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Autore: Elleen    06/02/2016    3 recensioni
Qualche giorno dopo l'alleanza stretta tra l'Inquisizione e i Maghi, l'Araldo di Andraste decide finalmente di fare una passeggiata a cavallo, per potersi godere il paesaggio innevato di Haven. Ciò si rivelerà, poi, una buona occasione per passare del tempo con il Comandante Rutherford.
"Un momento di pace" è la prima fanfiction che pubblico dopo parecchi anni e il primo racconto che scrivo (e concludo, un evento eccezionale) sul fandom di Dragon Age. E' stata ispirata dalla reazione d'inquietudine che Cullen ha mostrato nei confronti della scelta, proposta dall'Inquisitrice, di allearsi con i Maghi.
Ci tengo a ringraziare la mia migliore amica (conosciuta come Leyra1191 qui su EFP). E' grazie a lei se ho iniziato nuovamente a scrivere. Grazie per aver dato un tocco di eleganza in più al testo, facendomi da Beta, e grazie per il sostegno e la disponibilità!
Genere: Angst, Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Cassandra Pentaghast, Cullen, Inquisitore
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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(Illustrazione realizzata da me; non utilizzare senza il mio permesso, grazie!)



Gli zoccoli di Calypso e Altares affondarono nella neve, scricchiolando e facendo tintinnare le loro bardature ad ogni passo.

Il vento fresco soffiò leggero sui visi dei due agenti dell’Inquisizione, mentre la neve ricopriva il paesaggio, fiocco dopo fiocco, e solo allora la donna si rese conto di quanto fosse bello passeggiarvi sotto.

«I maghi sono pronti ad avvicinarsi al Varco. Spero che questo sia sufficiente a chiuderlo.»

Il Comandante osservò con amarezza l’enorme, minaccioso squarcio che aveva invaso il cielo. Dal canto suo, la ventottenne s’irrigidì: aveva davvero sperato che la discussione relativa all’alleanza con gli eretici non saltasse nuovamente fuori. Si chiese quale considerazione avesse l’uomo di lei: cosa ne pensava realmente del fatto che l’Araldo fosse una maga? Lo urtava, lo intimidiva… lo deludeva?

«Non eravate contento dei maghi che ho portato qui» commentò lei istintivamente, il tono di voce velato da una sottile ironia, seppur iniziasse a sentire fastidio al petto e un leggero formicolio alle tempie, oltre che al perpetuo rimorso che l’aveva colpita poco prima alle scuderie.

«Devo chiedervelo: avete… dei problemi anche con me?» sputò fuori quella domanda con insicurezza, pentendosene subito dopo. Lo guardò poi con una punta di tristezza, rendendosi conto che, ancora una volta, lui parlava dei maghi con freddezza e distacco.

Si preparò psicologicamente a qualcosa di simile allo sguardo fulminante che le aveva rivolto al tavolo di guerra qualche giorno addietro… Invece negli occhi del Comandante trovò comprensione, mista all’espressione di qualcuno che era appena stato frainteso.

«Certo che no» sospirò lui. «Non voglio compromettere la vostra alleanza, ma devo garantire la sicurezza di chi vive qui. Tale preoccupazione si estende ai maghi: rischiano la vita per l’Inquisizione, come voi. Le precauzioni prese servono solo ad aiutarvi, niente di più. Confido che possiate accettarle come tali.»

Trevelyan annuì incerta. Il senso di colpa l’assalì e le mozzò il fiato. Forse pronunciare quelle parole pesava all’ex-templare, che si era probabilmente deciso di far buon viso a cattivo gioco. Ora era lei a scrutare combattuta l’abnorme squarcio tra le nuvole.

«Perdonatemi, io…» si guardò con afflizione la mano sinistra, pulsante di magia. Dal profondo taglio di luce verde, sottili venature si ramificavano coprendo l’intero palmo e le dita, propagandosi per tutto l’avambraccio. Realizzare che una cosa simile fosse letteralmente ancorata al suo arto la terrificava e l’inorridiva, ma sotto sotto un poco l’affascinava. «Mi dispiace.» Disse infine, con un pesante groppo in gola, le labbra strette per contenere il moto di singhiozzi che sarebbe scoppiato se non si fosse trattenuta con tutte le sue forze. “Non voglio deludere nessuno”, continuava a ripetersi. Ormai iniziava a farne una malattia; voleva portare la pace, ma chi era davvero degno di possedere un potere come il suo?

