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Autore: Calliope49    28/10/2015    2 recensioni
[Seguito di “By any other name”]
La regina di Inghilterra sta per giungere a Parigi da suo fratello, re Luigi. Un sicario straniero viene mandato a ucciderla, un agente al soldo del duca di Buckingham viene mandato per salvarla.
Nel mezzo, i moschettieri, Diane alle prese con il suo nuovo incarico e, ancora una volta, il confine tra “buoni” e “cattivi” che non è così preciso come si vorrebbe…
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Athos, Milady De Winter, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'On the side of the angels '
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VII
Il castello di Blois
 
Una fila di contadini tornava dai campi, vanghe e rastrelli gettati di traverso sulle spalle. Visti da lontano sembravano un gigantesco bruco che strisciava lentamente al margine del sentiero che portava al villaggio di Blois.
Il piccolo corteo di moschettieri sollevò polvere e ciuffi d’erba. I contadini li seguirono con lo sguardo fino a quando non sparirono tra gli alberi, più avanti.
Il cielo violetto ingoiava gli ultimi raggi di sole, quando giunsero in vista del castello.
Il gioco di luci e ombre sulla facciata spezzava le linee diritte della costruzione gotica, il palazzo sembrava annegare nella sera.
Athos vide Diane sporgersi dal finestrino per guardare l’edificio, il vento le soffiava i capelli sulla faccia. Il moschettiere si chiese se un’intera giornata chiusa dentro una carrozza non l’avesse resa ancora più pazza: a guardarla sembrava una molla pronta a scattare.
Mentre attraversavano il piazzale di lastricato dinnanzi al castello, Aramis voltò il cavallo e rimase a scrutare l’orizzonte che si perdeva nelle prime ombre della sera, il sentiero che si erano lasciati alle spalle sembrava deserto e il villaggio era un grumo di luci oltre una fila di alberi.
«Ho controllato, più volte» disse d’Artagnan. «Non siamo stati seguiti».
La carrozza si fermò e un maggiordomo in livrea uscì di corsa dalla porta principale. Incespicò sullo scalone di marmo, mentre con una mano tentava di sistemarsi alla meno peggio una parrucca boccolosa.
Si fermò davanti ai moschettieri che era rosso in viso, c’era quasi da temere che potesse farsi venire un collasso. Sbuffò come un mantice, cercando di recuperare un’aria decorosa mentre i soldati smontavano e Athos apriva lo sportello della carrozza.
«Sei un disastro» bisbigliò guardando Diane. La ragazza aveva i capelli sconvolti, poche forcine superstiti reggevano un’acconciatura ormai inesistente, il davanti dell’abito mezzo slacciato e una stecca del corsetto aveva forato la stoffa, spuntando tra i merletti come un indice puntato.
«E tu sei il solito cavaliere». La giovane si staccò le forcine con gesti rabbiosi e diede uno strattone verso l’alto alla scollatura del vestito. Restava comunque impresentabile.
Athos inspirò, come se potesse inalare dall’aria tutto il coraggio e la pazienza di cui sentiva di aver bisogno.
Tese la mano a Diane con lo stesso formale distacco che avrebbe usato con una regina vera e lei mise su un’espressione solenne che sembrava il volto dipinto di una marionetta.
Il moschettiere vide una risata trattenuta brillare nello sguardo dei suoi compagni.
Che Dio ci assista…
Il maggiordomo fece un profondo inchino, rischiando di farsi scivolare la parrucca dalla testa.
«Vostra altezza, siamo lieti di avervi qui» disse. Se aveva notato l’improbabile tenuta della finta regina, non lo diede a vedere, del resto nemmeno lui stava dando il meglio di sé.
«Grazie, monsieur. Ho sempre desiderato visitare questo castello» rispose lei in uno sfarfallio di ciglia.
«Ma, altezza, ci siete già stata. Quando eravate piccola, con vostra madre»
«Ah. Sì, certo… abbiate pazienza, quando la tua famiglia ha un sacco di castelli, a un certo punto cominciano a sembrarti tutti uguali».
Athos alzò gli occhi al cielo e dovette trattenersi dal dare una gomitata al fianco di Diane. D’Artagnan tossicchiò con una certa enfasi, Aramis e Porthos si scambiarono un’occhiata obliqua.
