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Autore: Amantea    16/11/2015    9 recensioni
"Un uomo legge il giornale seduto all'interno della sua automobile, ogni mattina.
Una donna anziana non mette mai il cappotto, nemmeno nelle mattine d'inverno più fredde.
Mia madre mi tiene per mano mentre camminiamo spedite, è presto, ma non poi così presto, me lo ripete, dolcemente, mentre mi tira un po', lungo la salita, che è faticosa per le mie gambette muscolose ma corte, rispetto alle sue. Mia madre ha lunghe gambe, dalla falcata decisa, e un poco nervosa.
Salutiamo i passanti, pochi in verità, perché qui, a Neverville, come le sento ripetere spesso, ci sono poche anime, e quasi tutte perdute."
Un'avventura negli spazi infiniti, una missione da compiere, narrata dalla voce della protagonista, che non è quello che sembra, ricordando la propria infanzia, temendo quello che sarà ...
La mia prima storia originale, prendendo a prestito la fantascienza per scavare nell'animo dei protagonisti.
Genere: Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Neverville



NEVERVILLE


-1-
Tutto quello che ho


Un uomo legge il giornale seduto all'interno della sua automobile, ogni mattina.
Una donna anziana non mette mai il cappotto, nemmeno nelle mattine d'inverno più fredde.

Mia madre mi tiene per mano mentre camminiamo spedite, è presto, ma non poi così presto, me lo ripete, dolcemente, mentre mi tira un po', lungo la salita, che è faticosa per le mie gambette muscolose ma corte, rispetto alle sue. Mia madre ha lunghe gambe, dalla falcata decisa, e un poco nervosa.
Salutiamo i passanti, pochi in verità, perché qui, a Neverville, come le sento ripetere spesso, ci sono poche anime, e quasi tutte perdute.

Anche mia madre, forse, è un'anima persa.
Cerca di non farmelo vedere, perché io sono piccola, e i bambini hanno diritto alla loro felicità, anche quando tutto, intorno a loro, sembra gridare il contrario.
Così non mi parla mai di mio padre, né del suo lavoro. Né della fatica che deve fare, lei, così bella, abituata alle grandi metropoli, a vivere in un pugno di casupole sparse su questa collina, a ridosso del mare.
Con me è dolce, e ride spesso. Mi tiene in braccio per farmi vedere come brilla, all'orizzonte, il sole quando si adagia su quel filo d'acqua che è il mare visto da quassù. E mi ripete che sono fortunata a vivere in un posto dove la follia degli uomini sembra non avere ancora attecchito.
Qui ci sono radici antiche, e aria buona.
Qui saremo al sicuro, mi ripete.
Me lo ripete spesso, così tante volte che alla fine sembra crederci anche lei.
Io le credo, è ovvio. Lei è mia madre. Ed è tutto quello che ho.


- Mina!
E' il Capitano che mi chiama, ha il tono imperioso, come sempre.
Getto uno sguardo pigro e rapido all'orologio che troneggia sopra alla mia brandina. Non che il tempo sulla Motherhead abbia un qualche significato. E' un retaggio infantile, qualcosa che ci fa sentire ancora essere umani, sebbene a una distanza incolmabile dalla Terra. Ma per non impazzire del tutto il Capitano ha voluto che ci fosse un ritmo nelle nostre giornate senza sole, e nelle nostre notti senza luna. E allora, quell'orologio mi ricorda che è quasi mezzogiorno, e che mi staranno sicuramente cercando per il pranzo, se così si può chiamare il momento in cui ci ritroviamo nella saletta azzurra per fare il punto della situazione.
- Minaaa!!!
Sorrido, alzandomi a sedere, poggiando a terra le punte degli stivali. Potrebbe mandarmi a chiamare da qualcun altro, oppure farmi chiamare semplicemente premendo un pulsante... invece ogni giorno è così, si sgola per i corridoi per cercarmi. Credo che gli piaccia il suono del mio nome. Credo che provi una sottile soddisfazione a prendersi cura personalmente di me.
Quando la porta del mio piccolo abitacolo scompare nell'intercapedine della parete me lo ritrovo davanti, il pugno ancora alzato.
I suoi begli occhi scuri si ammorbidiscono, prima della bocca.
- Mina, quante volte...
- Ho sentito -, ribatto. Mi sfugge un lieve sorriso anche a me. Mi accorgo che mi sta guardando, forse un po' troppo. Un po' troppo intensamente, per essere il mio Capitano.
- Dai, ti aspettano. Tutti, nella sala azzurra.
- Sì, arrivo.
La porta si richiude dietro di me. Lo seguo, seguo la sua figura alta, fasciata nella tuta d'ordinanza. Potrebbe essere mio padre, forse per quello si prende cura personalmente di me. Ormai sono quattro mesi che viaggiamo nello spazio. Altrettanti ne mancano, prima di raggiungere la nostra destinazione.

I nostri passi non fanno rumore lungo questi corridoi.
Quando finalmente entriamo nella saletta mi accorgo, in effetti, che mancavo solo io.
Non amo molto questi momenti conviviali. Il mangiare insieme, se così si può definire deglutire quello che è stato predisposto per la nostra sopravvivenza, è una scusa per fare gruppo. Lo sa bene chi ci ha mandato quassù, in missione. La solitudine dello spazio ti entra nelle vene, e te le spezza.
La ristrettezza degli spazi, l'aria finta che respiriamo, il buio che ci inghiotte, il nulla in cui viaggiamo... basta poco per perdere il senno.
Credo che qualcuno lo abbia già perso, in realtà, o forse semplicemente è nato senza.
Mi riferisco a Jody, e lui lo sa, perché non perdo occasione per dirgli che è pazzo. Lui mi ride contro, e di solito poi rido anche io.
Ecco, credo che se non ci fosse lui mi sentirei un po' più sola, quassù. Perché con le donne non ho legato molto.
Se non ci fossero il Capitano, Jody, e Pete...
Ma Pete, è tutta un'altra storia.
   
 
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