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Autore: EsterElle    21/11/2015    1 recensioni
Cosa succede quando un dittatore vince una guerra?
Reika non lo sa, ovviamente. Per lei il Sistema è giusto, il Rettore è buono e l’ordine vige sulle cose del mondo. Reika assume il Crill e dimentica tutto ciò che non le piace, tutto ciò che potrebbe turbarla, spaventarla, angosciarla … farla sentire viva.
Saranno i ribelli a insegnarle la dura lezione: se la libertà è vecchia e i sentimenti anziani come può un cuore giovane continuare a esistere?
“Questo è un mondo giunto alla fine. Nulla nasce, nulla muore, nemmeno il tempo esiste”.
(Prima classificata al contest "Una domanda a te e una a me" indetto da Grazianarena sul forum di Efp)
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Parte prima
MISSIONE
 
 



 
 
“Questo è un mondo giunto alla fine.
Nulla nasce, nulla muore, nemmeno il tempo esiste”
 
 
 

 
La Strada dei Carri correva dritta e monotona, piena di buchi, di sassi e di polvere, e Reika era affascinata dai barrocci e dagli asini che la percorrevano. Pensò che fosse un modo ben scomodo di viaggiare, in balia dell’instabilità delle quattro ruote di ferro; lei, dal’altra parte, era confortata dal rumore avvolgente e lieve del motore e dalla strada liscia e asfaltata, parallela alla via carraia, che scorreva veloce sotto le ruote dell’auto.
Il viaggio stava procedendo nel migliore dei modi, come da programma. Erano partiti dalla Casa Madre il giorno precedente e ben presto si erano lasciati alle spalle l’ordine e la pulizia della capitale della Regione Minòs. Per Reika e Eustace, entrambi allievi di Terzo Livello, si trattava della prima missione; i loro maestri, rispettivamente allievi di Primo e Secondo Livello, erano invece soldati ben allenati e veterani di molte incursioni. Reika si sentiva al sicuro; la missione prevedeva solamente di fermare la propaganda ribelle in un piccolo villaggio, un punto insignificante di una rete ben più vasta.
In un momento di silenzio, con la precisione che la distingueva, si sistemò meglio intorno al collo il fazzoletto di fine seta celeste e spazzolò metodicamente il davanti della giacca della divisa ufficiale; maestra Jun, sua superiore, le scoccò uno sguardo di approvazione.
Reika amava l’ordine e tutto ciò che restava al proprio posto: amava la pulizia e il candore della sua uniforme e i perfetti inserti bordeaux che indicavano il suo status di allieva. Allo stesso modo amava  la suddivisione del tempo e le regole della Casa, la giovinezza fiera e forte, la compostezza e la saggezza. A sedici anni era un’abile e promettente figlia del Sistema e non poteva esserne più orgogliosa. Tutto ciò che conosceva e amava era il Sistema; motivo per cui la sua prima missione non si stava rivelando priva di alcune difficoltà.
Per cominciare, difficile era il mondo al di là delle mura della Casa Madre. Ciò che Reika osservava al di là del finestrino era molto diverso dalle illustrazioni presenti nei suoi libri di scuola: tutto era così vecchio! E poi, la polvere: ricopriva ogni cosa, fine e bianca, come il latte e la neve. Come si poteva apprezzare qualcosa in rovina?
Proprio in quel momento i suoi occhi incrociarono per un istante quelli di una donna, seduta sul davanti di un vecchio carro, dall’altra parte della strada. Reika distolse immediatamente lo sguardo, disgustata. Era così brutta e la sua pelle tremendamente grinzosa, come se stesse per staccarsi dalle ossa del viso. Era una donna secca e le sue labbra sembravano risucchiate all’interno della bocca; appariva fragile e debole e lenta!
Reika si passò velocemente una mano tra i corti riccioli castani: gli occhi piccoli e pungenti di quella donna, così carichi di sofferenza, l’avevano turbata.
Blaize, l’uomo alla guida, si accorse del suo disagio:
“Maestro Hector, credo che alla giovane Reika serva un quarto di Crill in aggiunta alla dose quotidiana” disse, con voce sommessa e pacata, come si conviene dopo un lungo silenzio.
Hector, un uomo sulla sessantina seduto sul sedile del passeggero, si voltò per osservarla e Reika lasciò che lui la esaminasse. Era un uomo in salute, di Primo Livello, dai folti capelli bruni striati di bianco e penetranti occhi verdi, agile e scattante come si addice ad un individuo nato e cresciuto sotto la guida del Sistema e del Rettore. Reika si fidava ciecamente di lui.