«Sarà meglio che entrate, altezza» intervenne Porthos, la voce rotta dalle risate trattenute. «Comincia a far freddo qui fuori».
Era un’ottima idea: sottrarre Diane al maggiordomo e metterla al riparo all’interno del castello, tutto molto sensato.
Mentre raggiungevano l’ingresso, il domestico si profuse in un lungo soliloquio sulla scarsità del personale, di come quella casa fosse caduta in disgrazia da quando Maria de Medici  l’aveva abbandonata. Diane ascoltò quel lagnoso monologo con paziente educazione, fin troppo per una regina nota per la somiglianza col suo bizzoso fratello.
Il castello portava, in effetti, i segni dell’abbandono. I tendaggi erano impolverati e uno strato opaco copriva i vetri, la polvere era annidata negli angoli delle cornici dei quadri.
C’era qualcosa di triste, persino lugubre in quel posto.
«E della sicurezza, cosa mi dite?» chiese Athos. Sperò che l’aura spettrale di quel luogo non fosse un presagio.
Il maggiordomo si strinse nelle spalle. «Una decina di guardie impigrite. Ma tanto qui non succede mai niente».
Confortante.
Athos e i suoi compagni si scambiarono un’occhiata nervosa. Ogni reggimento inviava i suoi soldati peggiori a fare la guardia ai palazzi vuoti: che ci fossero o no quelle dieci guardie non avrebbe fatto alcuna differenza.
«È molto peggio di quello che avevamo pensato» sospirò Aramis, mentre il maggiordomo spariva dietro una porta per controllare che gli appartamenti della regina fossero in ordine.
D’Artagnan scosse il capo. «Questo posto è praticamente una locanda, in quanto a libertà di entrata e uscita» aggiunse.
«Grazie, ora sì che mi sento al sicuro» fece Diane.
«Quello che mi domando io» intervenne Porthos, «è se il sicario dovesse arrivare abbastanza vicino a lei, riconoscerà che non è la regina di Inghilterra? Insomma, quanto da vicino può averla vista quel giorno a Notre Dame?»
«Vedremo di non farlo avvicinare» replicò prontamente Aramis.
«No, voglio dire che se non lo prendiamo e lui smaschera il piano saremo punto e d’accapo»
«La regina di Inghilterra è al sicuro nel luogo segreto disposto da Richelieu» considerò Athos. «Dobbiamo comunque acciuffare l’attentatore finché siamo qui, non so se avremo una seconda possibilità di trovarlo»
«Sarà un vero spasso» brontolò Diane.
Tutti loro sembravano dare per scontato che il sicario li avesse seguiti, in qualche modo, e che si sarebbe fatto vivo.
Il maggiordomo riemerse da dietro la porta laccata.
«Spero che le vostre stanze siano di vostro gradimento, altezza» trillò.
I moschettieri accompagnarono la ragazza negli alloggi della regina. Si guardarono attorno per valutare gli ingressi e le aperture.
«Non va bene» sentenziò Athos, dopo qualche minuto.
Il maggiordomo fece una faccia mortificata, i boccoli della parrucca sembrarono appassire come fiori. «Perché mai?».
«È al piano terra» rispose il moschettiere in tono piatto. Tutte quelle dannate finestre così maledettamente accessibili; troppi pochi metri tra l’ingresso e la stanza; troppo facile da spiare dall’esterno.
«E a me non piacciono i piani bassi» disse Diane titubante, come se fosse una domanda.
«Ma, altezza, questa era la stanza dove dormivate da bambina» protestò debolmente il maggiordomo. «L’avevo fatta preparare, il piano di sopra è in disordine e non c’è abbastanza personale per…»
«Preparate una camera qualsiasi» sbottò Athos, spazientito.
Aramis alzò le mani con fare conciliante. «Sua altezza è molto stanca, è stato un lungo viaggio»
«E noi vorremo cenare» puntualizzò Porthos.
Il maggiordomo scosse il capo sconsolato e si avviò di sopra, borbottando qualcosa sulle voci che dicevano che la vita londinese non avesse affatto giovato alla sorella del re.
«Pover’uomo» mormorò Diane quando lo vide sparire in cima alle scale.
«La prudenza non è mai troppa» le rispose d’Artagnan.
