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Autore: Carlos Olivera    04/10/2015    1 recensioni
Mi chiamo Derek Norway.
Quando avevo 9 anni, il mondo in cui vivevo è cambito per sempre.
Era il 1979 quando due scienziati europei, i professori Ward e Brennon, con le loro ricerche rivoluzionarie portarono la magia dal mondo delle favole a quello della realtà, scoprendo il codice genetico che ne permetteva l'utilizzo.
In pochi anni la magia si è diffusa in tutto il mondo, e ora, al pari di una scienza, è diventata il motore che alimenta la nostra civiltà.
E' stato creato uno speciale corpo di polizia internazionale, allo scopo di regolamentare l'uso della magia e prevenirne l'utilizzo a fini criminali.
Io faccio parte di questa unità speciale.
Siamo il Magic Administration Bureau.
Noi siamo... la M.A.B.!
Genere: Azione, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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EPISODIO 1

IL GIOCO DELLA MORTE

(PARTE IV)

 

 

Forse, in cuor suo, il professor Ferrazzani aveva capito che quella situazione era destinata a finire nel peggiore dei modi, ed intimamente si era già preparato al peggio.

Per questo, quando nella sala autopsie si trovò di fronte al corpo senza vita, stavolta quello vero, della sua unica figlia, il suo volto rimase immobile, di pietra, stupendo persino un cinico pragmatico come Takikawa.

«Mi dispiace» disse il Direttore, che date le circostanze aveva voluto sostituire Derek in quell’ingrata tradizione

Il professore non rispose, passando una mano sulla fronte pallida della ragazza, mentre nei suoi occhi, finalmente, sembrava comparire un barlume di pianto.

«Alla fine, quel maledetto ci è riuscito a portarmela via» mormorò, per poi voltarsi gelido verso Hogdson. «Dovete sbattere quel bastardo in cella per il resto dei suoi giorni.»

«Ha la mia parola che lo faremo.»

Quindi, i due agenti lasciarono la sala, ma prima che il direttore se ne andasse Takikawa lo prese da parte.

«Non ha niente da rimproverarsi. E neppure Derek e gli altri. Secondo l’autopsia quella poveretta è morta meno di tre ore dopo il rapimento, ben prima che scoprissimo il coinvolgimento di Walcott

«Questo non ci esenta dalle nostre colpe» tagliò corto Samuel.

 

Derek aveva saggiato molte volte l’orribile sensazione di veder morire qualcuno, sia come agente della MAB che come soldato; eppure, per un motivo che non gli riusciva di capire, quella morte aveva un sapore diverso, e mentre fissava attraverso il vetro lo sguardo basso e smarrito di Peter Walcott, seduto da solo nella piccola stanza degli interrogatori, sentiva agitarsi dentro di lui delle strane sensazioni.

L’aprirsi della porta alle sue spalle interruppe i suoi pensieri, e in un certo senso non fu sorpreso nel veder entrare, oltre a Jane, anche il Procuratore Distrettuale Janice Rizzo, rinchiusa come sempre nel suo abito firmato da mille dollari che avrebbe fatto morire d’invidia qualunque donna di Manhattan.

«Sei anche più in anticipo del solito, Janice» sorrise quasi beffardo. «Non abbiamo ancora cominciato.»

«Hai provato a dare un’occhiata fuori? Per entrare ho dovuto farmi strada tra due ali di giornalisti impazziti. Vorrei tanto mettere le mani sul disgraziato che ha fatto trapelare l’identità della vittima.

Prima chiudiamo questo caso e meglio è. Allora, ha confessato?»

«Assolutamente nulla. Dice di non ricordare niente.»

«Con tutta la roba che aveva in corpo non mi sorprende» commentò Jane. «Aveva tante di quelle droghe nel sangue che se non fosse stato per i suoi poteri di stregone sarebbe sicuramente morto.»

«Purtroppo Lucy non è stata così fortunata» osservò, mesta e schietta, il procuratore. «Abbiamo i filmati, il giubbotto e il cappello usati durante il sequestro, un testimone che dice di averlo visto spedire l’ultima e-mail alla vittima da un internet caffè a due passi dal campus. Infine, soprattutto, abbiamo il cadavere nel suo appartamento.»