“Hai ragione, Blaize” convenne infine. “Ne disporrò un quarto anche per te, Eustace. Per sicurezza” aggiunse, estraendo dalla sacca da viaggio una sottile scatoletta di latta.
L’andamento dell’auto rallentò sensibilmente e Hector sollevò con cura e attenzione il coperchio del contenitore, estraendone due scaglie di pillola bianca.
Maestra Jun, al loro fianco, predispose l’acqua frizzante con cui i ragazzi erano soliti sorbire la dose quotidiana di Crill.
Reika mandò giù in fretta la pillola mentre sfiorava con la punta della dita un ricciolo ribelle sulla nuca. Il suo comportamento da giovane allieva in preda alle emozioni la imbarazzava e faceva si che non si sentisse a suo agio. Si rasserenò pensando che presto il Crill avrebbe messo a tacere quella sensazione di malessere e che tutto sarebbe tornato come prima.
Eustace, suo confratello di Terzo Livello, le scoccò uno sguardo complice mentre deglutiva il suo sorso d’acqua; sembrava più tranquillo di lei, dopotutto.
Era la vecchiaia il vero problema, rifletté la giovane mentre attendeva gli effetti del farmaco. Fare i conti col mistero della vita in rovina la metteva sempre in agitazione, facendo si che venisse meno al controllo e alla sobrietà richiesti ad un vero soldato.
Reika non aveva familiarità con l’età avanzata, ovviamente. Alla Casa Madre non esisteva nulla di simile, non nel luogo in cui crescere sani e crescere forti era il principale dovere di ogni abitante.
La gioventù era, per il Sistema, uno dei massimi valori e un tesoro da proteggere ad ogni costo dagli assalti del tempo: motivo per cui le giovani generazioni di allievi non erano esposte al mondo esterno fino al raggiungimento di una certa maturità psichica e fisica.
- È molto importante non farsi compromettere dagli abitanti della regione - le aveva detto il Rettore in persona, prima della partenza. Né farsi coinvolgere nei loro drammi e nelle loro storie, ovviamente.
Reika aveva il dovere di tenere a mente quanto speciale fosse la sua esistenza per il Sistema e quanto la sua stessa vita fosse superiore a quella di ogni essere vivente al di fuori della Casa.
Lei era il futuro. Già il Sistema aveva perso troppo con il rapimento di Eizan e Lavinia, i suoi confratelli, e il Rettore stesso tremava al pensiero della pericolosità di lasciare giovani promesse in mano ai ribelli. Reika sapeva che nulla alimenta il fuoco della rivolta come la prospettiva di rinascita, di vita, di fede in un futuro diverso.
Si era messa in viaggio sicura che, se avesse tenuto fede a queste preziose indicazioni, non avrebbe avuto problemi durante la missione: eppure, il mondo esterno aveva trovato il modo di colpirla e di attaccare la sua rettitudine.
Il Crill era la salvezza e lei era mille volte grata agli Scienziati dell’Occulto che lo avevano creato più di cento anni prima. Grata a chi lo aveva somministrato a tutta la popolazione, garantendo più di un secolo di pace e armonia.
Percepiva la calma fredda e razionale scendere su di lei man mano che i minuti passavano: ben presto fu nuovamente in grado di guardare fuori dal finestrino e non provare più paura né disagio né imbarazzo, nessuna pulsione verso ciò che è vietato.
Il Crill era vita, e nessuno poteva farne a meno.
 

 
...
 

Blaize fermò la macchina lungo una stradina di campagna e spense il motore. Il silenzio divenne, allora, davvero assoluto.
Il viottolo malamente asfaltato proseguiva lungo e sinuoso verso un gruppo di case grigie, sormontate da una torre diroccata; Reika scorse una grossa campana all’interno. Che idea sciocca, pensò.
A destra e a sinistra della strada si susseguivano campi coltivati e baracche di legno e l’aria profumava di mele e di terra. Era pomeriggio inoltrato e il vento d’autunno era umido e freddo mentre il sole perdeva il suo calore di minuto in minuto. Reika rabbrividì quando scese dall’auto, stirandosi leggermente il collo e le gambe indolenzite, passando velocemente una mano tra i riccioli corti.
“Seguitemi” disse semplicemente maestra Jun.
