Salve a tutti! Finalmente questa storia ha
iniziato a ricevere i primi commenti, e spero ne seguiranno altri ^__^
Abbiamo già visto diversi dei personaggi
principali calati nelle loro nuove vesti di soldati, medici o infermiere, vesti
che con piacere sembra vi siano risultate azzeccate e credibili. In questo
capitolo ritorneremo su Levi (con gran piacere dei suoi innumerevoli fans XD) e
introdurremo altri personaggi che ancora non hanno fatto la loro comparsa.
Pearl Harbor è sotto attacco, devastata dalle
bombe, soffocata dal fumo: il teatro perfetto per trasformarsi in eroi. Riusciranno
i nostri ad arrivare al termine di questa lunghissima giornata o il loro
destino, come quello di tanti altri, sarà di perire nelle acque della baia o
nei cieli dominati dai temibili Zero giapponesi?
Buona lettura!
Se solo sua madre avesse saputo accontentarsi
della sua maestria nel rimettere a posto qualsiasi macchinario, aerei in
primis, invece di continuare ad attendere con ansia il momento in cui fosse
riuscita finalmente ad accalappiare e portare a casa un bell’uomo rispettabile.
Che non se ne dolesse, non aveva comunque intenzione di restare single a vita,
ma per Angy quello era molto più gratificante e molto meno scontato di un bel
matrimonio, una bella casetta col giardino e lo steccato, e una vita di faccende
domestiche.
Sgusciò fuori da sotto la fusoliera e, con la mano
sporca di grasso, diede due colpetti alla carlinga: “Avvialo!”
“Contatto!” –fece subito eco la voce di Levi
dall’abitacolo del monoposto, un non eccezionale ma robusto Curtiss P-40.
Rigenerato dalla famigerata “cura Zoe”, il motore
ruggì come fosse appena uscito di fabbrica, come ruggisce un pugile ansioso
prima del suono della campana! L’elica sulla punta vorticava come un tornado,
bramosa di agguantare l’aria più fresca e più leggera che si respira in alto
nell’aere. La stella bianca sulla fiancata, simbolo dell’USA Air Force, era
pronta a splendere tra i soli rosso sangue dei giapponesi.
Levi ridacchiò: “Ottimo lavoro, quattrocchi!”
Angy ingrossò il petto, fiera di sé: “Avevi dubbi?”
Neanche uno, pensò il capitano, senza dir nulla per non farla gasare troppo. In
realtà, come aveva avuto modo di notare in altre occasioni, Angy era
contagiosa: forse la carica che davano il suo sorriso e la sua forza d’animo,
forse il fatto che fosse tutta matta e grandiosa così, non si era mai sentito
tanto ansioso di spiccare il volo, contro il nemico per giunta.
“Vai e fai secchi quei bastardi!”
“Non devi mica dirmelo tu.” –ribatté.
Infilò il casco e tirò giù sul viso gli
occhialoni, preparandosi a portarlo fuori dall’hangar.
“Levi…” –sentì appena, sotto il frastuono
dell’apparecchio.
Gli sembrò così diversa rispetto a un attimo
prima, un’autentica trasformazione. Il viso così vispo era tutto teso, i suoi
grandi occhi nocciola si stringevano preoccupati nell’osservarlo, come si
fossero ricordati che poteva essere l’ultima volta che i loro sguardi si
sarebbero incrociati. La matta aveva lasciato il posto all’umana.
“Promettimi che…”
Lasciò incompleta la fase per qualche secondo,
come ci avesse ripensato.
“Promettimi che me lo riporterai indietro tutto
intero.” –decise di dire alla fine, fingendo di guardare l’aereo.
“Niente promesse.” –non ebbe dubbio nel
risponderle.
Non stava andando a prendere un tè: sapeva
benissimo che quel volo sarebbe potuto essere l’ultimo, che tutto il coraggio e
l’entusiasmo del mondo non avrebbero reso lui e il suo aereo immuni alle
pallottole. Ma soprattutto, sapeva che una volta lassù, il suo destino non
sarebbe stato più solamente nelle sue mani: non poteva promettere ciò che avrebbe
rischiato di non mantenere, e, come lui non si faceva illusioni, così non
voleva se ne facessero gli altri, solo per dar loro un contentino, una
infantile speranza, una rassicurante illusione a cui aggrapparsi.