Deglutì a fatica ed emise un sospiro tremulo, guardando un punto fisso immaginario davanti a sé. Si contenne tanto che Cullen non riuscì a notare la sua sofferenza, ed era quello che lei voleva.

«Non mi dovete delle scuse.» Il Comandante frenò Altares, catturando l’attenzione della donna, e lui sospirò di nuovo. «So cosa significa avere sulle spalle le vite dei propri uomini… essere l’unica speranza di salvezza per quasi tutto il Thedas è ancora peggio. Cassandra si fida di voi e… anch’io.» Aggiunse, osservando il percorso sterrato che si sarebbe interrotto qualche metro più avanti.

Le parole dell’uomo la sollevarono leggermente dalla condizione di disagio che albergava nel suo cuore. Si fidava di lei. Con quella piccola consapevolezza sentiva che tutto sarebbe stato un po’ più facile.

«Grazie» gli rispose con timidezza, portando una ciocca ribelle di capelli biondo chiarissimo dietro l’orecchio. Il nodo alla gola si sciolse lentamente. Da sempre aveva sopportato le critiche e i giudizi negativi, ignorandoli, senza prendersela troppo. Dopo l’inizio della ribellione dei Circoli, qualcosa era cambiato: il mondo esterno alla Torre di Ostwick era diverso da come l’aveva immaginato. I ricordi di quando era bambina non erano abbastanza vividi e mancavano della piena coscienza del fatto che fosse un luogo perlopiù crudele e corrotto. Era forse stata questa riscoperta ad innescare in lei un amplificato senso di autoconservazione, di difesa su tutti i piani del suo essere? Il contatto con la vita vera era stato disarmante. Possibile che avesse dimenticato i suoi sei anni da nobile così facilmente? Rivedere la luce del sole filtrare tra le foglie degli alberi in fiore, assaggiare un frutto colto per mano propria, bagnarsi sotto la pioggia o la neve… non aveva prezzo.

Il viso di Cullen si distese in un’espressione di letizia, mentre dava una pacca affettuosa sul collo del proprio destriero. «Immagino non abbiate intenzione di parlare di guerra, per questo pomeriggio.»

«Non proprio» ridacchiò lei, smontando da cavallo. I piedi affondarono nel manto bianco, scavando due orme profonde.

«È un miracolo che i nostri due amici non siano scivolati su questo terreno» commentò lui, lasciando la sella per proseguire a piedi, imitando Evelyn. Tenevano le briglie strette in una mano, guidando i due cavalli.

«Sono eccezionali» ribatté la maga, voltandosi per accarezzare il muso di Calypso. Vi poggiò contro il viso, affettuosamente. Altares avvicinò le narici al proprio padrone, inumidendogli una guancia, come desideroso delle stesse attenzioni che la ventottenne aveva riservato alla cavalla.

«Argh.» Si pulì con il dorso della mano guantata, facendo una piccola smorfia. «A volte sembra più un mabari che un cavallo» sospirò, accontentandolo con un grattino sulla testa. Negli occhi di Rutherford luccicava un grande affetto per il destriero, lo stesso affetto che Trevelyan provava nei confronti del proprio. Le si sciolse il cuore, rimanendo imbambolata davanti a quella tenera scena, fino a quando il suo sguardo non incontrò quello di Cullen. Lei interruppe il contatto visivo quasi subito, spostando la propria attenzione su una piantina di radice elfica che cresceva sotto ad un albero di pino. Legò la Strider ad un ramo tozzo e resistente; estrasse un pugnale dal fodero posteriore agganciato alla cintura e si piegò per recidere la pianta.

«Calypso invece ha gusti particolari. Stamattina l’ho vista masticare delle foglie di Embrium. Mastro Dennet mi ha detto che la mangia regolarmente…» raccontò con un risolino che trasmise anche al biondo, sorpreso ed un poco divertito da quella curiosità.

L’ex-templare si avvicinò all’albero, al quale fissò le briglie del mezzosangue. Spezzò due piccoli rametti di aghi di pino, per poi conservarli con cura in un borsellino. Lei lo scrutava di sottecchi, interrogandosi su cosa ne avrebbe fatto di essi. Qualcosa le diceva che l’uomo amasse circondarsi di profumi raffinati, come quello che aveva piacevolmente coinvolto i sensi dell’Araldo qualche minuto prima, alle scuderie.

In quel momento si udì il verso poco lontano di un druffalo ed Evelyn si alzò, sporgendosi dall’albero alto per verificarne la provenienza. Ancora doveva abituarsi alla presenza di animali liberi attorno a lei, a partire dai numerosi nug. Giurò di aver visto Leliana prenderne uno in braccio e cullarlo come fosse un neonato, una volta.

