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Autore: esotericism    27/09/2015    0 recensioni
Dimenticanza al passato, acqua al fuoco del presente: OBLIVION(e) in un oblio sconfinato e senza frontiere. Un portale diretto per l'Inferno aperto, ed il mistero che avvolge sin dall'inizio la stessa protagonista. Fronteggia il male, stregandolo in aria; sacrificio al rituale, cenere al sangue, e si combatte l'oscurità.
Genere: Fantasy, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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OBLIVION –
La cerchia


 
Capitolo primo

Quell’assordante ed orribile trillare mi si ficca nel cervello, quasi distruggendolo neanche un elettroshock: mi percorre interamente facendomi quasi rabbrividire, dal pollice del piede destro, fino all’ultimo capello sul cuoio capelluto. Pare anche irrefrenabile e tanto determinata nel dar luogo alla disperata ricerca di un otorino per i miei stressati timpani, tali da oramai sette anni. La sveglia è sul comodino, o almeno, lo era: la mancina subito che scatta quasi furiosa sulla fonte del suono, ponendo fine alle mie sofferenze, visto questa caduta per terra nell’ennesimo tonfo. Rimango, ad ogni modo –come di mio-, per almeno altri dieci minuti, ignorando il richiamo –questa volta no di “Trilly”, ma della nonna-, con il capo sotto il cuscino ed ambedue le mani che poggiano su di questo, appena rialzato.
«Sheeeeelley! Sei in ritardo: vuoi alzarti da quel letto o devo gettarti per terra?!» Buongiorno anche a te, nonna: il suo strillare certo ora non più tanto irrilevante –anzi, tutt’altro: preferisco la sveglia-.
«Mio Dio…» Poi, anche un’imprecazione, sempre da parte sua - pur se quasi impercettibile-: scosto appena il cuscino, trascino il capo fino al bordo del letto ed apro gli occhi ad intermittenza per la troppa luce che sembrerebbe di già penetrare nella stanza, dalla finestra.                                  
«Shell, vuoi anche un Caffè?» La nonnetta spiritosa è proprio qui, dinanzi a me a toni beffardi, con le mani ai fianchi ed uno sguardo da rimprovero ad intendere tutto: intransigente come pochi, quando si parla di scuola. Finalmente sul punto di mettere meglio a fuoco l’immagine che mi si prospetta dinanzi, ovvero una sveglia dal vetro infranto –ecco, si è pure rotta-, su di una moquette che alla fine non sbrilluccica come oro colato, i raggi ultravioletti del Sole sembrerebbero ora mandare a fuoco l’intera stanza: nonna Abilene ha spalancato le tende.
 «Sono quasi le otto: su, dai!» Neanche un attimo di tregua: passa poco, ancora una volta, che faccio per aprire le iridi, adocchiando di già l’orario sullo schermo digitale della sveglia.                        
«Oh diamine!» È tardi, ed io rizzo subito a sedere sul letto, strofinandomi energicamente gli occhi, con la coda di uno dei due, che intercetta il sorriso sul volto della nonna che sembrerebbe nel frattempo scendere le scale per il piano inferiore della casa. Catapultata in bagno traballando neanche un dopo-sbornia –ed effettivamente, questo potrebbe esserlo: non ricordo-, apro il rubinetto rigorosamente dell’acqua calda e subito mi lavo in tutta fretta e furia: un altro ritardo con allegato –in omaggio, eh-, il rimprovero del professore nevrotico di Fisica stamattina non ci sta proprio per niente. Un maglione castano un po’ largo ad accompagnare la chioma, un jeans scuro attillato e con qualche strass, il giubbotto verde scuro aperto che arriva alle ginocchia, la tracolla scesa con all’intero qualche quaderno pasticciato, e via che si scende in cucina. Secondo la nonna, ho l’aria di una stracciona –e non che abbia tutti i torti, eh-: i capelli castani raccolti in una sottospecie di crocchia ed eccomi lì nel bere dalla tazza il latte caldo. 
«Più bollente no, vero?» Mi scotto la lingua e l’intero senso del gusto sfasa: l’interrogazione retorica, al che riprendo avviandomi di già verso l’uscita a passo felino, salutando ed afferrando le chiavi dell’auto da un centrotavola su di un mobile all’entrata. «Ci vediamo a pranzo.»
