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Autore: Adeia Di Elferas    16/10/2015    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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 Il ventinove luglio di quell'anno anche Sforza Maria perse la vita, in un modo abbastanza misterioso. In realtà si trattò di una polmonite, tuttavia, nel momento stesso in cui Ludovico seppe che suo fratello era morto a Varese Ligure, pensò che qualcuno lo avesse avvelenato. E ovviamente tutti i suoi sospetti si concentrarono sulla cognata, Bona di Savoia e sugli amici che ancora aveva sparsi per la penisola italiana.
 Si era, nel frattempo, avvicinato sempre di più ai Medici di Firenze, accordando a Lorenzo molti favori, compreso un appoggio – seppur ancora non palese – nelle guerriglia che aveva intrapreso contro gli stati alleati del papa.
 Ludovico sapeva che Roma sarebbe stata collegata a Milano per molto tempo, visto che quello sconsiderato di suo fratello Galeazzo Maria aveva dato in sposa una delle sue figlie a uno dei nipoti di Sisto IV, ma sapeva anche che Sisto IV non era eterno, e che, alla sua morte, il legame col Vaticano, probabilmente, sarebbe valso meno di zero.
 Quell'autunno, in parte perchè convinta da Caterina, che nelle sue lettere sembrava certa della malafede di Cicco Simonetta, un po' stremata dal lungo tempo passato barricata nel palazzo di Porta Giovia, Bona di Savoia si mosse per riavvicinarsi a Ludovico.
 Per prima cosa, la donna allontanò da corte e dai posti di potere il cancelliere. Lo chiamò nella sua saletta privata e lì gli disse con chiarezza quali erano i suoi sospetti.
 Bona, in quei mesi, si era fatta scarna, patita, l'ombra della donna meravigliosa e florida che era stata negli anni addietro. Pure Simonetta era patito, smagrito e preda dei più oscuri incubi.
 L'uomo prese la decisione di Bona come una condanna a morte. Quando uscì a passo di marcia dalla saletta privata, tutti i presenti lo sentirono urlare: “A me sarà tagliato il capo, e voi, in processo di tempo, perderete lo stato!”
 Bona, tuttavia, non diede peso alle parole furenti dell'uomo e continuò il suo lento avvicinamento a Ludovico, persona di cui non si era mai fidata, ma dal quale, lo capiva più che bene, ormai dipendeva il suo futuro e quello dei suoi figli.
 
 Il secondo inverno che Caterina passò a Roma fu per lei un vero supplizio. Se l'anno prima aveva apprezzato il clima mite del Vaticano, nel gennaio del 1480 era semplicemente esasperata da quella temperatura mite e quel sole sempre presente.
 Sentiva ogni momento di più la mancanza della sua città natale e degli inverni rigidi e prodighi di neve.
 Più di una volta aveva chiesto a suo marito – a volte anche direttamente al papa – il permesso di visitare la corte di Milano, anche da sola, se Girolamo non aveva voglia di fare un viaggio tanto impegnativo.
 Ovviamente le era sempre stato negato. Sisto IV la stimava, è vero, ma non si fidava ancora abbastanza di lei. Se fosse tornata a Milano, solo Dio sapeva cosa avrebbe potuto fare. Forse sarebbe scappata per non tornare più a Roma, dando man forte alla madre e ribaltando le sorti del Ducato. O forse avrebbe fatto retro front circa la posizione di Simonetta, rimettendo il cancelliere al suo posto e vanificando le misure prese da suo zio Ludovico. Oppure... Mah...! Chissà che altro avrebbe potuto fare, quel diavolo di donna!
 Così Caterina dovette passare tutto l'inverno a immaginare la nebbia e la neve che l'avevano accompagnata per tutta l'infanzia. Nelle profumate notti romane, sognava di sentire l'aroma un po' secco e pungente della brina e del ghiaccio, sperava quasi di poter guardare di nuovo la sconfinata pianura che si stagliava oltre le finestre del palazzo... Invece ovunque volgeva lo sguardo, vedeva solo palazzi e colli e cosa che di milanese non avevano proprio nulla.
 I rapporti con suo marito si stavano facendo sempre più tesi, in privato, perchè, malgrado la nascita di un maschio, Girolamo voleva avere altri figli. Diceva che sarebbe bastata una malattia o un incidente e la sua discendenza sarebbe si nuovo stata incerta.
 Caterina cercava di respingerlo come poteva, ma spesso doveva cedere di fronte all'insistenza del marito, perchè se avesse esasperato troppo la situazione, le cose sarebbero degenerate ed era certa che alla fine uno dei due ci avrebbe rimesso la vita.
 Il piccolo Ottaviano cresceva forte e roseo, tanto che la balia non la smetteva di raccontarne a tutti le gesta, con un orgoglio secondo solo a quello del papa, che lo lodava continuamente.
 Caterina cercava invano di creare un legame stabile con quel bambino che non sentiva suo. In lui rivedeva tutte le costrizioni alla quale era stata sottoposta e non riusciva a superare il fatto che i tratti del piccolo fossero ogni giorno più simili a quelli di Girolamo.
 La ragazza si sforzava di volergli bene e confidava nel tempo. Forse, quando quel bambino fosse stato più grande, gli avrebbe insegnato a usare la spada e a cavalcare, come suo padre aveva fatto con lei, e allora avrebbero finalmente creato un legame forte.