Maestro Hector si caricò sulle spalle il suo grosso zaino e Blaize si incarico di trasportare la cassetta di legno tenuta fino a quel momento nel bagagliaio. Camminarono ordinatamente in fila per pochi minuti, inoltrandosi fra i campi deserti a quell’ora della sera.
La meta, come Reika scoprì presto, era una casa malmessa, quasi cadente. Legno e lamiere coprivano gli squarci aperti dal vento e dell’incuria e la polvere ricopriva ogni cosa al suo interno. Odore di muffa, di vecchio e di animali impregnavano il tavolo, una credenza sgangherata e l’unica branda arrugginita. Una delle finestre era senza vetri e al camino mancavano un alcuni mattoni. Un mucchio di vecchi attrezzi giaceva nell’angolo più lontano dalla porta e dal soffitto pendevano mazzi di erbe ormai secche che lasciavano cadere, come pioggia dal cielo, minuscoli frammenti verdi ad ogni soffio di vento.
"Staremo qui finché non sarà calata la sera e torneremo qui al termine della missione” decretò maestro Hector, entrando per primo.
Reika annuì, cercando di soffocare il disagio e l’angoscia che stavano nuovamente infettando la sua mente e insinuando un tremolio nelle sue mani. Non aveva mai visto un luogo tanto povero e sudicio: si sentiva sporca, lei per prima, a quella vista. Decise di farsi forza, arrotolò un ricciolo sull’indice sinistro e poi entrò, decisa, a testa alta.
Eustace le sorrise quando raggiunse il suo fianco.
“Non lasciare che tutto questo squallore ti deconcentri, sorella” le bisbigliò all’orecchio.
“Non c’è problema” ribatté lei, fredda.
Passò velocemente la mani sulle cosce e il tessuto sintetico dell’uniforme ne asciugò il sudore.
Maestro Hector e Blaize uscirono a far legna, per accendere il fuoco e finalmente mangiare qualcosa.
Maestra Jun, invece, iniziò a sbottonare la sua giubba bianca con aria assente.
Reika non capiva.
“Anche voi, allievi. Spogliatevi e indossate i vestiti che troverete nello zaino di Hector” disse, in risposta ai loro sguardi curiosi.
Reika non riuscì a impedirsi di arrossire per quell’errore. Sapeva che la missione era in incognito e ovviamente non poteva presentarsi al villaggio con l’uniforme del Sistema!
Si affrettò a liberarsi dei suoi vestiti, piegandoli accuratamente in un angolo, timorosa di sgualcirli.
Tremava di freddo con solo la biancheria e una canottiera leggera addosso. Eustace finì di riporre i propri abiti, aprì lo zaino e le passò un sacchetto trasparente su cui c’era scritto il suo nome.
“Grazie fratello” rispose lei, senza il minimo imbarazzo.
Non esistevano, l’imbarazzo e le pulsioni, alla Casa Madre, grazie al Crill.
Maestra Jun aveva già indossato una lunga gonna nera e Reika ne trovò una simile, ma più corta, nel suo sacchetto.
Non aveva mai portato una gonna in vita sua.
“Prima le calze, giovane Reika” la corresse la donna, con un filo di impazienza.
Un errore dopo l’altro. La missione sembrava essere partita col piede sbagliato e Reika avrebbe desiderato poter assumere di nuovo del Crill: ma non voleva sembrava ancora più debole e sciocca e così non disse nulla.
Cercò di vestirsi più in fretta possibile: lottò con il reggicalze, con i bottoni della ruvida camicia di cotone, con le stringhe degli stivaletti.
Non c’era uno specchio ma poco male: la vanità era proibita alla Casa Madre.
Maestra Jun le raddrizzò il colletto della camicia e le ordinò di coprirsi la testa con il cappuccio del mantello: capelli corti come i suoi non erano comuni, nella Regione, spiegò. In più, era fondamentale nascondere la gioventù di tutti loro.
Reika obbedì, felice di accogliere il calore e l’anonimato garantito dal mantello scuro. Infine, erano pronti: Eustace non sembrava lui, con quei calzoni di tela e la giacca troppo larga, e persino Jun sembrava scomoda, avvolta com’era nel suo scialle di lana grezza.
Aspettarono in silenzio il ritorno di Blaize e maestro Hector.
 
“La notte è fredda, fratelli” fu lo schianto fragoroso e improvviso della voce di un uomo e il rumore dell’asse di legno che faceva da porta schiantata contro il muro.