La porta cigola e me la chiudo alle spalle, aprendo poi lo sportello del Ferrari in giardino –come no-. Metto in moto, retromarcia e subito si parte verso scuola accompagnata dalla voce di una radio-telecronista, al che non si dilegua, dando spazio ad un pezzo rock mai sentito prima. Avvolta da un alone di rabbia –è Lunedì-, e di stanchezza, arrivo a meta: posteggio l’auto nel parcheggio della scuola e la maledizione ha inizio. Passo fiancheggiante e nel mentre salo le scale, mi squadro qualche bel fusto poggiato alla ringhiera, dando tutta l’aria di volermeli portare a letto –o almeno secondo le loro “leggi psichiche”-, nonostante completamente indifferente e rigida dall’espressione –anche se sì: me li porterei, sempre non l’abbia già fatto-. La mancina alla tracolla e la destra che apre la porta d’ingresso dell’istituto: entro, e di già il macello più assoluto, diretta al mio armadietto. «Ciao. » Saluto qualche tizia di passaggio nel corridoio, e poggio la borsa per terra, accingendomi di seguito nel comporre la combinazione esatta per sbloccare il lucchetto dell’armadietto: prendo qualche libro, e riparto in men che non si dica, ora diretta verso l’aula di Fisica. 
«Shelley!» Qualcuno richiama la mia attenzione a sé: una voce maschile, ed io subito mi giro di scatto, fermandomi in mezzo la mischia di studenti diretti alle varie lezioni, dovuti nello scansarmi, ritrovandomi quindi ad incassare tante di quelle spallate. L’anima mi si ghiaccia dentro per lo spavento: la figura me la ritrovo proprio dinanzi nel momento in cui mi giro, con la destra di questa sulla mia spalla.
«Mio Dio, Aaron: mi hai fatto prendere un colpo.» Lui: l’unico mio miglior amico che non mi scopo quotidianamente per svago. È dolce, moltissimo: ha i capelli della mia stessa tonalità, carnagione più che chiara –un latticino in realtà-, e due Smeraldi al posto delle iridi. Siamo praticamente pappa e cicca, identici in tutto e per tutto, tranne che per il suo carattere troppo fine, aggraziato e gentile: insomma, mi avete vista? Siamo davanti l’aula di Fisica, e lui sembrerebbe riprendere. 
«Non sai quanto possa dispiacermi.» Sì, certo, come no: i toni sono ironici, accompagnati da un’alzata di spalle a sottolineare la presa per il culo. Controbatto in una chiara e più che ovvia falsa risata, come il tutto fosse per davvero divertente. «Ah-ah-ah, simpatico.»
Di seguito sorrido anche, prendendo posto nell’ultima fila dell’aula, con il docente che di già non sembrerebbe risparmiarsi la solita battutina provocatoria, a toni più che antipatici. «Signorina Moore, la sua sconfinata puntualità del giorno mi stupisce; i suoi progressi lo fanno: dovrei preoccuparmi o semplicemente ringraziare la divina corte celeste?» No, ma io mi chiedo: oggi vi sentite tutti più simpatici del dovuto? Inutile dire certo io non godi della più totale stima da parte del “signor simpaticone vincitore dell’anno”. In un sorriso a trentadue denti, ad ogni modo, poi riprendo nascondendo quanto più possibile il mio essere non poco irritata dal suo atteggiamento. «Fossi in lei, la divina corte celeste la ringrazierei se trovassi la sua auto solo in fiamme.» E nonostante sia praticamente una minaccia bella e buona, i toni non sono poi così tanto arroganti o provocatori: cerco di mantenermi il più possibile nelle mie, non apparendo quindi neanche tanto maliziosa; lo stile non mi manca di certo, c’è da dire. La classe esplode in una risata, ed io sotto i baffi la imito, al che Mrs. Simpatia sembrerebbe azzittire tutti i presenti prendendo la spiegazione del giorno. Semplicemente, io con il capo chinato e poggiato sul banco, spero l’ora passi il più rapidamente possibile: secondo Aaron, sono una radiolina con batterie Duracell con servizio costantemente continuo, ventiquattro ore su ventiquattro. 
   
 
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