«È questo il problema» replicò Derek. «Nelle prime due scene del crimine non c’era assolutamente nulla. Niente impronte, niente tracce. Nulla che potesse condurci a lui. Poi, d’un tratto, si mette a fare errori a raffica, facendosi identificare e arrestare come un dilettante.

Non lo so, mi sembra troppo facile.»

«A volte la spiegazione più facile è anche quella più giusta. Non sarebbe il primo maniaco psicopatico che la fa franca mille volte per poi venire preso per degli errori grossolani.

Dobbiamo chiuderla il più presto possibile, prima che la situazione ci sfugga di mano e la stampa ci faccia a pezzi.

Ha già chiesto un avvocato?»

«Non ancora.»

«Una confessione renderebbe tutto più facile. Torchiatelo per bene.»

 

Quando Derek e Jane entrarono nella stanza, Peter li scrutò entrambi con sguardo assente, stralunato, quasi non si fosse ancora reso conto della situazione in cui si trovava, anche se a prima vista l’effetto delle droghe, grazie anche ai farmaci disintossicanti, sembrava essere passato.

«Sentite» si affrettò a dire prima ancora che i due agenti potessero sedersi. «Io non so cosa stia succedendo qui, ma una cosa è certa: non sono stato io ad uccidere Lucy!»

«Parole grosse, se dette da uno che fino a mezz’ora fa non ricordava neanche come si cammina» obiettò schietto Derek. «Per non parlare del fatto che Lucy è stata trovata proprio nel bagno di casa tua.»

«Drogata e strangolata» intervenne Jane gettandogli davanti le foto della scena del crimine. «E tu con le droghe hai una cera famigliarità se non sbaglio.»

«Sentite, vi posso giurare che io non c’entro nulla. L’ultima cosa che ricordo è che stavo tornando dal lavoro. Stavo camminando in direzione della monorotaia, e subito dopo mi sono ritrovato nel mio letto con voi che mi puntavate le pistole.

Di quello che è successo in questo lasso di tempo io non ne ho la più pallida idea!»

«Considerando la mole di schifezze che avevi in corpo, non mi sorprende che tu non riesca a ricordare nulla.

Cos’è, stravolto dalla consapevolezza di non essere capace di clonare Lucy ti sei fatto senza sosta fino a che non ti è venuta la folle idea di rapirla?

E poi che è successo? Lei si ribellava, e allora per tenerla buona hai imbottito anche lei fino a spappolarle il cervello?»

«Ma come ve lo devo dire, io Lucy non la vedevo da due anni! Da quando quello stronzo di suo padre mi ha rovinato la vita!»

«Piuttosto te la sei rovinata da solo. Violazione dell’obbligo di distanza, spaccio di droga, esercizio illegale della magia. Solo per questo, e contando i precedenti, rischi da sette a dieci anni, ma se ci aggiungiamo l’omicidio sarai già fortunato se te la caverai con trenta.»

«Vi ho detto e vi ripeto che non l’ho uccisa io. Figurarsi se mi sarei più avvicinato a lei dopo tutto quello che ho dovuto passare a causa di suo padre.»

«Non devi piacergli molto» disse sarcastica Jane. «Chissà perché.»

«Quello ce l’ha con me da quando ho iniziato a frequentare sua figlia.»

«Se io fossi un luminare di stregoneria» replicò Derek. «Ammetto che non sarei felice di vedere mia figlia che se la intende con uno che, oltre a sniffare come un pazzo, si è anche fatto buttare fuori dallo stesso campus dove insegnava.»

«Quella è una storia ridicola. Chiedete a chi volete. A quell’epoca stavo con una ragazza del mio stesso anno. Ci siamo appartati in uno stanzino e ci hanno beccati. Ma lei era la figlia di un consigliere, mentre io un povero signor nessuno del New Jersey. Morale della favola, lei è stata solo multata, mentre io sono stato buttato fuori.»

«E allora Lucy che cos’era? Il tuo lasciapassare per rientrare dalla porta di servizio?»