Lupus in fabula, il grande bovino inseguiva uno di quei piccoli esserini rosa, correndo in circolo. Nel frattempo, un gruppo di montoni brucava quel poco d’erba rimasta a disposizione. Trevelyan rimase assorta nei suoi pensieri per qualche secondo, finché la voce vellutata e gentile del Comandante non la riportò alla realtà.

«Arald- Evelyn,» si corresse, schiarendosi poi la gola e grattandosi la punta del naso arrossata. I grandi occhi dorati di lei lo guardarono sorridenti. Era lieta che la chiamasse per nome.

«Intravedo una cava, potrebbe esserci ancora del ferro grezzo da queste parti.» Indicò una parete rocciosa scura alla loro destra. La maga annuì e lo seguì, dando una veloce occhiata ai due cavalli, prima di allontanarsi: la destinazione era lontana solo di qualche metro e da lì avrebbero potuto adocchiarli facilmente.

«Loro staranno bene» la rassicurò l’uomo, un mezzo sorriso sulle labbra decorate dalla cicatrice. La giovane si era chiesta più di una volta in che modo se la fosse fatta... Per quello che riguardava lei, in quei ventidue anni trascorsi al Circolo dei Magi, se n’era procurata qualcuna durante le prove pratiche di magia, ma molte più ferite furono causate dopo la sua uscita dalla Torre. Adesso era costretta a mettere in pratica gli insegnamenti, durati anni, per sopravvivere. Era un soldato, come tutti quanti, solo che gli altri non avevano un marchio demoniaco sulla mano…

«Dovremmo segnare questo punto sulla mappa…» disse, cercando quest’ultima fra le pagine del tomo che portava assicurato alla cinta. Il biondo stava per risponderle, quando i due si accorsero che proprio il povero nug aveva iniziato a squittire disperato alle loro spalle, correndo nella loro direzione. Ovviamente con l’enorme bovino alle costole.

«Oh no...» furono le uniche parole della donna, che rimase paralizzata con le mani sul proprio libro. L’ex-templare le stava parlando, ma lei era troppo distratta da quella scena per dargli ascolto. «Ehm…» bussò su uno degli spallacci di lui per attrarre la sua attenzione.

Mentre il druffalo muggiva e caricava, Evelyn vide l’animaletto rosa sfrecciarle accanto, per poi scomparire nella cava. In quel momento, altri tre druffali spuntarono da dietro un masso, seguendo quello che doveva essere il loro capo branco.

«Um?» Cullen corrucciò la fronte, non appena realizzò che una piccola mandria si avvicinava pericolosamente imbufalita.

«Per Andrast-» lui non completò la frase, costretto a darsela a gambe insieme a Trevelyan, che lo aveva preso istintivamente per mano. Per un pelo il gruppo di animali non li travolse, andando a raggrupparsi davanti alla caverna.

I due continuarono a correre con non poche difficoltà sul terreno innevato, finché non giunsero davanti ad una parete rocciosa. La maga si rese conto solo allora, realmente, che stava stringendo il palmo guantato di lui. Arrossì e mollò lentamente la presa, una volta fermi. Il Comandante tentò di riprendere fiato, leggermente curvo su sé stesso, una mano sul ginocchio. Per la prima volta lo vide ridere di gusto, mentre delle piccole rughe increspavano la pelle agli angoli degli occhi ambrati. Un ricciolo color grano gli cadde sulla fronte quando guardò Evelyn, abbandonando il peso del proprio corpo contro il muro di pietra scura e sdrucciolevole. Lei dischiuse le labbra, più rosee del solito per il freddo, sulle quali si dipinse un sorriso. Presto la fragorosa risata contagiò anche lei, facendole dimenticare la tensione oramai divenuta una costante tra le sue sensazioni.

Cullen si schiarì la voce, grattandosi la nuca ed asciugandosi una lacrima invisibile per la comica situazione.

«Credo che l’esplorazione della cava possa attendere» mormorò con voce vellutata e pacata.

Il vento scompigliava leggermente i loro capelli, mentre i fiocchi di neve brillavano sui loro abiti.

«Anche la mia passeggiata, immagino» proferì lei, facendo spallucce. Non avevano cavalcato granché, ma non aveva importanza in quel momento. La compagnia del Comandante si era rivelata più che piacevole.