Reika trasalì leggermente.
“Blaize porta qui il tuo carico di legna” comandò maestro Hector.
In pochi minuti l’oscurità della stanza si dileguò e tutti e cinque i figli del Sistema di radunarono accanto al fuoco, le mani tese e i volti arrossati dal calore improvviso.
“Non mi piacciono le missioni; è così scomodo dover passare la notte in questo modo” mormorò Blaize a nessuno in particolare, soffiando via un ciuffo di capelli corvini dalla fronte.
“Presto un po’ di azione ravviverà la nostra giornata, puoi esserne certo” ribatté maestra Jun, con una strana luce negli occhi, nonostante il viso in ombra.
“Prenderemo gli uomini i ribelli senza problemi, vero maestro?” chiese Eustace.
“Certamente, allievo, se tu e la giovane Reika farete esattamente ciò che vi è stato detto”.
“Si, signore” dissero entrambi, in coro.
“E poi torneremo alla Casa Madre a spron battuto” aggiunse Blaize, leggermente canzonatorio.
Reika riuscì a vedere Eustace arrossire vistosamente, al di là del calore del fuoco. Anche lui, quindi, era in preda a strane emozioni, dedusse. Che guaio.
“Mi sembri stranamente a disagio, Reika. Non è da te. Va tutto bene?”
Hector aveva un’intuizione spaventosa.
“Si, maestro. È colpa di questi strani abiti: non mi sento comoda e credo potrebbero rendere goffi i miei movimenti” mentì. Ma non del tutto.
“Scoprirai presto, allieva, che il tuo allenamento è in grado di portati alla vittoria in ogni battaglia, anche quella combattuta nelle condizioni peggiori” rispose maestra Jun.
“Abbi fiducia in te stessa e nel Sistema e tutto andrà come deve” fu l’incoraggiamento svogliato di Blaize. Mangiarono in fretta la zuppa sintetizzata in laboratorio, direttamente dalle scatole bianche. Sapeva di plastica e di bruciato, ma Reika si costrinse a finire la sua porzione. Hector tirò fuori dallo zaino una bottiglia piccola e piena di un liquido trasparente, ordinando a tutti di prenderne un sorso. Reika annaspò mentre mandava giù quello che poteva essere puro fuoco.
“Ci darà energia, stando a quel che dicono gli Scienziati dell’Occulto” spiegò Jun, asciugandosi una solitaria lacrima nata sul bordo di un occhio.
Poi Hector e Blaize si cambiarono, scambiandosi commenti sottovoce, con fare misterioso.
Reika utilizzò quel tempo per spiare fuori dalla finestra senza vetri, osservando il cielo blu e sgombro di nubi e la luna calante di quella notte. L’aria aveva un odore diverso, tra quei campi, e le stelle sembravano miliardi. Respirò piano e chiuse gli occhi, richiamando a sé tutto quello che aveva imparato nei lunghi anni alla Casa Madre.
“Bene, è ora” decretò maestro Hector, calandosi un cappello di feltro in testa e nascondendo la sua chioma ancora bruna e l’assenza di rughe sul viso.
Prima di uscire Reika afferrò il paio di coltelli che Blaize le porgeva dalla grande cassa di legno e se ne infilò uno alla cintura, sotto il mantello, e uno nello stivaletto. Non le era ancora concesso di usare armi da fuoco: erano estremamente rare nella Regione e non adatte al tipo di missione che si apprestavano a compiere. Solo maestro Hector e maestra Jun presero un paio di revolver vecchio tipo.
“Da questo momento lasciate da parte ogni pensiero superfluo: il Sistema ci manda in sua vece per compiere la sua giustizia. Siate degni di questo onore” disse con voce profonda Hector prima di chiudere la porta dietro di loro.
Il gruppo di case grigie alla fine della strada era il villaggio, scoprì Reika quando vi si addentrarono silenziosamente. La suola delle sue scarpe scricchiolava al contatto con la polvere, il pietrisco e i pezzi di intonaco disseminati lungo le strade un tempo lastricate. Alle sue spalle avevano lasciato quelle che dovevano essere state grandi e ricche dimore: passandoci davanti Reika aveva potuto scorgere solo le fondamenta annerite dal fuoco, i nidi degli uccelli e qualche masso.
Ovunque era rovina e distruzione, povertà e vecchiaia.