«Dunque, qual è il piano?»
«Stiamo qui e aspettiamo».
La ragazza spalancò gli occhi. «Per quanto tempo? E se il sicario non si fa vedere?»
«Ti ricordo che venire qui è stata una tua idea» borbottò Athos.
«Mi pare fosse un’idea del cardinale»
«Infatti» convenne Porthos. «Per questo non può che essere brutta. E, santo cielo, ci daranno da mangiare prima o poi?»
 
Il desiderio di Porthos venne esaudito poco dopo. Almeno in un certo senso.
L’enorme sala da pranzo sembrava una cripta. Le statue contro le pareti erano coperte da lenzuola impolverate, come sudari. L’ambiente, troppo grande per una persona sola, non aveva abbastanza luce.
Dalle finestre arrivava sottile il frinire dei primi grilli.
Diane sedeva a capo di un’enorme tavola di legno scuro, irrigidita contro l’alto schienale intagliato di una sedia che doveva essere lì dal medioevo.
Alle sue spalle, i moschettieri stavano ritti come colonne, stirando con discrezione le braccia o spostando il peso da una gamba all’altra. La stanchezza della giornata di viaggio cominciava a farsi sentire in maniera quasi dolorosa.
Cameriere goffe con le cuffie inamidate servirono la cena in un’infinità di porcellane mentre il maggiordomo sgambettava attorno al tavolo scusandosi per la poca cura con cui era stato preparato il pasto e per altre mille cose a cui nessuno aveva fatto caso.
«… se solo sua altezza ci avesse avvisati con più anticipo» concluse, affranto.
Diane strinse le dita attorno al tovagliolo che teneva appoggiato in grembo. Era ancora conciata come uno spaventapasseri, ma tentava in ogni modo di darsi un contegno regale.
Per renderle giustizia, andava detto che non era certo priva di eleganza, il duca e gli insegnanti del collegio avevano fatto un ottimo lavoro da quel punto di vista, semplicemente a volte si dimenticava di essere una donna adulta, ma non avrebbe sfigurato come moglie di un gran signore alla corte dei papi.
Athos arricciò le labbra, sorpreso da quel pensiero e distolse lo sguardo, osservando il nero del cielo oltre le finestre.
Sì, di certo a Roma sarebbe stata più al sicuro, insistette una voce molesta nella sua mente.
«Sareste così gentile da andare ad accendere il camino nella mia stanza?» esclamò all’improvviso Diane, rivolta al maggiordomo.
L’uomo si riscosse, per poco la parrucca non gli saltò dalla testa.
«Il camino?» chiese, perplesso.
«Sì, il camino»
«Siamo in primavera, altezza»
«Mi sono portata dietro il freddo da Londra, va bene?». Diane si lasciò cadere contro lo schienale. «Per piacere» aggiunse in un tono che voleva essere gentile ma che finì per suonare minaccioso.
Il maggiordomo annuì. «Come vostra altezza desidera» soffiò prima di correre a grandi passi fuori dalla stanza.
«Mi sento tremendamente a disagio» disse la ragazza, abbandonando le mani oltre i braccioli della sedia. «E voi quattro lì dietro non siete di aiuto»
«Se compiace a vostra altezza, Aramis potrebbe cantarvi qualcosa: ha una bella voce» scherzò d’Artagnan.
«Lo mangi quello?» fece Porthos, indicando un pezzo di pane  imburrato in un piattino d’argento con un centrino.
«Non l’ho mangiato perché non so se devo usare coltello e forchetta o no. È tutto tuo, comunque».
Athos fece il giro della grande stanza, controllando una ad una le finestre. Il bosco attorno al castello era una macchia di nero, poche lanterne brillavano nel piazzale, insieme a un falò dove sedevano cinque delle dieci guardie del palazzo.
Ogni riflesso, ogni scricchiolio sembrava una minaccia. A fare da contrappunto a quel pensiero, il vento fischiò rabbioso, con un suono simile a uno strillo acuto.
«Questo posto dà i brividi» sbuffò Diane, tormentando con la forchetta quel che restava di una coscia di pollo.
Aramis si appoggiò con il fianco al bordo del tavolo. «Ma certo, è infestato» asserì con un sorriso divertito.