 Caterina non voleva un altro figlio. Non così presto, per lo meno. Non aveva ancora imparato a conoscere Ottaviano, non poteva far nascere un altro bambino così presto...
 Perciò, quando si rese conto di essere di nuovo in stato interessante, fu colta da uno strano insieme di emozioni, che andavano dalla sorpresa alla rabbia.
 Come la prima volta, non cercò di stare riguardata, anzi, cavalcò più spesso del solito e non si diede regole nel mangiare e nel riposare.
 Non disse a nessuno di essere incinta, fino a che non fu palese a tutti, in primis alle sue dame di compagnia.
 “Sarà un altro maschio.” la rassicurò uno di loro, accarezzandole il ventre un po' sporgente: “Un altro bel maschietto, sì, sì.”
 Caterina si lasciava fare complimenti e auguri e sopportava il suo stato come se si fosse trattato di una qualche gravissima condanna.
 Mentre la primavera lasciava il posto all'estate,
 Il papa era preoccupato per il nipote, che si rifiutava sempre più categoricamente di andare a visitare Imola, di cui era signore da anni, pur non avendola mai vista dal vivo.
 Forse fu proprio per quello che quando Caterina era in procinto di partorire il suo secondo genito, il ventitre agosto del 1480, Sisto IV concesse a lei e Girolamo la città di Forlì.
 Il giorno seguente, all'alba, stremata dal caldo torrido di quel ventiquattro agosto, Caterina avvertì delle fitte terribili al ventre e fu lei stessa a far chiamare la levatrice, molto prima che suo marito si rendesse conto che il momento era arrivato.
 Quando arrivarono la balia e uno dei medici del papa, Caterina convinse Girolamo ad andare da Ottaviano e dalle balie e di ripresentarsi solo a cose fatte.
 Questa volta Caterina sapeva cosa aspettarsi e le parve anche che il dolore fosse meno e che il bambino fosse nato più in fretta.
 “Oh! Un altro meraviglioso maschietto!” esclamò la levatrice, con il suo sorriso mezzo sdentato.
 Caterina se lo fece portare vicino al viso e gli sorrise non appena lo vide. Temeva di provare anche per lui una sorta di repulsione e di disinteresse, invece quel neonato aveva qualcosa di indefinibile che le ricordò sua madre Lucrezia.
 “Anche questo sta benone, visto, mia signora? Vado a lavarlo, mia signora.” annunciò la levatrice.
 Caterina annuì e chiese a una delle dame di compagnia di avvisare Girolamo della nascita del loro secondo genito.
 La levatrice riportò il neonato in men che non si dica e lo pose tra le braccia di Caterina, che, malgrado l'afa, accettò con piacere il tepore di quel corpicino ancora esile e un po' tremante.
 Lo avvolse con la sua coperta e restò a fissarlo a lungo, fino a che non arrivò Girolamo, seguito a ruota dalle balie, una delle quali teneva in braccio Ottaviano, che aveva poco più di un anno.
 Girolamo si avvicinò alla moglie e diede un lieve bacio sulla fronte del bambino: “Che meraviglia...” sussurrò.
 Per la prima volta da quando lo conosceva, Caterina dovette dar ragione a suo marito.
 Girolamo, paonazzo per il caldo e per l'emozione, stava già pontificando per conto suo: “Potremmo chiamarlo Raffaele. O Pietro... O anche...”
 “Hai finito?!” lo zittì improvvisamente Caterina, con un tono che non ammetteva repliche.
 Girolamo la fissò basito, le palpebre che sbattevano frenetiche, nel tentativo di capire cosa avesse sbagliato quella volta.
 “Tu non ne decidi più di nomi.” disse Caterina, impassibile: “Questo bambino si chiamerà Cesare.”
 Girolamo aprì la bocca per ribattere, ma sentì su di sé lo sguardo divertito delle nutrici e anche quello della levatrice e delle dame di compagnia. In quel gineceo si sentì completamente impotente e sconfitto, per cui si limitò a chinare appena il capo e acconsentire: “E sia, per questa volta...” ma non terminò la frase.
 
