Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
Segui la storia  |       
Autore: TonyCocchi    12/01/2016    1 recensioni
Raccolta di episodi AU ispirati al film Pearl Harbor (2001), in cui i vari personaggi di Attacco dei Giganti diventano soldati e civili americani durante l’attacco a sorpresa dei giapponesi alla base americana durante la Seconda Guerra Mondiale. Eren, Mikasa, Levi e tanti altri si incrociano con una delle pagine più tragiche della storia: tanta drammaticità, tantissima azione… e anche qualche pairing che non guasta mai!
Genere: Azione, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eren Jaeger, Hanji Zoe, Mikasa Ackerman, Rivaille, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Salve a tutti! Finalmente questa storia ha iniziato a ricevere i primi commenti, e spero ne seguiranno altri ^__^

Abbiamo già visto diversi dei personaggi principali calati nelle loro nuove vesti di soldati, medici o infermiere, vesti che con piacere sembra vi siano risultate azzeccate e credibili. In questo capitolo ritorneremo su Levi (con gran piacere dei suoi innumerevoli fans XD) e introdurremo altri personaggi che ancora non hanno fatto la loro comparsa.

Pearl Harbor è sotto attacco, devastata dalle bombe, soffocata dal fumo: il teatro perfetto per trasformarsi in eroi. Riusciranno i nostri ad arrivare al termine di questa lunghissima giornata o il loro destino, come quello di tanti altri, sarà di perire nelle acque della baia o nei cieli dominati dai temibili Zero giapponesi?

Buona lettura!

 

 

 

Se solo sua madre avesse saputo accontentarsi della sua maestria nel rimettere a posto qualsiasi macchinario, aerei in primis, invece di continuare ad attendere con ansia il momento in cui fosse riuscita finalmente ad accalappiare e portare a casa un bell’uomo rispettabile. Che non se ne dolesse, non aveva comunque intenzione di restare single a vita, ma per Angy quello era molto più gratificante e molto meno scontato di un bel matrimonio, una bella casetta col giardino e lo steccato, e una vita di faccende domestiche.

Sgusciò fuori da sotto la fusoliera e, con la mano sporca di grasso, diede due colpetti alla carlinga: “Avvialo!”

“Contatto!” –fece subito eco la voce di Levi dall’abitacolo del monoposto, un non eccezionale ma robusto Curtiss P-40.

Rigenerato dalla famigerata “cura Zoe”, il motore ruggì come fosse appena uscito di fabbrica, come ruggisce un pugile ansioso prima del suono della campana! L’elica sulla punta vorticava come un tornado, bramosa di agguantare l’aria più fresca e più leggera che si respira in alto nell’aere. La stella bianca sulla fiancata, simbolo dell’USA Air Force, era pronta a splendere tra i soli rosso sangue dei giapponesi.

Levi ridacchiò: “Ottimo lavoro, quattrocchi!”
Angy ingrossò il petto, fiera di sé: “Avevi dubbi?”
Neanche uno, pensò il capitano, senza dir nulla per non farla gasare troppo. In realtà, come aveva avuto modo di notare in altre occasioni, Angy era contagiosa: forse la carica che davano il suo sorriso e la sua forza d’animo, forse il fatto che fosse tutta matta e grandiosa così, non si era mai sentito tanto ansioso di spiccare il volo, contro il nemico per giunta.

“Vai e fai secchi quei bastardi!”

“Non devi mica dirmelo tu.” –ribatté.

Infilò il casco e tirò giù sul viso gli occhialoni, preparandosi a portarlo fuori dall’hangar.

“Levi…” –sentì appena, sotto il frastuono dell’apparecchio.

Gli sembrò così diversa rispetto a un attimo prima, un’autentica trasformazione. Il viso così vispo era tutto teso, i suoi grandi occhi nocciola si stringevano preoccupati nell’osservarlo, come si fossero ricordati che poteva essere l’ultima volta che i loro sguardi si sarebbero incrociati. La matta aveva lasciato il posto all’umana.

“Promettimi che…”

Lasciò incompleta la fase per qualche secondo, come ci avesse ripensato.

“Promettimi che me lo riporterai indietro tutto intero.” –decise di dire alla fine, fingendo di guardare l’aereo.

“Niente promesse.” –non ebbe dubbio nel risponderle.