«Anche il collegio dove stavo a Roma» rispose la ragazza. «Ma fantasmi io non ne ho mai incontrati».
«Forse hanno più paura loro di noi di quanto ne abbiamo noi di loro» considerò Porthos, pulendosi i baffi dalle briciole.
«No, aspetta, perché dici che il castello è infestato?» chiese d’Artagnan. Lanciò un’occhiata nervosa alla stanza in penombra, alle sagome delle statue coperte dai drappi.
«Superstizione da guascone?» scherzò Aramis.
Il ragazzo scrollò le spalle e tentò di darsi un’aria convinta. «Semplice curiosità».
«Valentina Visconti rimase richiusa qua dentro dopo l’assassinio del marito, si dice che il suo fantasma di vedova inconsolabile sia rimasto a svolazzare per i corridoi»
«Speriamo che almeno ci lasci dormire» borbottò Diane.
 
***
 
«Si muore dal caldo qui dentro» sbottò Diane.
«Certo. Hai fatto accendere il camino» le ricordò d’Artagnan. Il guascone si avvicinò all’ampia finestra e chiuse le tende con uno scatto dopo aver lanciato un’occhiata guardinga al cortile con alte querce che spuntavano nel semibuio come pilastri contorti.
La ragazza si sedette sul bordo del letto, la gonna dell’abito si alzò e si afflosciò con uno sbuffo attorno alla sua vita. Quando agitò i piedi, le scarpette di raso le volarono via, ognuna in una direzione diversa. La destra scomparve sotto una specchiera dorata, la sinistra era un fungo al centro del tappeto.
Diane alzò lo sguardo sul baldacchino trapuntato di seta viola.
«Questo letto ha il colore dei paramenti funebri» disse Porthos.
Aramis si sedette sull’altro lato del materasso e si dondolò facendo scricchiolare le molle. «È anche scomodo come un patibolo».
Lei non li stava ascoltando, i suoi pensieri erano volati a Parigi, a suo zio e alla regina. Le dispiaceva essere andata via senza vederla, ma forse Anna non era poi tanto desiderosa di incontrarla.
Lo sguardo di Diane vagò per la stanza e si posò su Athos. Il moschettiere stava controllando per l’ennesima volta la pistola, distratto dai propri pensieri.
Un domestico entrò trascinando con sé il pesante baule da viaggio di sua altezza e guardò con un misto di perplessità e disappunto i moschettieri che vagavano con noncuranza nella grande camera della regina di Inghilterra.
L’uomo si defilò con una profonda riverenza e Diane aprì il baule con un calcio, i piedi fasciati da bianchissime calze di seta.
Tirò fuori i suoi abiti da soldato e una spada e un pugnale da duello.
«Me li ha dati mio zio» si giustificò davanti alle occhiate esasperate dei quattro uomini. Aramis sbuffò una risata sotto i baffi mentre la ragazza nascondeva la lama sotto al cuscino.
La brace nel camino si spense con un sibilo, una bolla di fumo acre aleggiò per qualche istante tra la cenere.
Da dietro al paravento dove era andata a cambiarsi, Diane ascoltò i passi irrequieti dei moschettieri, come se cercassero qualcosa da fare per non lasciarla sola.
«Dormire» suggerì, allacciandosi in vita la cintura dei suoi calzoni da soldatessa.
«Come dici?» chiese Aramis.
«Dobbiamo andare a dormire, tutti quanti»
«… disse quella che ha nascosto una spada sotto al cuscino» fece Porthos.
Ahos, appoggiato con le spalle contro il muro, strinse le labbra per soffocare uno sbadiglio. «Faremo dei turni alla porta» decretò. «Due alla volta».
Agli altri parve una soluzione accettabile e Diane li seguì con lo sguardo mentre uscivano.
«Urla, se ti serve qualcosa» disse d’Artagnan prima di chiudere la porta della ricca anticamera che separava la stanza da letto dal corridoio.
Athos sembrava troppo stanco per un’ultima raccomandazione o un’ultima protesta contro quella situazione che sembrava piacergli sempre meno. Forse era solo colpa di quella grottesca messinscena, ma Diane avvertì tra loro la distanza di un silenzio comprensibile solo in apparenza.
