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Autore: Bess Black    24/12/2015    2 recensioni
Regulus continuò a guidare il carrello fino ad approssimarlo il più possibile al treno a vapore, fino a quando Sirius non capì e gli si avvicinò.
«Non cambierà nulla ora che te ne vai, vero?»
«È solo Hogwarts.» Sirius lo disse dandogli una gomitata un po’ spinta, forzata laddove le parole non garantivano più di quello che significavano. «Il prossimo anno ci verrai anche tu.»
«Un anno.» Regulus sorrise, tirando una linea di labbra lunga quanto il tempo che contava.
«Un anno.» annuì Sirius. «Solo un anno e ce ne saremo andati entrambi da quell’Inferno.»
Il treno fischiò accompagnando la frase di Sirius con una ritmica buffa e dandole, così, un’espressività grottesca; esattamente quanto potevano esserlo quelle parole pronunciate da un bambino. Caricarono insieme il baule in carrozza per il puro gusto di fare qualcosa insieme e, mentre attorno a loro genitori e figli si facevano le prime promesse, loro si fecero l’ultima.
«Non cambierà nulla?» Regulus scese dal vagone e guardò il fratello dal basso.
«Non cambierà nulla.»
«Promesso?» La porta del vagone si chiuse ed il treno sbuffò per l’ultima volta, commemorando il momento.
Sirius rise. «Promesso.»
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Famiglia Black, I Malandrini, Regulus Black, Sirius Black, Sorelle Black | Coppie: James Potter/Sirius Black, James Sirius/ Teddy, James Sirius/Dominique, James Sirius/Rose, James/Lily
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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- Questa storia fa parte della serie 'L'isola che non c'è'
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V. Vergogna


 

 
Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts – 21 Ottobre 1972
 
 
 
«Mocciosus!»
«Mocciosus, lo sappiamo che sei lì dentro!»
Una risata galleggiò e arrivò in onda al fiato fin dentro il ripostiglio; l’altra galoppò ed arrivò fin dentro Regulus. Una era divertita ed allarmante; l’altra era divertita, dolce perché cara, ed allarmante.
I due Serpeverde si guardarono. Calcolarono quanto erano soli e quanto, di conseguenza, erano in compagnia; sottrassero dal risultato che ne trassero simultaneamente quanto era concesso loro esser soli e quanto, inversamente, conveniva loro esser in compagnia. Essere soli in compagnia era pittoresco, sublime perché splendido e spaventoso – splendido perché spaventoso e spaventoso da quanto splendido – ma la solitudine ne era l’imperativo. Potevano esser soli in compagnia solo quando avevano la possibilità di essere soli e la possibilità di scegliere di esserlo; la solitudine doveva essere imposta e voluta; doveva esser accusa e confessione; castigo ed espiazione. Assassinio e sacrificio.
Con lo sguardo, con lo sguardo solo si chiesero il permesso e se lo negarono. Con lo sguardo solo si accusarono e si confessarono, reclamando una tregua e rifiutandola. Con lo sguardo solo si castigarono ed espiarono per aver esatto un armistizio e averlo respinto. Con lo sguardo solo si assassinarono e sacrificarono per aver sporto e ritirato un congedo dal loro diritto all’esilio. Coi soli occhi fecero una strage della solitudine in quanto principio ed in quanto diritto all’egoismo, e mai nessuno poté testimoniarlo o commemorarlo.
«Mocciosus, guarda che se non vieni fuori entriamo noi!»
«Spostati, ci penso io!»
Non smisero di guardarsi perché negarsi la compagnia nella solitudine significava premettere l’egoismo, accettare la definizione di Serpeverde egoisti e farla propria – e, soprattutto, non vergognarsene. L’avevano rifiutato prima di proporlo ed avevano scelto la solitudine senza compagnia in nome dell’egoismo che spettava loro, per non vergognarsene. Ma fieri perché egoisti o egoisti perché fieri? Egoisti perché soli o soli perché egoisti? Che vergogna.
Al di là della porta le risate si sovrapposero e non fu più prioritario distinguerle. In quel momento, che nessuno avrebbe mai riportato alla memoria, la porta di legno sfregiato del ripostiglio fu la più artistica asse di simmetria che la scienza, in tutte le sue forme, avrebbe mai vantato.
Perché Regulus Arcturus Black e Severus Piton non furono mai amici, ma seppero come vergognarsene.
 
«Bombarda Maxima!»
Regulus ebbe i riflessi pronti, senza volerlo; riuscì ad indietreggiare fin dove poté e ad urlare a Severus d’imitarlo, allo stesso tempo. Non ce ne fu alcun bisogno perché il ragazzo aveva già evocato un Sortilegio Scudo tra loro e le schegge di legno che esplosero, abbastanza efficace laddove risparmiò loro lesioni o abrasioni, ma non abbastanza padroneggiato da evitar loro di schiantarsi contro il muro.
Si rimisero in piedi in fretta perché le risate – seppure non più filtrate da una porta, ma da un varco – erano ancora sovrapposte, incastrate tra loro come rime incatenate nelle quartine di un sonetto. Regulus spazzò via la polvere prima dal libro di Trasfigurazione e poi dai propri vestiti e dai capelli, con le mani.
Si guardarono ancora, ancora, ancora. Sempre la logica sarà grata all’ambiguità dei rapporti tra cause e conseguenze per il solo modo in cui si guardarono: seppur decisero che sarebbero stati egoisti e – e perché – soli, seppur decisero di esser soli e – e perché – fieri, continuare a domandarselo era conferirsi una possibilità seppur ritrattandola, ammetterla attraverso la negazione. Era confessare in poesia il coraggio, solo abiurandolo.
Ogni volta che Regulus e Severus si guardavano, si chiedevano l’un l’altro il permesso di non essere egoisti, non esser soli e vergognarsene; se lo negavano, certo, ma per domandarselo ancora, ancora, ancora. Che vergogna.
James Potter spinse il suo sorriso tra la polvere e l’aria, fino a toglierne a Regulus. Inforcò al meglio gli occhiali, nonostante le lenti rotonde fossero imbrattate di polvere, per vederlo meglio; tuttavia non si avvicinò, non s’inginocchiò al suo livello, piuttosto lo afferrò dall’avambraccio, e lo alzò con uno strattone garbato.
Regulus si sollevò sollecitato da tale garbo, inciampando nella maniglia della porta finita tra i suoi piedi e negli occhi di James Potter. «Avevi ragione, Sirius.» continuò a guardare lui, ma parlò a qualcuno alle proprie spalle. «Sei più bello tu.»
«Bene bene, Mocciusus. Sei furbo a scegliere i nascondigli, quanto a scegliere le compagnie.» rise, risero entrambi, ma le loro voci non si sovrapposero questa volta perché quella di James fu solo una smorfia più distratta che sinceramente divertita, un riflesso involontario di chi è abituato a vedere solo il lato comico dell’ironia.
Regulus non seppe muoversi e forse fu questo a far sì che nemmeno James smettesse di stringere il suo avambraccio sinistro. «Perché mi guardi così?» sussurrò, infine.
Scosse il capo, lasciando il braccio proteso affinché l’altro non smettesse di stringerlo.
«Che c’è?» chiese ancora, bisbigliando con la voce e col sorriso che stava solleticando le guance e lo stomaco di Regulus. Che vergogna.
 
Nessuno dei due avrebbe potuto saperlo, ma James Charlus Potter aveva la mano intorno al punto esatto in cui sette anni dopo sarebbe stato inciso il Marchio Nero sulla pelle di Regulus Arcturus Black.
 
 
 
 
   
 
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