Reika odiava quel posto e agognava la Casa Madre ogni minuto di più.
Mentre camminavano in silenzio il vento fischiava tra gli spiragli delle finestre e delle porte chiuse delle case ancora in piedi e nessuno, tranne loro, popolava il villaggio. Qualche debole luce, qui e là, costrinse Reika ad ammettere che davvero qualcuno poteva vivere in un posto del genere.
Vivere felicemente, si corresse.
Il Sistema era generoso col suo popolo e a tutti era dato di vivere nel luogo che il Rettore aveva ritenuto più adatto alla felicità. Mentre camminava si ricordò delle lezioni di maestra Bernice: non bisogna sviluppare attaccamento per ciò che è materiale. La casa, i vestiti, le comodità non valgono molto in confronto alla pace e all’armonia.
Respirò, leggermente più serena. Quanta saggezza nelle leggi del Sistema! pensò, il cuore colmo d’orgoglio.
Rinvigorita, scoccò ad Eustace uno sguardo rassicurante e un sorriso. Lui ricambiò.
Da sotto il cappuccio, afferrò un ricciolo ribelle e lo spinse indietro, ben nascosto; poi, attraversò una porta che Blaize manteneva aperta per lei.
Si ritrovò in una sala calda e abbastanza illuminata, un grande fuoco ardeva nel camino e un profumo di zuppa e birra aleggiava ovunque. Era piuttosto affollato: uomini dai capelli candidi e lerce camice sedevano ai tavoli di legno, tracce di fango e di terra segnavano le assi del pavimento, qualche donna sedeva accanto al fuoco, con la pelle grinzosa e gli occhi annacquati, intenta nel lavoro di cucito. Un paio di cani si aggiravano famelici tra gli sgabelli e le sedie.
Il locandiere venne loro incontro lentamente, pulendosi le mani in una straccio lurido, trascinandosi dietro una gamba offesa.
“I signori desiderano?” chiese, con occhi indagatori.
Reika sapeva quanto fosse fondamentale che quegli uomini non si accorgessero della loro gioventù. Quindi, chinò leggermente la testa e prese a respirare affannosamente, come avevano concordato.
“Da bere per tutti e un posto lontano dal fuoco: mia sorella Sarah ha problemi a respirare e il fumo le fa male” rispose Hector con voce flebile, tanto diversa dal suo tono deciso e profondo di sempre.
Il locandiere annuì e con un cenno sgarbato comandò di seguirlo.
Camminarono piano, cercando di non dare nell’occhio, e sedettero ad un tavolo troppo piccolo per ospitare tutto il loro gruppo.
Il locandiere non ha simpatia per noi, pensò Reika, in un fremito di paura.
 “Quell’uomo fa parte dei ribelli? Ci ha riconosciuti?” chiese Eustace in un sussurro di apprensione non appena il vecchio si fu allontanato.
“No, non credo” rispose Jun, pensierosa.
“Allora perché sembra così ostile?” azzardò Reika, mordendosi un labbro per la tensione.
“Siamo viaggiatori e queste persone non sono avvezze  agli stranieri. Saranno diffidenti,  ma non dobbiamo temere. I ribelli non sono ancora arrivati” fu la risposta pacata e definitiva di Hector.
Reika respirò a fondo e distese le spalle.
Doveva attendere e restare concentrata, ecco la verità.
Sorseggiò la sua birra leggera per interminabili minuti: non aveva un buon sapore, decise.
Col passare del tempo rimase suo malgrado incuriosita dagli avventori della locanda e passò lunghi momenti osservandoli. Sembravano poveri e stanchi, ma qualche canzone biascicata salì da un lato della sala e alcuni uomini alzarono i loro boccali, in un coro scomposto e disordinato. Alcuni gridavano, altri fissavano il soffitto con aria afflitta e un gruppo era radunato attorno a un tavolo con un mazzo di quelle che Reika sapeva essere delle carte da gioco.
Il campanello della porta suonò e Reika voltò la testa di scatto, per osservare meglio: un gruppo di uomini entrò rumorosamente nella stanza e lei tornò a rilassarsi e a guardarsi intorno.
Le donne erano più mansuete, sedute attorno al fuoco: bisbigliavano e il loro chiacchiericcio solo a tratti diventava acuto e udibile. Parlavano di lavoro, di cibo, di rammendi, dei loro mariti, padri e fratelli. Agli occhi di Reika parvero molto unite, come se condividessero tutte un fardello pesante.