Angy annuì: “Hai ragione. In bocca al lupo, Levi.”
Sentendosi una gran stupida, scostò lo sguardo per
l’imbarazzo.
“D’accordo, te lo riporterò intero.” –disse dopo
un breve silenzio, un attimo prima di chiudere l’abitacolo, non senza aver
badato che avesse sentito le sue parole.
“……”
La salutò con un ultimo cenno del pollice all’insù
e iniziò a farlo muovere. Angy, immobile sul posto, guardò l’aereo scorrerle
lentamente davanti, come piano il sorriso tornava a rasserenare il suo volto
macchiato di grasso per motori. Lo seguì nel prendere velocità, innalzare il
muso, e infine decollare indisturbato, come una passerella giustamente
riservata all’eroe pronto ad entrare in scena.
Quel tappo, esclamò nella sua mente e nel suo
cuore: doveva sempre avere a tutti i costi l’ultima parola!
Captate alla radio le trasmissioni di altri piloti
riusciti anch’essi a far decollare i loro caccia, si diresse immediatamente
nella loro direzione a dar manforte.
Il primo Zero da lui incrociato venne colto del
tutto di sorpresa dal suo arrivo: lo vide svolazzare, e gli sembrò così
tracotante, così sicuro di sé. Del resto, erano stati così bravi nel pugnalarli
alle spalle, che non si aspettavano di certo che loro altri avrebbero avuto i
nervi e le palle di difendersi dopo lo shock che avevano loro inferto. Era il
momento di una bella lezione di umiltà.
Levi gli si piazzò in coda e non lo mollò fino ad averlo a portata di
mitragliatrici: non premette a lungo il grilletto che azionava le sei
mitragliatrici del suo P-40 che l’aereo giapponese prese a ondeggiare e poi
precipitare senza alcuna scia di fumo, doveva aver colpito in pieno il pilota.
Levi non esultò, né si distrasse, distrarsi è mortale in battaglia. Come si era
aspettato, ecco che ora era lui ad averne non uno ma ben due in coda. Rispetto
ad altri modelli, il P-40, a fronte di una maggiore affidabilità e resistenza,
peccava in velocità, e non avrebbe mai potuto rivaleggiare con gli avversari in
quella, di cui era invece il punto di forza. Il P-40 dava il meglio di sé a
bassa quota, quindi doveva innanzitutto scendere, portarli a combattere sul
terreno a lui più vantaggioso. I due inseguitori calarono con lui, e riuscirono
anche a colpirgli un’ala, fortunatamente in maniera leggera.
Il capitano Ackerman, per niente sprovveduto,
sapeva bene che dove non arriva l’abilità individuale, arriva la furbizia.
Aveva sacrificato l’ebrezza dell’alta quota per la vicinanza ai suoi
commilitoni, fiducioso non l’avrebbero deluso.
“Caporale Jaeger! Guardi là!”
Approfittandone per ricaricare il fucile, Eren si
schermò con una mano dal sole, e notò il P-40 a bassa quota, tallonato dai due
Zero, venire dritto nella loro direzione. Radunata una decina di uomini e
recuperate ben tre mitragliatrici, l’incrollabile sottufficiale era riuscito a
stabilire, sulla piazzola alla cima di un silos, un efficace posto contraereo,
dal quale bersagliavano i giapponesi, cercando di appoggiare, finora senza
molto successo, i loro aerei.
“Quel tipo è nei guai!” –esclamò uno dei soldati.
Eren però ebbe subito l’intuizione che il pilota
del caccia si augurava comprendessero: “Macché, è un grande! Li sta conducendo
dritti in bocca a noi!” –gli scappò una risata- “Puntate tutte le armi nella
sua direzione, e aspettate l’ordine!”
Spronando il proprio aereo come si sprona un fido
destriero, Levi lo portò alla massima velocità, e tanto in fondo spinse la sua
recita che pure Eren, per un attimo, pensò non sapesse cosa stesse facendo! Ma
il miglior pilota di tutta Pearl Harbor non si sarebbe certo schiantato contro
uno stupido silos!
Cabrò all’ultimo istante, scoprendo i due Zero al
facile tiro del posto mantenuto da Eren e i suoi.