Non stava andando a prendere un tè: sapeva benissimo che quel volo sarebbe potuto essere l’ultimo, che tutto il coraggio e l’entusiasmo del mondo non avrebbero reso lui e il suo aereo immuni alle pallottole. Ma soprattutto, sapeva che una volta lassù, il suo destino non sarebbe stato più solamente nelle sue mani: non poteva promettere ciò che avrebbe rischiato di non mantenere, e, come lui non si faceva illusioni, così non voleva se ne facessero gli altri, solo per dar loro un contentino, una infantile speranza, una rassicurante illusione a cui aggrapparsi.

Angy annuì: “Hai ragione. In bocca al lupo, Levi.”

Sentendosi una gran stupida, scostò lo sguardo per l’imbarazzo.

“D’accordo, te lo riporterò intero.” –disse dopo un breve silenzio, un attimo prima di chiudere l’abitacolo, non senza aver badato che avesse sentito le sue parole.

“……”

La salutò con un ultimo cenno del pollice all’insù e iniziò a farlo muovere. Angy, immobile sul posto, guardò l’aereo scorrerle lentamente davanti, come piano il sorriso tornava a rasserenare il suo volto macchiato di grasso per motori. Lo seguì nel prendere velocità, innalzare il muso, e infine decollare indisturbato, come una passerella giustamente riservata all’eroe pronto ad entrare in scena.

Quel tappo, esclamò nella sua mente e nel suo cuore: doveva sempre avere a tutti i costi l’ultima parola!

 

Captate alla radio le trasmissioni di altri piloti riusciti anch’essi a far decollare i loro caccia, si diresse immediatamente nella loro direzione a dar manforte.

Il primo Zero da lui incrociato venne colto del tutto di sorpresa dal suo arrivo: lo vide svolazzare, e gli sembrò così tracotante, così sicuro di sé. Del resto, erano stati così bravi nel pugnalarli alle spalle, che non si aspettavano di certo che loro altri avrebbero avuto i nervi e le palle di difendersi dopo lo shock che avevano loro inferto. Era il momento di una bella lezione di umiltà.
Levi gli si piazzò in coda e non lo mollò fino ad averlo a portata di mitragliatrici: non premette a lungo il grilletto che azionava le sei mitragliatrici del suo P-40 che l’aereo giapponese prese a ondeggiare e poi precipitare senza alcuna scia di fumo, doveva aver colpito in pieno il pilota. Levi non esultò, né si distrasse, distrarsi è mortale in battaglia. Come si era aspettato, ecco che ora era lui ad averne non uno ma ben due in coda. Rispetto ad altri modelli, il P-40, a fronte di una maggiore affidabilità e resistenza, peccava in velocità, e non avrebbe mai potuto rivaleggiare con gli avversari in quella, di cui era invece il punto di forza. Il P-40 dava il meglio di sé a bassa quota, quindi doveva innanzitutto scendere, portarli a combattere sul terreno a lui più vantaggioso. I due inseguitori calarono con lui, e riuscirono anche a colpirgli un’ala, fortunatamente in maniera leggera.

Il capitano Ackerman, per niente sprovveduto, sapeva bene che dove non arriva l’abilità individuale, arriva la furbizia. Aveva sacrificato l’ebrezza dell’alta quota per la vicinanza ai suoi commilitoni, fiducioso non l’avrebbero deluso.

 

“Caporale Jaeger! Guardi là!”

Approfittandone per ricaricare il fucile, Eren si schermò con una mano dal sole, e notò il P-40 a bassa quota, tallonato dai due Zero, venire dritto nella loro direzione. Radunata una decina di uomini e recuperate ben tre mitragliatrici, l’incrollabile sottufficiale era riuscito a stabilire, sulla piazzola alla cima di un silos, un efficace posto contraereo, dal quale bersagliavano i giapponesi, cercando di appoggiare, finora senza molto successo, i loro aerei.

“Quel tipo è nei guai!” –esclamò uno dei soldati.

Eren però ebbe subito l’intuizione che il pilota del caccia si augurava comprendessero: “Macché, è un grande! Li sta conducendo dritti in bocca a noi!” –gli scappò una risata- “Puntate tutte le armi nella sua direzione, e aspettate l’ordine!”