“Deve essere difficile essere vecchi” rifletté ad alta voce.
Jun smise all’istante far finta di parlare del più e del meno con Eustace.
“Si, deve essere dura” scandì, guardandola con occhi sgranati. “Ma è giusto così”.
“Gli acciacchi dell’età sono più facili da sopportare rispetto a una ferita di guerra. Non affliggerti oltre” aggiunse Hector, da saggio qual’era.
“Certamente” bisbigliò Reika, chinando il capo.
Ma queste persone sembrano incredibilmente sole, pensò anche. Era previsto?
“Finisci la tua birra, giovane Reika e non lasciare che il mondo sposti di un solo millimetro le tue sicurezze” la incoraggio maestro Hector.
Lei annuì e si concentrò sulle sue mani, ricoperte da guanti caldi e bitorzoluti per nasconderne la pelle liscia.
Il campanello della porta suonò di nuovo e qualcuno entrò.
Il mondo smise di girare per qualche secondo e l’aria sembrò gelida sulla pelle del viso.
“Sono loro” fu l’immediato commento di Hector.
“No!” esclamò Jun. “Non voltatevi. Fate finta di niente” continuò.
Reika fermò il movimento a metà e tornò a fissare il tavolo, il respiro leggermente affannato.
“Come li riconosci maestro? Quanti sono?” chiese ragionevolmente Eustace.
“Il primo della fila ha controllato la stanza prima di entrare e hanno tutti un fare circospetto. Non portano tracce di fango sugli stivali e hanno borse ingombranti, adatte ad un viaggio” bisbigliò in fretta Blaize, senza distogliere lo sguardo da un punto indefinito alle spalle dei giovani.
“Quanti sono?” chiese ancora Reika.
“Sei”.
“Troppi”.
“No, Eustace. Il numero giusto” corresse Jun.
Reika avrebbe voluto poter guardare con i suoi occhi ma non osava disobbedire ad un ordire diretto di maestra Jun.
I ribelli scelsero, prevedibilmente, un tavolo al centro esatto della sala e Hector si alzò per primo, dirigendosi verso il bancone, come concordato.
Reika lo osservò poggiare entrambe le braccia sul ripiano di legno e abbandonarvi la testa, come in un moto di stanchezza. Da quella posizione, in realtà, poteva guardare i ribelli in faccia senza destare sospetti.
Passarono i minuti e Jun si avvicinò timidamente alle donne accanto al fuoco, posizionandosi alle spalle dei nuovi avventori. Blaize la seguì poco dopo, unendosi ai giocatori di carte con grande naturalezza e la voce magnificamente contraffatta.
Reika e Eustace, rimasti soli al tavolo, si scambiarono un lungo sguardo.
Ce la faremo?, dicevano gli occhi di lei.
Abbandonarono il loro posto e si diressero a braccetto verso la porta: una volta lì Eustace finse di aiutarla a indossare uno scialle pesante e iniziarono a conversare come una vecchia coppia di sposi, secondo il copione concordato alla Casa Madre.
Il loro compito appariva molto semplice: bloccare la principale via di fuga.
“Senti ancora freddo, moglie diletta?” stava chiedendole Eustace, nel bel mezzo della loro commedia, quando un movimento all’interno della sala attirò la loro attenzione.
“Non più molto. Come sei caro!” disse lei, senza neanche guardarlo, i sensi all’erta, la voce meccanica.
Uno dei ribelli si era alzato, un uomo molto anziano, dalla chioma argentea e dalla folta barba. Sbottonando i primi bottoni del suo pastrano, salì faticosamente in piedi su uno degli sgabelli, attirando su di sé gli occhi di tutti.
“Allora andiamo, mia sposa, la nostra dolce casa ci attende” biascicò Eustace in fretta, la mano posata sullo stiletto che teneva alla cintura.
Entrambi si posizionarono con le spalle contro la porta.
“Gente di Greenland ascoltate!” dichiarò il vecchio con voce tremula e un grande affanno.
Un po’ del chiacchiericcio nella sala si spense e alcune teste, calve o canute, si girarono nella direzione del vecchio. Tre dei suoi compari stavano in piedi ai suoi lati, il volto scoperto e le braccia lungo il corpo, abbastanza rilassati nei modi ma certamente sensibili al minimo sentore di pericolo.