«No, questo non è vero. Io amavo Lucy, e lei amava me. Suo padre la teneva al guinzaglio. Casa, scuola e studio, non vedeva altro. Sono stato io a farle vedere cosa c’era al di là della siepe, a mostrarle il mondo, e lei me ne era grata.

E a quello stronzo del professore non andava bene, così ha alzato la cornetta e io sono finito in prigione. Avete idea di che cosa significhi non avere un futuro? Ero uno studente alla scuola di magia, ora quando pulisco i cessi della metro.»

«Se non vedevi più Lucy da tutto questo tempo, come mai era nel tuo bagno morta di overdose.»

«Ve l’ho già ripetuto mille volte! Non! Lo! So! Ho smesso di pensare a lei mentre stavo ancora dietro le sbarre!»

«Ora basta. Voglio un avvocato» disse prima di trincerarsi dietro ad un muro di silenzio.

 

Janice, coadiuvata dal capo Hogdson, aveva seguito l’interrogatorio per tutto il tempo, ed entrambi non nascosero la propria insoddisfazione quando Derek e Jane, al risuonare della parola magica, erano stati costretti ad abbandonare il campo senza una confessione.

«Peccato, ero convinta che sarebbe crollato.» commentò Janice

«In ogni caso, ora che ha chiesto un avvocato non possiamo più fare niente finché non arriva» commentò Jane. «E francamente dubito che dirà qualcos’altro.»

«E se stesse dicendo la verità?» chiese Derek provocatorio. «Non ci pensate?»

«So già dove vuoi arrivare, e non te lo permetterò» lo bloccò il procuratore. «Non abbiamo il tempo di andare a caccia di farfalle.

Mi sembra chiaro a questo punto che la confessione non arriverà. Appena arriva l’avvocato formalizzerò i capi d’accusa e andremo a processo.»

Detto questo Janice se ne andò, ma l’atmosfera nella stanza rimase la stessa.

«Direttore, il mio istinto mi dice che c’è dell’altro.»

«Purtroppo, anche se mi secca ammetterlo, ha ragione lei. Con la stampa che ci tiene d’occhio, non possiamo perdere troppo tempo a inseguire false piste.»

 

Helen si rese subito conto, notando i musi lunghi dei suoi due colleghi al ritorno in ufficio, che qualcosa non era andato per il verso giusto, ma ciò nonostante decise di metterli comunque al corrente di ciò che aveva appena scoperto.

«Stavo facendo un controllo sul passato del professore. Lo sapevate che la moglie è deceduta in un incidente stradale all’incirca un anno fa?»

«E questo cosa potrebbe c’entrare con il caso?» intervenne O’Bryan

«Secondo i quotidiani, anche la figlia era rimasta coinvolta, sembra anche in modo piuttosto serio.»

«E allora?»

«Mio fratello ha avuto un incidente d’auto quando aveva diciotto anni, e ne ha impiegati quasi tre per recuperare completamente. Invece Lucy non mi è sembrata per nulla il tipo di persona appena uscita da un lungo ricovero e conseguente riabilitazione.»

«Forse i danni riportati non erano così gravi. O forse il talento magico del padre, oltre al suo, hanno contribuito. Non dimentichiamoci che stiamo parlando di un luminare.»

«E comunque, ormai non è più un problema nostro» tagliò corto, seccato, Derek

«Che vuole dire?» domandò Helen

«Il procuratore è stato chiaro. Da questo momento la palla passa a loro, e sembra abbiano tutte le intenzioni di processare Peter.»

«Ma potrebbe essere innocente. A questo non ci pensate?»

«Le prove sono contro di lui» replicò Jane. «E per alcuni ciò è sufficiente.»

«E se ci stessimo sbagliando?»

«Se cominci a farti di questi pensieri già al tuo primo caso, non durerai molto a lungo qui dentro.» disse Derek allungando stancamente la mano verso il caffè sul suo tavolo

«E quindi ora che cosa si fa?» replicò Helen a denti stretti. «Ci mettiamo una pietra sopra e andiamo avanti come se niente fosse?»