 

Spronando il proprio aereo come si sprona un fido destriero, Levi lo portò alla massima velocità, e tanto in fondo spinse la sua recita che pure Eren, per un attimo, pensò non sapesse cosa stesse facendo! Ma il miglior pilota di tutta Pearl Harbor non si sarebbe certo schiantato contro uno stupido silos!

Cabrò all’ultimo istante, scoprendo i due Zero al facile tiro del posto mantenuto da Eren e i suoi.

“FUOCO! FUOCO!”

Uno degli Zero sbuffò fumo e roteando vertiginosamente si schiantò su una vicina boscaglia di palme, mentre l’altro, anch’esso colpito in pieno, riuscì a virare e cambiare rotta prima di farsi abbattere. Ma a bassa quota un P-40 dà il meglio di sé, e se c’è Levi Ackerman a pilotarlo, te lo ritrovi in coda in meno di un baleno.
“ABBATTI QUEL BASTARDO!” –urlò Eren che neanche aveva mai urlato allo stadio per le partite di football; quando lo Zero esplose al suolo, lui e i suoi uomini si sarebbero potuti scambiare per degli scalmanati tifosi ubriachi alla finale di campionato.

“Bel lavoro, gentaglia.” –si complimentò Levi, andando in cerca del prossimo avversario.

 

 

Quelli che quel giorno infame si erano trovati a bordo della nave da battaglia Oklahoma avrebbero poi pensato di averla scampata bella, prima di venire a conoscenza del fato della corazzata Arizona: quasi metà dei morti dell’intero attacco risultarono le vittime della sua enorme esplosione, centrata nella santabarbara. Al confronto, condividere il destino con l’Oklahoma, bersagliata dagli aerosiluranti fino a ribaltarsi, parve quasi una benedizione.

A capovolgimento iniziato, un altro siluro centrò la nave, e i buoni riflessi di Berthold gli concessero di agguantare la sbarra che percorreva il corridoio, mentre un paio dei compagni con cui si stava precipitando fuori inciamparono e caddero. Ormai l’Oklahoma era persa, dovevano abbandonarla prima di rimanervi intrappolati.

“Berthold, tutto bene?” –gli gridò dal fondo del corridoio Reiner che li aveva distaccati.

“Si!” –gli rispose, aiutando i marinai a rialzarsi per poi correre a raggiungere l’amico, fermatosi ad aspettarlo. Lo rassicurò con una pacca sull’enorme spalla, facendogli cenno di affrettarsi: ormai soltanto una stretta rampa di scale li separava dal ponte di coperta, da cui avrebbero dovuto giocoforza tuffarsi in mare, non essendoci il tempo per approntare le scialuppe. A metà dei gradini però, si rese conto che stavolta era stato lui a distaccare Reiner.

“Reiner, andiamo!” –lo incitò, vedendolo invece rimanere sul posto, rivolto nella direzione opposta, verso le scale che conducevano ai ponti inferiori- “Che ti prende? La nave si sta capovolgendo!”

“Non senti battere?”

“Dove vai?!”

Rivolse uno sguardo colmo di rimpianto alla luce del giorno che li stava aspettando lì in cima, allettante pur velata da tutto il fumo che si levava dall’intera rada, e, chiedendole di aver un attimo di pazienza, si lanciò dietro l’amico, che anziché salire aveva preso a scendere nuovamente nel cuore della nave. Arrivati al termine delle scale, si ritrovarono davanti un portellone blindato, oltre il quale proveniva un concitato frastuono di attrezzi metallici che battevano e urla che supplicavano.
“C’è qualcuno?”
“Siamo bloccati! La porta non si apre!”
“Aiutateci, l’acqua sta salendo!”

I due impallidirono: con la nave che si sarebbe rovesciata da un momento all’altro, il destino di quei poveracci sarebbe stato segnato e oltremodo orribile. Sarebbero rimasti impotenti a vedere l’acqua salire, sempre di più, fino a morire annegati.

“Tranquilli, ci penso io!”

Il toro dai capelli biondi strinse le grandi mani, temprate da anni di fatiche nella marina, intorno al manubrio, ma non girò di un millimetro, anzi, lo trovò tanto duro da sembrare completamente fuso al resto della porta.

“Sei tosto, eh?” –lo sfidò, rimboccandosi le mani e ricominciando a tirare.