“Venite vicino, uomini onesti, e sentite con le vostre orecchie che rumore fa la speranza e che calore fa il fuoco della lotta e della resistenza!” proclamò, con animo.
Reika osservò Hector rizzare la testa e voltarsi, per fronteggiare i ribelli faccia a faccia.
Lei, in assoluto silenzio, sfilò il lungo coltello dalla cintura e lo conficco, alla cieca, tra la porta e il muro, bloccando l’uscita.
“Adiamo, scendi di lì. Niente propaganda nella mia locanda” fu il debole lamento del locandiere, fermo nella sua postazione dietro il bancone.
“Tom ha ragione: noi di Greenland non vogliamo grane con quelli del Sistema” borbottò un uomo massiccio col volto pieno di rughe.
Un mormorio di assenso si diffuse nella sala.
Non male, pensò Reika. Saranno dalla nostra parte.
“Vi capisco, fratelli, davvero. Anch’io avevo paura e anch’io mi sentivo vecchio e stanco. Per me è finita, pensavo. Ma ci sono fatti che non si possono sopportare ancora, né ignorare. Sebbene fossi pronto a giudicare la mia vita giunta al termine, come potevo accettare la fine della nostra civiltà, la fine di ogni speranza e di ogni novità? È giunto il momento che la vita torni alla normalità e noi dobbiamo batterci per questo” continuò lui, allargando le braccia, come a voler abbracciare e coinvolgere l’intera sala.
Che idea sciocca! Questa gente ha bisogno di ordine e pulizia, non false speranze e fermento!
“Vi fate tutti ammazzare, voialtri, ecco la verità!” esclamò un uomo.
“Hai paura di perdere la tua vita, quindi?” lo interrogò l’oratore.
L’uomo dal volto rugoso annuì.
“Quanti come lui?”
Il mormorio di assenso si replicò.
“Ebbene, pensateci. Cosa perderete?”
“La nostra casa e il nostro lavoro!” gridò qualcuno che Reika non riuscì ad individuare.
“Una casa fatiscente ed un lavoro imposto, faticoso, spesso insostenibile per uomini anziani come noi. Un lavoro che non ci permettere di vivere secondo le nostre aspirazioni!” fu la risposta.
“Cos’altro?” la provocazione.
“I nostri cari” scandì la voce inconfondibile di una donna.
“I vostri mariti? I vostri fratelli e le vostre sorelle? Ahimè, a questo si sono ridotte le famiglie di questo secolo! Come possono gioire, i vostri cari, di uomini e donne inetti e sottomessi al dittatore? Se li amate, venite con noi e liberateli!”.
“Abbiamo bisogno di ordine. La vita di prima non ha portato nulla di diverso dal dolore” scandì una donna dalla lunga treccia candida.
“Ma almeno eri libera di scegliere. La possibilità di cambiare le cose era nelle nostre mani e noi l’abbiamo gettata, consegnandoci alle false promesse del Rettore” fu la dura risposta.
Che falsità e che assurdità!
“Qui abbiamo una vita al sicuro!”
“Al sicuro da cosa? È il vostro aguzzino che vi protegge, signori!” tuonò l’uomo sullo sgabello, tanto indignato da perdere l’equilibrio.
“Ma cosa credete, voi pazzi? Non possiamo vivere senza Crill, non più. La vecchiaia è meno dura quando siamo sotto il suo effetto e nessuno vuole rinunciarci. Niente Sistema vuol dire niente Crill e noi moriremo tutti” fu la riflessione d’un uomo secco e dalla schiena storta.
“Senti, vecchio d’un ribelle, io dico no. Aspetta, lasciami dire: dico no perché non avete alcuna garanzia di successo. La vita fa schifo, quaggiù, ma non mi va di morire per nulla” fu il commento di una grassa signora risoluta.
“È giusto, lei ha ragione”.
“Lasciateci in pace”.
“Ma perché non vi accontentate di vivere e basta, voi del sciocchi che credete di poter cambiare le cose?”
Reika osservava la folla con stupore e il cuore in mano. Hector, Jun e Blaize ancora non davano segno di voler entrare in azione e lei attendeva: ma le parole e le espressioni e le emozioni violente di quegli uomini la incantavano e la terrorizzavano. Era un mondo così complesso e così folle, così passionale!
Perché quegli uomini non amavano il Sistema come lei? Perché non riuscivano a vedere l’immensa bontà e carità del Rettore?
Una donna dal gruppo dei ribelli richiamò l’attenzione del pubblico della sala.