«Esattamente.»

A quel punto, palesemente contrariata, la ragazza raccolse il proprio zaino e si avviò verso l’uscita.

«Dove vai?» chiese Foch, che arrivava in quel momento

«A casa. Mi è venuto il mal di stomaco.»

 

In realtà Helen aveva tutt’altra destinazione in mente.

Su internet, tra i vari articoli che parlavano dell’incidente, la giovane detective era stata in grado di trovarne uno che menzionava anche l’ospedale in cui madre e figlia erano state portate dopo l’incidente.

Uscita dall’ufficio, vi si recò subito, riuscendo anche ad incontrare il medico che aveva avuto in cura Lucy nel corso della sua lunga degenza, un giovane dottore di nome Luke Valentine che, per un tragico scherzo del destino, era stato anche allievo del professore.

«Non avrei mai immaginato che un giorno sarei stato proprio io a dover comunicare a quel brav’uomo la morte di sua moglie.» osservò mestamente il dottor Valentine camminando, con Helen al seguito, lungo un corridoio del reparto di traumatologia

«Può raccontarmi esattamente cos’è successo?»

«I dettagli precisi non li conosco, ma doveva essersi trattato di un incidete davvero spaventoso. Per la moglie del dottore, rottura della quarta vertebra cervicale, e morte praticamente istantanea. Lucy invece è sopravvissuta, ma non è stata comunque fortunata: oltre a varie fratture e lesioni interne, ha riportato un trauma esteso al cervello. Siamo riusciti a salvarle la vita, ma subito dopo l’intervento è caduta in coma.»

«C’erano possibilità che si riprendesse?»

«All’incirca una su mille. Ma è evidente che ogni tanto i miracoli accadono. Sarà stata l’aria di casa.»

«L’aria di casa!? Che intende dire?»

«Che Lucy è stata qui solo per poche settimane, dopodiché il professore ha ottenuto di farla trasferire a casa sua a Staten Island.

In realtà non sapevo neppure che si fosse svegliata, e ad essere onesti faccio ancora fatica a crederci.»

Helen si bloccò, guadagnandosi un’occhiata perplessa da parte del dottore, mentre uno strano formicolio le si arrampicava lungo la schiena.

«Detective?»

«Mi scusi. Sarebbe possibile vedere la sua cartella clinica?»

«Mi dispiace, non posso farlo. È secretata, e senza l’autorizzazione del giudice mi è impossibile accontentarla.»

«Capisco» rispose lei con un sorriso di circostanze. «Grazie comunque.»

 

Ancora una volta, però, Helen non aveva intenzione di arrendersi, e senza esitazioni si diresse nell’archivio dell’ospedale, dove di turno c’era un’anziana infermiera di colore dall’aria svogliata e intransigente.

«Eccola qui» disse tornando con una cartella. «Lucy Ferrazzani

Helen però ebbe appena il tempo di leggere il nome scritto sul cartoncino giallo prima che il documento le venisse tolto da sotto gli occhi con gesto insolitamente repentino.

«Non è proprio possibile dargli un’occhiata?» domandò allora la ragazza girando la testa da un lato, e piegando le labbra in un sorriso da denuncia. «Per favore.»

La voluminosa inserviente quasi si ritrasse, come intimorita, ma per fortuna proprio in quel momento giunse lo squillare dell’interfono a salvarla.

«Non si potrebbe» disse facendo tintinnare le sue unghie palesemente finte sul bancone. «Però, se io ora rispondessi al telefono… e accidentalmente dimenticassi la cartella qui… non sarebbe certo un problema…»

Helen sorrise ancora una volta, quindi, nell’istante stesso in cui la donna lasciò il fascicolo per rispondere, immediatamente lo afferrò, facendo scorrere velocemente tutti i fogli, le radiografie e i referti medici e fotografandoli uno di seguito all’altro con l’ausilio del suo computer da polso.

«Grazie…» mormorò impercettibile mentre se ne andava, e ricevendo in cambio un segno di complicità.