In quel momento, il quinto siluro colpì la nave, sbalzando lui e il gigantesco amico a terra.

“Reiner, dobbiamo andare!”

“Solo un attimo, Berthold!”

Berthold deglutì: non era certo indifferente alla tragica fine verso cui si avviavano i marinai intrappolati, ma chiunque, anche senza un cuore di pietra, si sarebbe reso conto della situazione; non sarebbe mai stata della semplice forza muscolare a sbloccare quel portello, altrimenti tutti quelli di dentro non avrebbero certo invocato il loro aiuto. Non c’era niente che potessero fare per loro. Ma questo andava chiaramente oltre il comprendonio di quel mulo di Reiner.

“Reiner, non ce la farai mai! Non la senti la nave che si inclina sempre di più? Se non ci sbrighiamo ad uscire di qui ci resteremo secchi anche noi!”

“Non li possiamo abbandonare!” –si concesse di sprecar fiato tra un grugnito e l’altro.

“Reiner, sii realista! Dobbiamo andarcene!”

Per tutta risposta, quel grosso sbruffone, come pensasse avesse solo bisogno di essere un po’ rassicurato, ingrossò il bicipite destro e gli sorrise: “Se non li tiro fuori io qui non li tira fuori nessuno!”

L’effetto fu invece solo quello di far esasperare lo spilungone: “Non ce la farai mai!”

“Lo vedremo!”

L’aveva sempre ammirato per il forte senso del dovere, ma a volte non riusciva a capire dove questo finisse e dove iniziasse la sua bonaria stupidità.

Chi d’altra parte lo conosceva meglio di lui? Figlio di militari, un’infanzia passata insieme a giocare ai soldati, l’arruolamento volontario nella marina, una testa la sua, in sostanza, riempita più del necessario di chiacchiere e sogni sul patriottismo, l’onore, il valore. Una testa troppo dura e piena di principi per affrontare la realtà quando questa si faceva drammatica, come ora, che per la prima volta scopriva cosa fosse la guerra vera. Il suo amico era incapace di compromessi, pronto piuttosto a trincerarsi dietro la sua immagine precostruita di “soldato modello”, a trascinarsi dietro i suoi principi e i suoi bei discorsi, piuttosto che mostrare l’umano in fondo fragile che esisteva anche sotto quella montagna di muscoli.

Per un attimo la forza tutt’altro che sovrumana gli venne meno, e la testa gli cedette stanca, sbattendo contro il metallo del portellone, da cui non smettevano di giungere le grida di quei condannati. Era rosso come un pomodoro e le vene della fronte, gonfie come sul punto d’esplodere: pure la schiena, inarcata, sembrava sul punto di spezzarsi, o quantomeno di lasciar partire un ernia. Berthold, reggendosi al corrimano, guardava un po’ lui, un po’ le scale.

“Reiner, dannazione! Andiamo via!”

Gli voleva bene, non voleva morisse per un questione d’orgoglio, né voleva morire lui, ansioso di abbandonare quella trappola, e di raggiungerla il prima possibile…

“Io…” –cominciò a dire ansimando- “… sono Reiner Braun… vincitore a mani basse del torneo di braccio di ferro dell’Oklahoma! Io… glielo devo… Lo devo a tutti!”

Perché tirar fuori persino una cosa tanto sciocca adesso?

“Lo devo a tutti quelli che mi hanno acclamato come il più forte di questa nave!”

Fino a che punto arrivava il suo spirito di sacrificio?

“A tutti quelli che mi hanno riconosciuto del valore!”

Si sarebbe dunque suicidato per un titolo senza importanza, e il caro ricordo del mese prima, quando i marinai se lo erano portato in trionfo sulle spalle per le vie del porto, a sbandierarlo orgogliosamente agli equipaggi delle altre navi, prima di far scorrere frullati e birra a fiumi alla tavola calda. Qualcuno di quei marinai, di quei visi sorridenti e festanti di allora, era già morto quel mattino, e qualcun altro magari era lì dietro quella porta, in attesa di una fine delle più atroce.