 Dopo appena due giorni, Caterina era già in perfetta forma e improvvisamente si stava riscoprendo innamorata non solo di Cesare, ma anche di Ottaviano.
 Appena poteva, passava del tempo con loro, sottraendo addirittura qualche ora ai suoi studi e alle sue battute di caccia.
 Il terzo giorno dopo il parto decise di scrivere a sua madre Bona, per comunicarle tutte le novità. Non le piaceva dover usare con lei un tono formale, né sapere che ogni frase sarebbe stata letta e vagliata dalle spie del papa, ma non aveva altro modo per farle sapere in fretta ogni cosa.
 Le disse che il papa aveva donato a lei e al marito Forlì e che era nato Cesare, 'un bellissimo figliolo maschio'.
 Mentre firmava la lettera, Caterina ebbe un brutto presentimento, come se in quel momento fosse certa che la lettera che teneva tra le mani sarebbe stata l'ultima che avrebbe spedito a sua madre Bona.
 Forse era l'incertezza di quei tempi a suggestionarla. Sia lei sia la madre erano in un gioco più grande di loro e non poteva far nulla per cambiare quel fatto.
 E poi, pensò, non senza una vena di cattiveria, per Bona aveva già fatto più di quello che la donna aveva osato fare per lei, quando era solo una bambina di nove anni, ancora ignara dei giochi di potere e dei sotterfugi della politica.

 Bona lesse con emozione la lettera di Caterina, quando la ricevette e la tenne con sé per molti giorni, rileggendola spesso e sempre con trasporto.
 Non le pareva vero di avere due nipoti e avrebbe dato un braccio, pur di poterli vedere e coccolare.
 Aveva chiesto più volte a sua figlia di farle visita, ed era certa che anche Lucrezia doveva averglielo chiesto più di una volta, eppure aveva sempre ricevuto delle risposte negative. Cordiali, certo, ma non per questo meno categoriche.
 Non riusciva a capire perchè sua figlia non la volesse rivedere. Malgrado tutto quello che avevano dovuto affrontare, erano sempre state unite. Che fosse il papa a non volerla lasciar partire? Ma per quale ragione...
 Oh, certi giorni a Bona prendeva un terribile cerchio alla testa e tutto le sembrava confuso e assurdo, a partire dalla sua condizione di relegata in casa sua.
 I suoi figli stavano perdendo i contatti con la realtà che li circondava, soprattutto i più grandicelli e lei non sapeva più di chi poteva fidarsi.
 Ludovico si faceva avanti sempre di più e Bona era allettata dall'idea di lasciargli una volta per tutte la patata bollente chiamata Milano. Dopo tutto era suo cognato, sangue del sangue di suo marito... Non avrebbe mai osato fare del male a lei o ai suoi figli, no?
 Così, dopo aver allontanato dal potere Cicco Simonetta, quasi senza rendersene conto, lasciò che Ludovico tornasse dall'esilio e entrare a Milano. Ludovico giocò d'astuzia, circuendola e convincendola della validità della sua posizione e assicurandosi l'appoggio di Bartolomeo Calco, il nuovo cancelliere.
 Il sette ottobre del 1480 Ludovico convinse Bona a ritirarsi definitivamente nella Rocchetta, ufficialmente per tenerla al sicuro, in realtà per metterla in prigione.
 L'uomo, infatti, giustificò la propria decisione dicendo che Bona doveva ritirarsi per proteggere se stessa e i suoi figli dal nipote Antonio Tassino, che forse ambiva al Ducato.
 In pochi giorni Ludovico convinse il nipote Gian Galeazzo a firmare, di nascosto dalla madre, un documento in cui lo nominava suo unico tutore e così Milano venne definitivamente strappata dalle mani di Bona.
 Il trenta dello stesso mese, Ludovico spiccò, in quanto nuovo reggente, una condanna a morte per Cicco Simonetta, che venne immediatamente portato ai ceppi.
 All'uomo venne proposto, più che altro per salvare le apparenze, di commutare la decapitazione con una multa, la cui cifra era impensabile per le tasche di Simonetta.
 Così il vecchio cancelliere, preferì dichiarare di voler avere il capo 'tagliato a tondo', pur di versare anche un solo centesimo a un usurpatore.
 Quando lo condussero davanti al boia e lo fecero inginocchiare, Simonetta si vide passare davanti agli occhi tutta la sua vita, i suoi meriti e le sue colpe. Risentì le parole di elogio di Bianca Maria e Francesco Sforza, quelle rabbiose del loro viziato figlio e quelle di aperta accusa della loro nipote, l'allora giovanissima Caterina. E poi risentì le sue stesse parole, quelle con cui aveva ammonito tanto severamente Bona, quell'illusa che ora se ne stava rinchiusa nella Rocchetta, aspettando, probabilmente, anch'ella la morte.
 “A me sarà tagliato il capo – le aveva detto – e voi, in processo di tempo, perderete lo stato.”
 Gli venne da ridere, pensando che era stato abbastanza preciso, troppo preciso, nella sua previsione, anche se aveva peccato di ottimismo. Nemmeno Bona avrebbe avuto salva la testa.
 E così, quando il boia abbassò la scure, Simonetta ancora sorrideva e quando la testa gli si staccò dal collo, tutti i presenti non fecero altro che chiedersi che mai avesse quel capo mozzato da esser tanto felice.
 

 
 

 
 

   
 
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