Quindi, prima ancora di lasciare l’ospedale e rimettersi in macchina, telefonò a Takikawa, cogliendolo proprio mentre era sul punto di realizzare la parte più complessa del suo nuovo modellino, che per lo spavento gli cadde dalla scrivania andando irrimediabilmente perduto.

«Dottor Takikawa, le sto mandando i dati di una cartella clinica. Potrebbe confrontarli con il corpo di Lucy Ferrazzani che è nel suo laboratorio?»

«Che cosa!? E a che scopo?»

«Ora non ho tempo di spiegarglielo. Ma la prego, lo faccia. Potrebbe essere molto importante.»

«Si può sapere in che razza di situazione si sta mettendo, detective Trevor? Non le sembra troppo al suo primo incarico?»

«È in gioco la vita di una persona. Non voglio lasciare nulla di intentato. La richiamo.» e senza dire altro chiuse la conversazione, lasciando Takikawa con l’espressione sbigottita e gli occhiali in fondo al naso.

 

Rimontata in macchina, Helen si spostò a Staten Island, raggiungendo la casa del dottor Ferrazzani.

In realtà non aveva ancora un’idea chiara del perché fosse lì, o di cosa stesse facendo. Tutto quello che sapeva era che le era stato insegnato a non dare mai nulla per scontato, e ad andare sempre e comunque alla radice di ogni problema, anche a costo di rischiare in prima persona.

Bussò alla porta, ma nessuno rispose, benché gli scuri fossero aperti e, dall’interno, giungesse il rumore della televisione.

«Professore?» disse dinnanzi all’uscio ancora chiuso. «Sono il detective Trevor. Ci siamo parlati l’altro giorno. Vorrei farle qualche altra domanda, se per lei non è un problema.»

Di nuovo, non giunse alcuna risposta, e allora la ragazza, seppur con molta titubanza, provò a girare il pomo della porta, scoprendo non senza sorpresa che era aperta.

All’interno non c’era nessuno, e tolta la telecronaca dell’incontro tra il Washington e i Giants di New York regnava un silenzio irreale, quasi spaventoso.

La casa era molto ben tenuta, e sulle pareti, come in un ricercato museo della scienza, facevano mostra di sé tutti i diplomi, i titoli accademici, i premi internazionali vinti dal professore nella sua lunga ed invidiabile carriera, con una foto di famiglia di almeno un decennio prima ai piedi del Lincoln Memorial a svettare sulle altre, non fosse altro per la pregiata cornice in cui era riposta.

Eppure, Helen sentiva che c’era qualcosa di strano in quella casa, qualcosa di nascosto che, per quanto osservasse, sfuggiva alla sua attenzione.

«Ocus Magno» disse allora abbassando le palpebre.

Quando le risollevò, i suoi occhi, da verdi, divennero di un colore azzurro luccicante, permettendole in questo modo di percepire ogni cosa che le stava attorno in un modo tutto nuovo.

In questo modo, avventuratasi nel corridoio che dal salotto portava alla sala da pranzo, riuscì a notare una porta, abilmente nascosta nel muro e apparentemente invisibile, protetta da un incantesimo occultante.

Un sortilegio così ben congeniato avrebbe rappresentato una sfida per chiunque, ma non per una maga originaria come lei, che infatti ne ebbe ragione in meno di dieci secondi.

La porta, una volta aperta, rivelò dietro di sé una scala che scendeva verso il basso, ed Helen, estratta istintivamente la pistola, vi si avventurò, sorda alle esortazioni della sua mente che la invitavano a non fare qualcosa di così avventato.

La discesa fu molto lunga, ma alla fine la ragazza si ritrovò in una specie di piccola stanza circolare, il cui pavimento, nero e traslucido, era interamente ricoperto di formule magiche e simboli arcani. Al centro, realizzato in marmo e acciaio, c’era un tavolo, una via di mezzo tra un altare ed un tavolo operatorio, e le macchie rosse di cui era ricoperto in più punti erano a dir poco inequivocabili.

Di colpo la prese un moto di paura, nonché la sensazione tangibile di essere nei guai.

Ma era troppo tardi. E neppure una maga del suo calibro poteva salvarsi da un attacco a sorpresa.

