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Autore: Lady Vibeke    07/03/2009    7 recensioni
Non era il cane che aveva sempre sognato lei. Non era bianco, non era capace di riportare la palla, e non era nemmeno bello come sembrava da piccolo.
“Ma tu gli vuoi bene lo stesso, vero?” le chiese un giorno sua madre, guardando tristemente la povera bestiola, abbandonata solitariamente in un angolo.
Angelica lanciò un’occhiata a Neve: con gli anni si era stancato di tentare di giocare con lei, di cercare di compiacerla; si era fatto schivo e malinconico, e spesso sembrava quasi che fosse in grado di capire la delusione che lei provava nei suoi confronti, che sapesse di non essere quello che lei avrebbe voluto, e che ne soffrisse.
Angelica scrollò le spalle.
“È il mio cane, no?”
Genere: Triste, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Angelica aveva sempre desiderato un cane. Fin da piccola, il suo più grande desiderio era sempre stato avere un bel cagnolino candido, da poter chiamare Neve.
All’età di sei anni, per il suo compleanno, suo padre, manager di una grande ed importante azienda, le portò a casa un cucciolo di setter di due mesi, che un amico gli aveva procurato. Angelica fu entusiasta di quel regalo: si dimenticò della montagna di altri doni, saltò in braccio al padre e lo ringraziò con una pioggia di baci.
Nelle settimane successive Angelica trascorse ogni singolo istante libero a prendersi cura di Neve e a giocare con lui. Voleva insegnargli a riportare la palla, ma suo padre le spiegò che doveva avere pazienza ed aspettare che crescesse ancora un po’.
Così Angelica aspettò.
Aspettò un mese, due, tre, e Neve cresceva, ed intanto piccole macchie scure comparivano sul suo manto, ma ancora non correva dietro alla palla che Angelica insisteva a lanciargli. Poco dopo, una visita veterinaria accurata rivelò che il cucciolo aveva dei problemi alle articolazioni degli arti posteriori che gli impedivano di correre. Era perfettamente sano sotto qualunque altro aspetto, ma, con somma delusione di Angelica, non sarebbe mai stato in grado di correre per inseguire una palla.
Nonostante questo piccolo problema, però, Neve era un cane molto sveglio: imparò presto a portare il giornale al padre di Angelica, ad aiutare la madre con le borse della spesa, e spesso cercava Angelica, scodinzolando, portandole il suo giocattolo di corda per chiederle di giocare con lui.
Angelica, però, non provava più alcun interesse per lui.
All’età di cinque anni, il suo pelo non era più morbido e bianco, ma si era fatto lungo ed ispido, e ormai le macchie nere erano tante e sempre più grandi. Una volta Neve cercò anche di riportarle quella palla, sforzandosi di correre come meglio poteva, ma Angelica non lo degnò di uno sguardo, nemmeno quando lui le posò la palla in grembo uggiolando.
Angelica nemmeno gli badò, e Neve se ne andò a testa bassa, accoccolandosi nella propria cuccia con rassegnazione.
Non era il cane che aveva sempre sognato lei. Non era bianco, non era capace di riportare la palla, e non era nemmeno bello come sembrava da piccolo.
“Ma tu gli vuoi bene lo stesso, vero?” le chiese un giorno sua madre, guardando tristemente la povera bestiola, abbandonata solitariamente in un angolo.
Angelica lanciò un’occhiata a Neve: con gli anni si era stancato di tentare di giocare con lei, di cercare di compiacerla; si era fatto schivo e malinconico, e spesso sembrava quasi che fosse in grado di capire la delusione che lei provava nei suoi confronti, che sapesse di non essere quello che lei avrebbe voluto, e che ne soffrisse.
Angelica scrollò le spalle.
“È il mio cane, no?” disse alla madre, come se quella risposta sottintendesse un “Sì” rassicurante che in realtà non esisteva.


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Angelica aveva sedici anni, ormai. Neve era morto l’anno prima, per motivi che nessuno aveva saputo spiegare. Aveva cominciato a manifestare segni di indebolimento e stanchezza, anche se nessuna analisi era stata in grado di individuare malattie che potessero spiegarlo. Angelica lo trovò una mattina accucciato ai piedi del proprio letto. Non respirava più.
Anche se provava da qualche parte dentro di sé un vago sentore di dispiacere, non aveva versato una lacrima quando lo avevano portato via.
In quel periodo era troppo occupata a pensare agli altri problemi che aveva per curarsi di quel cane che non aveva mai amato davvero.
Suo padre non faceva che ripeterle che doveva impegnarsi di più a scuola, dimostrare maggiore rispetto verso l’autorità sua e di sua madre, imparare ad essere riconoscente per i sacrifici che venivano fatti per lei.
E intanto Angelica non era più la bambina che la mamma una volta guardava con orgoglio e a cui il papà portava a casa giocattoli nuovi ogni sabato sera. Crescendo aveva capito che i regali non colmavano i vuoti lasciati da carenze ben più profonde.
Le piacevano la musica alternativa e la pittura, e dopo il liceo voleva frequentare una scuola d’arte, ma i suoi genitori volevano che si laureasse e si assicurasse un posto nella società del padre.
E così, finito il liceo, Angelica li accontentò.
Ma lei, più i giorni passavano, più perdeva la voglia di andare avanti.
Si sforzava di essere all’altezza delle aspettative, di assecondare la volontà di chi le stava attorno, con la sola speranza che un giorno qualcuno le avrebbe detto di nuovo “Brava, siamo fieri di te”.
Ma niente sembrava essere mai abbastanza.
Una sera, rinchiusa nella propria stanza con la sua musica nelle orecchie per non pensare al male che si sentiva dentro, sentì i propri genitori discutere tra di loro nella stanza accanto.
“Dove abbiamo sbagliato, Laura?” stava dicendo suo padre, in tono duro. “Cosa c’è che non va, in lei?”
“Abbiamo fatto tutto quello che potevamo, Fabio,” gli rispose sua madre. “Lo psicologo è stato inutile, le pillole hanno solo peggiorato la situazione…”
“Passa le ore chiusa in quella maledetta stanza a scarabocchiare sui quei fogli… Che gusto ci prova a perdere tempo in quel modo?!”
“Le piace disegnare…”
“Non l’ho messa al mondo perché diventasse una parassita della società per rincorrere uno stupido sogno! È ora che si rimbocchi le maniche e si dia da fare per guadagnarsi il suo posto nel mondo! Ha quasi vent’anni, cazzo!”
Ogni parola uccise Angelica come un colpo di pistola sparato dritto al cuore. Un delitto indiretto consumato tra le mura domestiche di una famiglia che, ad occhi esterni, era sempre apparsa perfetta. Mancava solo il cane accanto al caminetto, per completare il quadretto dello stereotipo classico, ma Neve era morto, e quel che restava era ben lungi dall’essere ciò che appariva.
“Ma tu le  vuoi bene lo stesso,” disse la voce preoccupata di sua madre dall’altra parte del muro. “Vero?”
Angelica ascoltò senza riuscire a respirare il lungo e pesante silenzio che ne seguì, finché suo padre, gelido e lapidario, non si decise a pronunciare la sentenza finale:
“È mia figlia, no?”

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A/N: non so se sono riuscita a scrivere nel modo giusto quello che intendevo comunicare. Chi mi conosce forse capirà il significato di questa storia. Chi non mi conosce, forse capirà lo stesso. Il titolo significa "meritevole del tuo/vostro amore".
   
 
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