“Vai tu se vuoi, io… Non li abbandono… Proprio io non posso…” –riprese a stringere i denti e tirare, benché sul punto di svenire- “Non deluderò… Non…”

“……”

Figurarsi, avevano vissuto insieme fin da bambini, e se c’era una persona incapace di deludere, quella era Reiner Braun. Reiner doveva sempre fare il Reiner: quello dei discorsi su che gran paese è l’America, su quanto bisogna essere orgogliosi di indossare la divisa con cui portarne alto il nome, quello che quando c’è da lavorare è sempre il primo a farsi avanti e a spronare gli altri al meglio di sé stessi, quello che si farebbe ammazzare piuttosto che trasgredire a un ordine, piuttosto che dare di meno di quanto ci si aspettasse da lui.

Berthold sospirò: molto stupido in effetti essersi aspettato che lasciasse perdere solo perché era al di sopra delle sue capacità. A questo punto c’era un unico modo per poter andar via insieme. Procurarsi quella grossa chiave inglese che aveva visto per terra scendendo le scale…

“Berthold?”

E ficcarla tra le razze del manubrio bloccato per poterla usare come leva.
“Avanti, Reiner! Insieme al tre!”

Esterrefatto, ci mise un paio di secondi in più per rispondere: “Si! Uno! Due! TRE!”

Magari Berthold non aveva uno spirito d’acciaio come Reiner, ma quegli annetti nella marina avevano scolpito un po’ anche il suo di fisico; ci vollero altri due conteggi, ma a il manubrio finì col cedere di botto. Berthold tenne aperto il portellone, mentre Reiner, sordo ai ringraziamenti, si assicurava che uscissero tutti, dando una mano e una spintarella a chi aveva bisogno di aiuto.

“Ehi, Bert, grazie…”

Il ragazzo moro scrollò le spalle: avrebbe dovuto essere lui a ringraziarlo se, negli anni a venire, i suoi sogni non sarebbero stati funestati dal ricordo di quelle grida che, fosse stato per lui, si sarebbe lasciato alle spalle. Non si diede del codardo per averlo pensato, e continuava a ritenere che la sua sarebbe stata la scelta più lucida e razionale con la nave pronta a capovolgersi da un momento all’altro.

Ma sarebbe stata una scelta giusta più pensante di mille idiozie, e insieme a lui, grazie a lui, ne aveva fatte di idiozie di cui poi non si era certo pentito, inclusa quella di arruolarsi per potergli stare vicino. Anche quel lunghissimo giorno lo stavano affrontando insieme, e poiché lo aveva avuto al suo fianco, quelle voci che l’avrebbero perseguitato tutta una vita si erano trasformate nei volti carichi di gratitudine che aveva visto scorrergli davanti: un ricordo indelebile molto più facile da portarsi dietro.

La nave aveva raggiunto ormai un’inclinazione per cui era difficile tenersi in piedi: non c’era più un istante da perdere, e stavolta fu Reiner quello ansioso di mettersi le ali ai piedi!

“Muoviamoci!”

Divorati gradini a suon di salti, aiutandosi con gli appoggi offerti dalle pareti, i due tornarono alla luce del sole: l’inclinazione della nave era tale che avrebbero potuto tuffarsi in acqua direttamente da lì, niente di più difficile di quando da ragazzi saltavano dai rami alti degli alberi dritti nel fiume.

In quell’acqua c’erano molti meno cadaveri, pensarono con nostalgia.

 

 

 

La tragedia è nel pieno del suo corso: ognuno fa la sua parte, e qualcuno col suo intervento, come in questo capitolo, cerca e riesce a cambiare le proprie sorti e quelle delle persone accanto a sé. Ma tanti altri muoiono, aerei rovinano al suolo e navi colano a picco, senza che nessuno possa far niente. Quali altri episodi, eroici o tragici, si presenteranno la prossima volta?

Col mio animo LeviHan, la prima scena è filata molto liscia, e anche la sequenza di combattimento mi ha molto appassionato, specie scritta con la giusta colonna sonora (consiglio i << Two Steps from Hell >> per scrivere o leggere scene del genere) *__* Quella di Reiner e Berthold mi ha riservato un po’ più di grattacapi, volendo provare a rendere, in un qualche modo, anche in questo contesto, la “doppiezza” d’animo che in vari punti del manga Reiner ha mostrato. Quanto a Bert, spero non avergli fatto troppo fare la figura del disfattista XD In fondo è un bravo ragazzo, dai!

Alla prossima!

 

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti / Vai alla pagina dell'autore: TonyCocchi