Rimasta sola, si lanciò a peso morto sul letto, affondò tra le lenzuola di raso come in un prato. C’era un odore come di stantio tra quelle coperte e nel silenzio impenetrabile della stanza vuota le parve di sentire suoni lontani, echi e scricchiolii provenienti da un luogo indistinto.
«Sciocchezze!» sibilò stizzita contro il baldacchino. Non aveva mai creduto ai fantasmi e non avrebbe cominciato quella notte.
Aveva bisogno di riposo tanto quanto i moschettieri, si disse.
Spense la lampada ad olio sul comodino e infilò una mano sotto al guanciale. Quando sfiorò l’elsa della spada si sentì di colpo più sicura e pensò che niente l’avrebbe colta alla sprovvista tranne il sonno che la fece cadere di colpo.
I rumori arrivarono dopo, da lontano e dal buio. Suoni sordi, un raspare di cardini e pietre smosse, qualcosa che vagava dietro la parete, dentro la parete.
Aprì gli occhi, spiando la stanza attraverso uno spiraglio tra le lenzuola. Con lo sguardo annebbiato dal sonno, vide solo la luce fluttuare attraverso il muro. Pensò ai fantasmi di cui le aveva parlato Aramis e più il suo cervello le ripeteva che era impossibile più il suo cuore le martellava nel petto per una paura superstiziosa che non riusciva a controllare.
La luce emerse da muro, un fazzoletto di fuoco che sembrava essere sgusciato dalle linee geometriche dell’affresco. La fiamma rivelò la figura sottile di una donna, l’abito di sete scuro e il volto coperto da un cappuccio come un grumo di buio imperscrutabile.
Il fantasma mosse qualche passo verso il baldacchino e, infine, parlò.
 
***
 
Conosceva il castello: era stato una delle residenze del cardinale, nel tempo in cui la sua vita era passata dalla luce alle ombre e Richelieu aveva raccolto dalla strada quello che restava della contessa de La Fére.
Era tornata a splendere sotto l’ala di sua Eminenza, ma non era più luce di diamante, solo un fuoco fatuo, una fiamma feroce alimentata dal rancore e dal rimpianto.
Si raccontavano storie sul palazzo di Blois e Milady non aveva mai scoperto quante di queste fossero vere ma era una dei pochi a conoscere i passaggi segreti e le vie nascoste che erano rimaste intatte dalle molte ristrutturazioni che l’edificio aveva subito negli anni. Quelle viscere di pietra e polvere esistevano da prima che la corona cadesse sul capo della dinastia dei Borboni.
Nel buio dei cunicoli, la fiaccola pulsava di luce dorata.
La donna strinse i denti quando sentì gli squittii e il ticchettare di zampette e code da qualche parte in mezzo all’oscurità.
I moschettieri avevano portato la regina d’Inghilterra lontano da Parigi, una precauzione del tutto inutile dato che tutta la città sapeva di quel trasferimento, persino lei ne era venuta a conoscenza e non c’erano dubbi che lo sapesse anche il dannato sicario. Un piano stupido e rischioso a cui porre rimedio prima che fosse troppo tardi: quante probabilità c’erano che il sicario li avesse seguiti come aveva fatto lei?
Gli uomini di Treville avevano forse qualche pregio, ma non brillavano per arguzia. Li maledisse mentre inciampava in un’irregolarità del pavimento.
La stanza della regina era al secondo piano. Milady sperò che Enrichetta Maria la riconoscesse e si fidasse di lei: doveva portarla via e nasconderla prima che fosse troppo tardi, poi avrebbe pensato a come lasciare la Francia.
Provò una punta di divertimento al pensiero di rubare di nascosto sua altezza da sotto il naso dei moschettieri. A rubare, dopotutto, era sempre stata brava; altri talenti erano giunti col tempo.
Il pannello nella parete ruotò con un suono sottile di cardini. Nel buio della stanza, la regina di Inghilterra era una curva sotto il bianco delle lenzuola, una pozza di luce illuminava il baldacchino del letto.
Milady rimase un attimo immobile, reggendo la fiaccola e osservando la figura emergere dal bozzolo di coperte. Per un attimo ebbe paura che la sorella di Luigi potesse urlare, ma la figura rimase muta e attonita, gli occhi fissi sulla lingua di fuoco della fiaccola. 