“FUOCO! FUOCO!”
Uno degli Zero sbuffò fumo e roteando
vertiginosamente si schiantò su una vicina boscaglia di palme, mentre l’altro,
anch’esso colpito in pieno, riuscì a virare e cambiare rotta prima di farsi
abbattere. Ma a bassa quota un P-40 dà il meglio di sé, e se c’è Levi Ackerman
a pilotarlo, te lo ritrovi in coda in meno di un baleno.
“ABBATTI QUEL BASTARDO!” –urlò Eren che neanche aveva mai urlato allo stadio
per le partite di football; quando lo Zero esplose al suolo, lui e i suoi
uomini si sarebbero potuti scambiare per degli scalmanati tifosi ubriachi alla
finale di campionato.
“Bel lavoro, gentaglia.” –si complimentò Levi,
andando in cerca del prossimo avversario.
Quelli che quel giorno infame si erano trovati a
bordo della nave da battaglia Oklahoma avrebbero poi pensato di averla scampata
bella, prima di venire a conoscenza del fato della corazzata Arizona: quasi
metà dei morti dell’intero attacco risultarono le vittime della sua enorme esplosione,
centrata nella santabarbara. Al confronto, condividere il destino con l’Oklahoma,
bersagliata dagli aerosiluranti fino a ribaltarsi, parve quasi una benedizione.
A capovolgimento iniziato, un altro siluro centrò
la nave, e i buoni riflessi di Berthold gli concessero di agguantare la sbarra
che percorreva il corridoio, mentre un paio dei compagni con cui si stava
precipitando fuori inciamparono e caddero. Ormai l’Oklahoma era persa, dovevano
abbandonarla prima di rimanervi intrappolati.
“Berthold, tutto bene?” –gli gridò dal fondo del
corridoio Reiner che li aveva distaccati.
“Si!” –gli rispose, aiutando i marinai a rialzarsi
per poi correre a raggiungere l’amico, fermatosi ad aspettarlo. Lo rassicurò
con una pacca sull’enorme spalla, facendogli cenno di affrettarsi: ormai
soltanto una stretta rampa di scale li separava dal ponte di coperta, da cui
avrebbero dovuto giocoforza tuffarsi in mare, non essendoci il tempo per
approntare le scialuppe. A metà dei gradini però, si rese conto che stavolta
era stato lui a distaccare Reiner.
“Reiner, andiamo!” –lo incitò, vedendolo invece
rimanere sul posto, rivolto nella direzione opposta, verso le scale che
conducevano ai ponti inferiori- “Che ti prende? La nave si sta capovolgendo!”
“Non senti battere?”
“Dove vai?!”
Rivolse uno sguardo colmo di rimpianto alla luce
del giorno che li stava aspettando lì in cima, allettante pur velata da tutto
il fumo che si levava dall’intera rada, e, chiedendole di aver un attimo di pazienza,
si lanciò dietro l’amico, che anziché salire aveva preso a scendere nuovamente
nel cuore della nave. Arrivati al termine delle scale, si ritrovarono davanti
un portellone blindato, oltre il quale proveniva un concitato frastuono di
attrezzi metallici che battevano e urla che supplicavano.
“C’è qualcuno?”
“Siamo bloccati! La porta non si apre!”
“Aiutateci, l’acqua sta salendo!”
I due impallidirono: con la nave che si sarebbe
rovesciata da un momento all’altro, il destino di quei poveracci sarebbe stato
segnato e oltremodo orribile. Sarebbero rimasti impotenti a vedere l’acqua
salire, sempre di più, fino a morire annegati.
“Tranquilli, ci penso io!”
Il toro dai capelli biondi strinse le grandi mani,
temprate da anni di fatiche nella marina, intorno al manubrio, ma non girò di
un millimetro, anzi, lo trovò tanto duro da sembrare completamente fuso al
resto della porta.
“Sei tosto, eh?” –lo sfidò, rimboccandosi le mani
e ricominciando a tirare.
In quel momento, il quinto siluro colpì la nave,
sbalzando lui e il gigantesco amico a terra.
“Reiner, dobbiamo andare!”
“Solo un attimo, Berthold!”