«Non è ancora troppo tardi» rispose l’uomo, porgendole un braccio. Trevelyan lo guardò con un sorriso timido, ma dentro era raggiante, felice di quella proposta. Cullen Rutherford continuava a sorprenderla, ad emozionarla anche solo con piccoli gesti. Erano bastati degli sguardi, il contatto con le sue mani, la sua voce gentile a rendere speciali quelle poche ore trascorse insieme. Chi l’avrebbe mai detto?

Evelyn gli diede il braccio, sussurrando un sincero “Grazie”. Tremò un poco, forse per il freddo, forse per l’emozione. L’ex-templare era forte ed infondeva sicurezza, un senso di protezione.

Improvvisamente, venne colpita da un dolore lancinante alla mano sinistra.

Era il Marchio.

Da dopo il suo risveglio ad Haven aveva smesso di farle male, se non per qualche rara e aggressiva fitta. Serrò la mascella e strinse il pugno, sperando di attenuare la sofferenza, mentre un pesante groppo le si formava nuovamente in gola. Il naso le bruciò tanto da farle venire gli occhi lucidi e si strinse istintivamente a lui, come a cercare un qualche tipo di conforto.

«Avete freddo, milady?» chiese Cullen, voltandosi per vedere il motivo del rallentamento.

«No, sto bene.» Evelyn tentò di mentire, la propria mano stretta al petto, ma la voce malferma la tradì.
Il biondo si fermò, piantandosi davanti a lei. La maga era nel panico, con le labbra bianche per lo spavento, lo scoraggiamento e il gelido freddo che ora le entrava nelle ossa.

«Milady… Evelyn» ritentò lui, il tono ancora più lieve, quasi impercettibile.

La donna cercò di evitare il suo sguardo, ma il richiamo di quella voce era più forte della sua stessa volontà. Finalmente i grandi occhi dorati di lei incontrarono quelli di lui, dal colore simile. Trevelyan provò a sorridere, con scarso successo... Il cuore le batteva tanto veloce da farle male.

«Non siete molto brava a mentire…» sorrise lui, senza smettere di guardarla, e riuscendo a strapparle una debole risatina nervosa. «È quel… Marchio, vero?» tornò serio, quando lei annuì con visibile amarezza e tirò su con il naso.

«Permettete?» domandò con la stessa gentilezza che aveva riservato nei confronti di Altares, la prima volta che l’aveva visto, e quasi con una punta di curiosità nei confronti di quella strana magia.

La donna esitò, fissandolo per qualche secondo, mentre lui si toglieva i guanti e le porgeva una mano. Allora, lentamente, allungò la propria, tremante, verso di essa. Fu immediatamente sorpresa dal calore che questa emanò e deglutì con difficoltà… Ed ecco che finalmente poté sentire le mani dell’ex-templare sulle sue. Il suo tocco era delicato e gentile... Non poté non osservarle con incanto e stupore: per quanto fossero ruvide, segnate da qualche graffio e cicatrici, le trovò estremamente belle. Le dita erano lunghe, eleganti ma mascoline e callose allo stesso tempo.
Portò lo sguardo sul viso concentrato e un brivido le percorse la schiena, mentre lui sfiorava con timidezza, quasi con timore, le venature dal color dell’oblio.

I loro volti erano illuminati dalla viva e pulsante luce che il Marchio emanava e l’espressione del Comandante si fece ancor più meditabonda e compassionevole.
«Mi dispiace. Vorrei poter fare qualcosa per voi» mormorò, incatenando il suo sguardo a quello di Trevelyan, la quale batté le palpebre ripetutamente nel tentativo di ricacciare indietro le lacrime che stavano per traboccarle dagli occhi.

«Lo state… lo state già facendo» proferì lei timida, con un filo di voce. Un luccicone le scivolò lungo la guancia e si affrettò ad asciugarlo con il dorso della mano destra, coperta dal guanto di pelle fredda, sperando che l’uomo non l’avesse notata -- anche se era ovvio che la cosa non gli fosse sfuggita. Le rivolse un sorriso affettuoso e tirò fuori un fazzoletto di cotone, porgendoglielo. Lei pronunciò un flebile “Grazie”, ancora una volta colpita dalla sua amabilità. Lo passò sullo zigomo, lasciandolo premuto quando un’altra lacrima ribelle scese fra le pallide lentiggini. Ripiegò il leggero tessuto bianco in quattro, tirando su col naso, e sorrise all’uomo quando questo le offrì nuovamente il proprio braccio, condividendo con lei il proprio mantello.
Il dolore non c’era più.

   
 
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