembrava essersi persa per sempre.
 Il sette gennaio Bona venne eletta ufficialmente reggente, fece iniziare in fretta i lavori per una nuova torre e si affrettò a prendere in mano tutti gli affari di stato, prima che suo cognato Ludovico potesse metterci il naso.
 Lucrezia fu mandata a vivere dal legittimo marito, anche se poteva andare a trovare i bambini e Bona quando preferiva. Le due donne concordarono che era meglio allentare un po' i legami tra lei e gli Sforza, per preservare la sua incolumità.
 Verso la fine del mese Bona si rese conto di non poter più aspettare e scrisse al papa Sisto IV e a Girolamo Riario. I termini dell'infame patto stipulato da Galeazzo Maria stavano per scadere e lei non poteva azzardarsi a far decadere l'alleanza.
 Si tormenrò non poco, prima di mandare quelle lettere. Voleva evitare a Caterina un simile destino e voleva impedirgli in ogni modo di soffrire, ma sapeva di non avere scelta.
 Staccarsi dalla ragazzina sarebbe stato terribile, ma la situazione di Milano era appesa a un filo. Dio solo sapeva di cosa era capace il papa. Se avessero osato rompere il patto stipulato quattro anni prima, Sisto IV sarebbe stato capace di muovere guerra contro Imola e forse anche contro la stessa Milano, fomentando Firenze, o Venezia, o chissà chi altri...
 No, non poteva far altro che mettere per la seconda volta la sua figlia preferita sull'altare del sacrificio. E pensare che non era nemmeno una sua figlia di sangue... Si può davvero amare tanto quanto un figlio qualcuno che non è un figlio a tutti gli effetti? Evidentemente sì.
 Dopo aver spedito le missive e aver pensato a come dire il tutto a Caterina, Bona la fece chiamare nelle sue stanze, in modo da parlarle a quattr'occhi in tutta tranquillità.
 Caterina arrivò quasi subito, le gote arrossate e il fiato grosso.
 “Stavi tirando di spada?” chiese Bona, con un velo di malinconia nella voce.
 Caterina annuì, mordendosi le labbra. Anche se vestiva sempre come si conveniva a una nobile donna della sua età, aveva ripreso, a piccoli passi e con una sorta di vaga timidezza, ad accostarsi ai suoi passatempi preferiti.
 Suo padre era morto da circa un mese, eppure Caterina non dimostrava né tristezza né cordoglio. Era quasi sollevata, almeno all'apparenza. Da un paio di settimane aveva chiesto e ottenuto il permesso di tornare ad allenarsi con la spada assieme ai suoi fratelli e appena due giorni prima era uscita di nascosto da palazzo, facendo preoccupare parecchio Bona, per andare a cavalcare in mezzo ai boschi in solitudine, tornando con un fagiano legato alla sella.
 Da un lato Bona era sollevata nel vedere la figlia tornare a quella che era per lei la normalità, ma dall'altro era preoccupata. Temeva che anche quella fosse una recita, o almeno un modo per non pensare. Era come se Caterina stesse cercando di tenersi occupata per non dover ricordare l'attentato a Galeazzo Maria o per non dover ricordarsi che presto sarebbe stata condotta nella casa del marito.
 “Ho scritto a Girolamo Riario.” disse Bona, atona: “Ho ribadito il nostro impegno e ho riconfermato tutte le promesse fatte da tuo padre quattro anni fa.”
 Caterina si aspettava quel momento, perchè ormai il tempo era scaduto. Malgrado ciò, un po' la stupì il modo in cui Bona affrontava la questione.
 La donna sembrava tranquilla, anche se un po' contrariata. Parlò ancora per qualche minuto, dicendo cose che Caterina sapeva già e finì col fare raccomandazioni inutili e dare consigli su come essere una buona moglie.
 Caterina ascoltò tutto in silezio e solo quando fu certa che la madre avesse finito, le disse: “So che non ne avete mai avuto colpa.”
 Bona la guardò un momento e ciò bastò a farle salire le lacrime agli occhi. Lasciò andare la figlia con un gesto della mano e Caterina si dileguò immediatamente, correndo nelle sue stanze.
 Anche se in presenza della madre aveva mantenuto la calma, appena fu sola, sentì il cuore scoppiarle nel petto. Per circa quattro anni aveva potuto fingere di non essere sposata con quell'uomo che aveva odiato ancor prima di conoscere. Mentre in quel momento le era chiaro che non poteva più sottrarsi al suo destino. Si sarebbero rivisti e sarebbe stata la moglie di Girolamo Riario agli occhi di tutto il mondo.
 
 Bona, rimasta sola, sentiva una stretta al petto che la faceva soffrire com non mai. Era passato troppo poco tempo dalla morte del marito e tutte le decisioni difficili che aveva dovuto prendere in fretta la stavano sopraffacendo.
 Ci mancava solo la questione di Caterina... 
 Bona si andò a sedere dietro alla scrivania che era stata di Galeazzo Maria e si perse nei ricordi. La prima volta che si erano visti, lei se n'era innamorata all'istante, eppure aveva colto qualcosa di indefinibile nella sua figura che le aveva fatto sospettare un futuro pieno di incertezza e difficoltà.
 Era stato un marito appassionato, anche se spesso scostante e imprevedibile. Lei lo aveva amato tanto da perdonarne gli errori e dimenticarne i difetti, ma ora che era sola, non poteva più fingere di non vedere tutti i guai che Galeazzo Maria aveva combinato in vita.
 “Resisterò finchè potrò.” disse in un sussurro, come se il marito fosse al suo fianco: “Proteggerò i nostri figli come potrò. Se sbaglierò, spero che Dio mi perdoni.”
 Parlò a lungo col marito, sperando che lei la potesse sentire anche se ora non era più accanto a lei. Gli parlò soprattutto di Caterina, di come in fondo gli somigliava, della rabbia che covava da anni e che cominciava a intravedersi sempre di più. Gli raccontò di come la ragazzina avesse ripreso, poco per volta, a comportarsi come quando era bambina, tornando la Caterina di un tempo.
 E infine, sentendosi in colpa, pregò Dio affinché Girolamo Riario trovasse la sua fine molto presto, se possibile anche prima di incontrare di nuovo Caterina.
 Terminò quella singolare preghiera aggiungendo: “Dovessi anche pagare con la dannazione eterna, ti prego, fallo morire presto, abbi pietà di mia figlia, fa sì che Girolamo Riario muoia presto...”
 Detto ciò, giunse le mani e chiuse gli occhi, bisbigliando: “Dio, ti prego, fa che Caterina riesca a trovare la pace e che, una volta per tutte, scenda la notte su questa tutta questa storia...”

   
 
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