Berthold deglutì: non era certo indifferente alla
tragica fine verso cui si avviavano i marinai intrappolati, ma chiunque, anche
senza un cuore di pietra, si sarebbe reso conto della situazione; non sarebbe
mai stata della semplice forza muscolare a sbloccare quel portello, altrimenti
tutti quelli di dentro non avrebbero certo invocato il loro aiuto. Non c’era
niente che potessero fare per loro. Ma questo andava chiaramente oltre il
comprendonio di quel mulo di Reiner.
“Reiner, non ce la farai mai! Non la senti la nave
che si inclina sempre di più? Se non ci sbrighiamo ad uscire di qui ci
resteremo secchi anche noi!”
“Non li possiamo abbandonare!” –si concesse di
sprecar fiato tra un grugnito e l’altro.
“Reiner, sii realista! Dobbiamo andarcene!”
Per tutta risposta, quel grosso sbruffone, come
pensasse avesse solo bisogno di essere un po’ rassicurato, ingrossò il bicipite
destro e gli sorrise: “Se non li tiro fuori io qui non li tira fuori nessuno!”
L’effetto fu invece solo quello di far esasperare
lo spilungone: “Non ce la farai mai!”
“Lo vedremo!”
L’aveva sempre ammirato per il forte senso del
dovere, ma a volte non riusciva a capire dove questo finisse e dove iniziasse la
sua bonaria stupidità.
Chi d’altra parte lo conosceva meglio di lui? Figlio
di militari, un’infanzia passata insieme a giocare ai soldati, l’arruolamento
volontario nella marina, una testa la sua, in sostanza, riempita più del
necessario di chiacchiere e sogni sul patriottismo, l’onore, il valore. Una
testa troppo dura e piena di principi per affrontare la realtà quando questa si
faceva drammatica, come ora, che per la prima volta scopriva cosa fosse la
guerra vera. Il suo amico era incapace di compromessi, pronto piuttosto a
trincerarsi dietro la sua immagine precostruita di “soldato modello”, a
trascinarsi dietro i suoi principi e i suoi bei discorsi, piuttosto che
mostrare l’umano in fondo fragile che esisteva anche sotto quella montagna di
muscoli.
Per un attimo la forza tutt’altro che sovrumana
gli venne meno, e la testa gli cedette stanca, sbattendo contro il metallo del
portellone, da cui non smettevano di giungere le grida di quei condannati. Era
rosso come un pomodoro e le vene della fronte, gonfie come sul punto
d’esplodere: pure la schiena, inarcata, sembrava sul punto di spezzarsi, o
quantomeno di lasciar partire un ernia. Berthold, reggendosi al corrimano,
guardava un po’ lui, un po’ le scale.
“Reiner, dannazione! Andiamo via!”
Gli voleva bene, non voleva morisse per un
questione d’orgoglio, né voleva morire lui, ansioso di abbandonare quella
trappola, e di raggiungerla il prima possibile…
“Io…” –cominciò a dire ansimando- “… sono Reiner
Braun… vincitore a mani basse del torneo di braccio di ferro dell’Oklahoma! Io…
glielo devo… Lo devo a tutti!”
Perché tirar fuori persino una cosa tanto sciocca
adesso?
“Lo devo a tutti quelli che mi hanno acclamato
come il più forte di questa nave!”
Fino a che punto arrivava il suo spirito di
sacrificio?
“A tutti quelli che mi hanno riconosciuto del
valore!”
Si sarebbe dunque suicidato per un titolo senza importanza,
e il caro ricordo del mese prima, quando i marinai se lo erano portato in
trionfo sulle spalle per le vie del porto, a sbandierarlo orgogliosamente agli
equipaggi delle altre navi, prima di far scorrere frullati e birra a fiumi alla
tavola calda. Qualcuno di quei marinai, di quei visi sorridenti e festanti di
allora, era già morto quel mattino, e qualcun altro magari era lì dietro quella
porta, in attesa di una fine delle più atroce.