Qualcuno, arrivandole alle spalle, le sfiorò il collo con un dito, e lei, prima ancora di rendersene conto, si arrese ad una inarrestabile stanchezza.

 

Derek aveva imparato più e più volte cosa volesse dire pestare i piedi a qualcuno più in alto di lui, ma neanche la ferma, e per certi versi ottusa determinazione di Janice poteva tacitare del tutto la sua coscienza.

Il pensiero era sempre lo stesso, e per tutta la giornata non aveva fatto che assillarlo, togliendogli la concentrazione necessaria per prestare attenzione all’innumerevole quantità di altri casi impilati sulla sua scrivania.

«Quanto ancora intendi fare quella faccia da cane bastonato?» gli chiese provocatorio Foch

«Smettila, non sono proprio dell’umore.»

«Ecco perché non mi è mai andata a genio la polizia. Troppa burocrazia. Qui come là fuori, la regola è sempre la stessa. Chi ha più stellette comanda.»

«Se vuoi possiamo sempre rimandarti a Rikers

«Purtroppo, non possiamo farci niente» commentò O’Bryan. «D’altra parte, non si può non ammettere che le prove sono tutte contro Peter Walcott.

Deciderà la giuria. Come sempre del resto.»

In realtà Derek era preoccupato anche e soprattutto per Helen.

Sapeva quanto la tipica irruenza dei cadetti potesse risultare pericolosa se incanalata nella direzione sbagliata, e temeva ciò che quella testa matta avrebbe potuto fare.

Neanche a farlo apposta, in quel momento squillò proprio l’interfono sulla scrivania di Helen, e Derek, quasi svogliato, rispose.

«Norway… ah, sei tu Takikawa… no, Helen non c’è…»

Poi, però, la sua espressione mutò dal giorno alla notte, cogliendo di sorpresa tutti i suoi colleghi.

«Come hai detto, scusa?»

 

«Questo corpo non è quello di Lucy Ferrazzani.» esordì Shawn prima ancora che Derek potesse varcare la porta della sala autopsie

«Ancora? Stai diventando monotono.»

«La mia monotonia non ha importanza. Piuttosto dovreste ringraziare quella scheggia impazzita di Helen. È stata lei a procurarmi le cartelle cliniche della vera Lucy Ferrazzani

«E allora? Che hai scoperto?»

«Qualcosa che in tutta onestà ha scioccato anche me. Secondo queste cartelle cliniche, nell’incidente in cui rimase coinvolta Lucy riportò varie fratture di diversa gravità, tra cui si segnalano una rottura scomposta dell’avambraccio sinistro e una frattura cranica che ha provocato il trauma al cervello.

Ho eseguito un ulteriore controllo su questo corpo, e con mio grande stupore non ho trovato nessuno dei traumi sopraccitati.»

«Forse sono stati guariti con la magia.»

«C’è un limite a quello che la stregoneria medica è in grado di fare. Si può aiutare una frattura a ricomporsi, o una emorragia cerebrale a riassorbirsi, ma resterebbero comunque dei segni che, con le attuali conoscenze magiche, nessun incantesimo sarebbe in grado di sanare, e che richiederebbero molto più tempo per scomparire naturalmente.

E di questi segni, ripeto, non ne ho trovato traccia.»

Derek a quel punto sentì un famigliare, e per niente poco rassicurante, tremore alle ginocchia.

«Ma, Jane aveva eseguito uno screening di riconoscimento, ed è risultato negativo.»

«Lo so. Ci ho provato anch’io. Poi mi sono accorto di questo.»

Takikawa passò il palmo sul volto della vittima, ma come una piccola sfera di luce si materializzò nello spazio tra la mano e il corpo questa si dissolse immediatamente, lasciando Derek completamente sbigottito.

«Ma cosa…»

«Sì chiama magno deceptio. Un incantesimo progettato per dissipare e annullare qualsiasi tentativo di alterazione magica su di un qualunque corpo inanimato. La durata del suo potere è limitata, ma a meno di non cercarla appositamente è impossibile da individuare.»