Aveva penetranti occhi azzurri e per qualche secondo guardò gli avventori negli occhi, uno a uno.
“Se credete che il Sistema sia invincibile, se credete che la naturalezza, la spontaneità, l’arte, la bellezza e la libertà non possano più tornare, vi sbagliate. Chi è con noi lo sa molto bene; sa che la speranza vive tra noi” furono le sue parole, dette dolcemente, quasi regalate allo scetticismo del pubblico.
Il silenzio era denso, come nebbia. Reika trattenne il fiato senza sapere perché.
La donna mosse qualche passo tra la folla e prese tra le sue le mani di una donna seduta accanto al fuoco.
“Vieni, seguici, mia cara. Unisciti alla causa e quel dolore sordo in fondo al petto potrai non provarlo più. Solo noi donne possiamo capire a quale estremo sacrificio il Sistema ci ha spinto” disse, guardandola.
“Ti prego, basta, non continuare” mormorò una di loro, stringendosi nel suo scialle.
“Voi non fate altro che rivangare vecchi dolori!” furono le parole accusatrici del locandiere.
“A cosa serve rimpiangere i bei tempi e ricordare un desiderio che non si potrà mai avverare?” la spalleggiò un'altra, con le lacrime agli occhi.
Reika non capiva una parola di quel discorso eppure la donna in questione scoppiò presto in lacrime.
“Shh, mia cara, non piangere” la consolò la rivoltosa. "È finito il tempo delle lacrime. Vieni qui, Abel, venite entrambi, per favore, e consolate queste donne che, a causa della crudeltà delle Rettore, non potranno mai essere madri” disse.
Reika scambiò un’occhiata basita con Eustace: il gruppo delle donne era in agitazione totale mentre due dei ribelli, ancora avvolti nei loro mantelli scuri, avanzavano verso di loro.
Perché quelle donne desideravano dei bambini? Cosa ne avrebbero fatto? Come avrebbero potuto badare a loro e crescerli in solitudine, senza Educatori, senza la guida del Rettore?
Le idee di quella gente la turbavano profondamente.
“Sono loro: la nostra garanzia, la nostra speranza” mormorò il vecchio dal lungo pastrano, indicando i ribelli dal volto coperto, e nella voce aveva un accenno di commozione.
In quell’esatto momento accaddero più cose contemporaneamente.
Ribelli riccioli castani e fluenti capelli color paglia furono liberati dai cappucci e tutti, nella sala, ebbero la fugace visioni di vispi occhi e pelli fresche, di sorrisi e denti bianchi, di gioventù.
Poi un rumore assordante riempì la stanza e tutti, uomini e donne gridarono, cercando rifugio. Reika riuscì vedere, per un attimo, Hector, in piedi, il revolver fumante. Le sembrò anche di cogliere il luccichio delle lame di un paio di coltelli in volo per la sala in delirio.
Grugniti e tonfi, frastuono di legno spaccato, furono i rumori che sfiorarono le sue orecchie.
Ma che succede?
Credette di vedere il volto trasfigurato dalla rabbia di uno dei ribelli venire verso di lei, una bottiglia in pugno e gli occhi iniettati di sangue.
È forse Eustace la macchia nera in movimento al mio fianco?
È tutto così confuso!
Poi, il colpo.
Il dolore.
Il sangue.
Scivolò e il mondo nella stanza cadde con lei. Tutto si fece curvo, in pendenza.
Una zaffata dell’odore della birra scadente fu l’ultima cosa che sentì prima che le luci del mondo si spegnessero, lasciandola completamente al buio.
 
 
 
 













 Note
Benvenuti ai nuovi lettori e ben tornati ai lettori del prologo!!
Ho davvero poco da dire su questo primo capitolo … se non che spero vi sia piaciuto! Ho timore di aver usato troppe parole e poco dialogo … rassicuratemi, vi prego, se non vi siete annoiati! In caso contrario, sarò più che felice di conoscere i vostri pareri costruttivi :)
Per quanto riguarda la frase con cui questo capitolo si apre … non è proprio farina del mio sacco, l’ho sicuramente sentita da qualche parte, parecchio tempo fa; l’ho annotata e poi mi sono, ovviamente, dimenticata la sua fonte! Perdonatemi, quindi, se non cito nessuno …
Con questo vi saluto, speranzosa di vedervi al prossimo aggiornamento!!
Ester

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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