“Vai tu se vuoi, io… Non li abbandono… Proprio io
non posso…” –riprese a stringere i denti e tirare, benché sul punto di svenire-
“Non deluderò… Non…”
“……”
Figurarsi, avevano vissuto insieme fin da bambini,
e se c’era una persona incapace di deludere, quella era Reiner Braun. Reiner
doveva sempre fare il Reiner: quello dei discorsi su che gran paese è
l’America, su quanto bisogna essere orgogliosi di indossare la divisa con cui portarne
alto il nome, quello che quando c’è da lavorare è sempre il primo a farsi
avanti e a spronare gli altri al meglio di sé stessi, quello che si farebbe
ammazzare piuttosto che trasgredire a un ordine, piuttosto che dare di meno di
quanto ci si aspettasse da lui.
Berthold sospirò: molto stupido in effetti essersi
aspettato che lasciasse perdere solo perché era al di sopra delle sue capacità.
A questo punto c’era un unico modo per poter andar via insieme. Procurarsi quella
grossa chiave inglese che aveva visto per terra scendendo le scale…
“Berthold?”
E ficcarla tra le razze del manubrio bloccato per
poterla usare come leva.
“Avanti, Reiner! Insieme al tre!”
Esterrefatto, ci mise un paio di secondi in più
per rispondere: “Si! Uno! Due! TRE!”
Magari Berthold non aveva uno spirito d’acciaio
come Reiner, ma quegli annetti nella marina avevano scolpito un po’ anche il
suo di fisico; ci vollero altri due conteggi, ma a il manubrio finì col cedere
di botto. Berthold tenne aperto il portellone, mentre Reiner, sordo ai
ringraziamenti, si assicurava che uscissero tutti, dando una mano e una
spintarella a chi aveva bisogno di aiuto.
“Ehi, Bert, grazie…”
Il ragazzo moro scrollò le spalle: avrebbe dovuto
essere lui a ringraziarlo se, negli anni a venire, i suoi sogni non sarebbero
stati funestati dal ricordo di quelle grida che, fosse stato per lui, si
sarebbe lasciato alle spalle. Non si diede del codardo per averlo pensato, e
continuava a ritenere che la sua sarebbe stata la scelta più lucida e razionale
con la nave pronta a capovolgersi da un momento all’altro.
Ma sarebbe stata una scelta giusta più pensante di
mille idiozie, e insieme a lui, grazie a lui, ne aveva fatte di idiozie di cui
poi non si era certo pentito, inclusa quella di arruolarsi per potergli stare
vicino. Anche quel lunghissimo giorno lo stavano affrontando insieme, e poiché
lo aveva avuto al suo fianco, quelle voci che l’avrebbero perseguitato tutta una
vita si erano trasformate nei volti carichi di gratitudine che aveva visto scorrergli
davanti: un ricordo indelebile molto più facile da portarsi dietro.
La nave aveva raggiunto ormai un’inclinazione per
cui era difficile tenersi in piedi: non c’era più un istante da perdere, e
stavolta fu Reiner quello ansioso di mettersi le ali ai piedi!
“Muoviamoci!”
Divorati gradini a suon di salti, aiutandosi con
gli appoggi offerti dalle pareti, i due tornarono alla luce del sole: l’inclinazione
della nave era tale che avrebbero potuto tuffarsi in acqua direttamente da lì,
niente di più difficile di quando da ragazzi saltavano dai rami alti degli
alberi dritti nel fiume.
In quell’acqua c’erano molti meno cadaveri,
pensarono con nostalgia.
La tragedia è nel pieno del suo corso: ognuno fa
la sua parte, e qualcuno col suo intervento, come in questo capitolo, cerca e
riesce a cambiare le proprie sorti e quelle delle persone accanto a sé. Ma
tanti altri muoiono, aerei rovinano al suolo e navi colano a picco, senza che
nessuno possa far niente. Quali altri episodi, eroici o tragici, si
presenteranno la prossima volta?
Col mio animo LeviHan, la prima scena è filata
molto liscia, e anche la sequenza di combattimento mi ha molto appassionato,
specie scritta con la giusta colonna sonora (consiglio i << Two Steps
from Hell >> per scrivere o leggere scene del genere) *__* Quella di
Reiner e Berthold mi ha riservato un po’ più di grattacapi, volendo provare a
rendere, in un qualche modo, anche in questo contesto, la “doppiezza” d’animo che
in vari punti del manga Reiner ha mostrato. Quanto a Bert, spero non avergli
fatto troppo fare la figura del disfattista XD In fondo è un bravo ragazzo,
dai!
Alla prossima!