«Altezza… dovete venire con me».
Il corpo ebbe un tremito e Milady si ritrovò a osservare sorpresa la figura che saltava giù dal materasso con una spada tra le mani e abiti decisamente poco regali.
La torcia quasi cadde dalla sua stretta ma la tenne salda mentre cercava di illuminare la figura sconosciuta che ora sembrava un uomo troppo minuto.
Non era un uomo, era una ragazza con calzoni e giacca di pelle e guardava avanti a sé come se avesse visto un fantasma o come se avesse appena iniziato a credere ai fantasmi.
Con uno scatto goffo la ragazza allungò la mano verso la lampada sul comodino e la fiammella si ingigantì fino a disegnare un rombo sul muro.
La sorpresa mutò il volto gelido e determinato di Milady in una maschera di incredulità.
«Non siete Enrichetta Maria» borbottò, avvertendo subito la stupidità di quell’affermazione assolutamente superflua e del suo tono querulo.
Non che la ragazza avesse un’aria particolarmente brillante, comunque.
Milady avvertì l’impulso di stringerle le mani attorno al collo sottile e liberarsi di quello sguardo da pesce lesso, non riusciva a credere di aver perso le tracce di Enrichetta Maria e di aver seguito una falsa pista.
Ora era evidente: avevano scambiato la regina di Inghilterra con una sostituta per attirare il sicario, non era difficile capire che dietro quell’impresa si celava lo zampino del cardinale.
La rabbia d’esser stata giocata incupì lo sguardo di Milady e per un istante la ragazza trasalì.
«Siete la donna della profumeria!» esclamò muovendo un passo verso di lei.
Solo allora la riconobbe.
«E voi chi o cosa siete?» le rispose di rimando, celando la rabbia dietro una maschera di gelida minaccia.
«Il bersaglio sbagliato, a quanto pare». La giovane esibì un sorriso beffardo anche se le tremava la mano.
Era uno strano esemplare, quella ragazzina, e Milady provava una simpatia istintiva per le donne fuori dal comune - come la moglie del merciaio che tanto piaceva al giovane d’Artagnan, ad esempio. Ma a volte le donne poco comuni finivano per diventare ostacoli sul suo cammino… persino una come quella lì, con il suo ghigno da eroina di ballate da taverna e il cuore soffice di chi non avrebbe mai usato davvero la spada che tanto baldanzosamente teneva in pugno. 
«È una piacevole conquista sulla strada della parità tra sessi il fatto che anche le donne vengano impiegate come sicari» commentò la ragazzina. «Ad ogni modo, per il vostro bene, sarebbe stato meglio che vi foste scelta un’altra occupazione».
«Non indugiate troppo nel fare sarcasmo, mia cara, mi siete già venuta a noia e io non sono il sicario mandato a uccidere la regina di Inghilterra»
«Frequentate passaggi segreti e vecchi castelli per diletto, quindi?».
Milady assottigliò lo sguardo senza tradire alcuna emozione. La sua inopportuna interlocutrice non aveva gridato e non sembrava intenzionata a farlo, quindi c’era ancora speranza per lei di metterla a tacere e andarsene di nascosto così com’era arrivata.
Non aveva voglia di uccidere la mocciosa, ma se non lo avesse fatto i moschettieri avrebbero scoperto che era in Francia, Athos le avrebbe dato la caccia e lei non sarebbe riuscita a proteggere Enrichetta Maria.
«Chiunque voi siate, mademoiselle, siete un fastidio inimmaginabile» sospirò.
«Se mi dite il vostro nome, vi dico il mio».
Con un movimento impercettibile, Milady fece per estrarre il pugnale dalla scollatura del coretto. Un solo lancio preciso al centro del petto sarebbe bastato.
La mano guantata della donna non arrivò mai a toccare la lama. La porta si aprì di schianto e nella penombra della stanza brillò la canna di una pistola.
«Diane» chiamò una voce ferma e un po’ imperiosa. Una voce che Milady conosceva abbastanza da cogliere il fremito dietro quel tono irremovibile.

Athos…




In questo periodo proprio non riesco a fare di meglio con la tempistica degli aggiornamenti. Vi prego di scusarmi.
Alla prossima.
C. 

 
  
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