«Non ne avevo mai sentito parlare» mormorò il detective sentendosi venire i sudori freddi. «È molto comune?»

«Non direi proprio. È un incantesimo di una complessità allucinante. Nemmeno io riuscirei ad eseguirlo. Francamente, credo che gli esperti in tutto il mondo capaci di creare un magno deceptio di questo livello si contino sulle dita di due mani.»

«E…» balbettò Derek come se sapesse già la risposta. «E quanti di questi al momento risiedono a New York?»

«Uno.» rispose gelido Takikawa.

Derek abbassò gli occhi, e se non fosse stato per la drammaticità della situazione si sarebbe preso a schiaffi.

«Dov’è ora Helen?»

«È quello che speravo mi dicessi tu. Ho provato a contattarla sia al telefono che tramite contatto telepatico, ma non ho ottenuto alcuna risposta.»

E a quel punto, negli occhi di Derek, comparve qualcosa che Takikawa, nei molti anni spesi accanto a lui, non era più abituato a vedere: paura.

«Cristo!» strillò correndo fuori e prendendo nel contempo il suo cellulare. «Jane, chiama la SWAT! Massima priorità!»

 

In meno di un’ora un’intera divisione di SWAT aveva circondato la casa del professor Ferrazzani, ma su esplicito ordine delle alte sfere, e obbedendo al protocollo circa la neutralizzazione degli obiettivi magici di Classe Uno, il comandante del gruppo tenne i propri uomini in stato di attesa fino all’arrivo degli agenti della MAB.

Derek scese dalla macchina prima ancora che questa si fosse fermata, il giubbotto antiproiettile già addosso e la pistola in mano.

«Capitano Mayer, squadra SWAT!» disse il caposquadra andandogli vicino

«Qual è la situazione?»

«Nessun movimento all’interno, e nessuna risposta al telefono. O si è barricato o non c’è nessuno.»

«Fate molta attenzione» disse Jane. «L’obiettivo è uno stregone di livello assoluto. Solo il cielo sa cosa potrebbe esserci lì dentro.»

«Non perdiamo altro tempo» ordinò Derek. «Facciamo irruzione.»

Rapidamente, i vari gruppi di SWAT, ognuno comandato da un membro dell’Agenzia, circondarono la casa, e a Derek, accompagnato sia da Jane che dal caposquadra Mayer, toccò fare irruzione dalla porta.

«MAB, nessuno si muova!» urlò dopo che l’uscio venne abbattuto.

In meno di dieci secondi la casa venne quasi interamente battuta, ma, come era prevedibile, del professore, e soprattutto di Helen, non vi era neanche l’ombra.

«Libero!» dissero uno dopo l’altro i vari capisquadra.

L’ultima zona da perlustrare era il soggiorno, ma come Derek, Jane e gli SWAT mossero un piede al suo interno una sfera di luce comparve al centro della stanza, e sia sulle pareti, ma anche sui loro stessi corpi, iniziarono a comparire innumerevoli simboli magici, mentre quel globo diventava sempre più grande e minaccioso.

«Oh, cazzo...» mormorò il detective Norway vedendo i segni sul suo braccio. «Una barriera concussiva, tutti fuori!»

Una barriera concussiva, nella sua semplicità, poteva rivelarsi un incantesimo terribilmente pericoloso.

Esplodeva a contatto, come una mina, e non causava danni né a persone né a cose; in compenso però, rilasciava, improvvisamente e con violenza una grande, enorme quantità di energia attingendola dall'ambiente circostante. Per un essere umano aveva un effetto non molto superiore a quello di una scarica di teaser, ma per qualunque stregone venutosi a trovare nei suoi pressi poteva essere un'esperienza estremamente dolorosa, se non addirittura mortale.

Tutti gli agenti, alcuni mollando addirittura le armi, corsero verso l’uscita più vicina, ed un secondo dopo che l’ultimo di loro fu uscito una specie di bomba di luce riempì tutto l’edificio, propagandosi per miglia e miglia in ogni direzione tramite le finestre, mentre l’intera Staten Island rimaneva per interminabili secondi completamente al buio.

 

  
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