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Autore: aturiel    07/02/2016    1 recensioni
[Racconti di Mezzanotte]
dal testo "Ed eccolo lì, Gil: il capo chino sulla sua spalla, le braccia deboli, gli occhi aperti contro il suo maglione, le gambe che cedevano e nessuna memoria del motivo per cui si fosse sentito così arrabbiato. Un attimo prima era tranquillo, quello dopo gli era parso di scoppiare. Aveva quindi dovuto esternare ciò che era di troppo nel suo animo e ridurlo a brandelli, strappandolo e gettandolo via come fosse un foglio di carta. L'unica cosa che lo manteneva in piedi erano le braccia accoglienti di Alan che, premuroso, di nascosto allontanava con la punta delle scarpe le schegge da vicino i suoi piedi."
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Terza Classificata al contest "The Path of Your Pack" indetto da BlackIceCrystal sul forum di EFP.
Partecipa al contest "A mille ce n'è... di slash da narrar!" indetto da Sango_79 sul forum di EFP.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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You tell me to hold on
Oh you tell me to hold on
But innocence is gone
And what was right is wrong”

Per la sesta notte consecutiva Alan sentì la porta chiudersi dopo le 03:00. Inizialmente aveva pensato, come le volte precedenti, di rimanere nel letto fingendo di dormire, ma appena sentì un tonfo si alzò di scatto e corse nella stanza adiacente.
Gilbert era sdraiato per terra e stava cercando di alzarsi in piedi, senza però riuscirci. Alan per un attimo dimenticò completamente ciò che era successo nei precedenti sei giorni, lo afferrò per un braccio e lo tirò su. Era una strana sensazione averlo nuovamente fra le braccia, sentire ancora il suo odore pungente per quanto coperto quasi del tutto da quello dell'alcool e del fumo. Lo abbracciò solo per un secondo, ma gli parve di tenerlo stretto da una vita.
«Si può sapere che hai combinato?» gli chiese sottovoce, quasi per paura di disturbarlo.
In risposta gli giunse solo un mugugno roco e una mano che gli artigliava con decisione una spalla per sorreggersi. Alan quindi lo trascinò fino nel suo letto, aiutandolo a stendersi; stava per andarsene a dormire nella sua stanza, quando una mano gli afferrò un braccio, chiaro segno che Gilbert desiderava che restasse. Si sdraiò al suo fianco, cercando di non toccare troppo il suo corpo per paura che si ritraesse, ma fu proprio Gilbert che, poco dopo, si accoccolò come un bambino accanto a lui, appoggiando il capo sul suo petto.
«Muori» lo sentì biascicare poco prima che si addormentasse.
Alan sorrise senza motivo e, con un braccio appoggiato mollemente sulla sua schiena, cadde in un sonno senza sogni.

Quel giorno era in programma la foto di classe – l'ultima della loro vita alle superiori, per fortuna. Tutti avevano un aspetto quanto meno decente, tutti avevano tentato di accostare due colori che stessero vagamente bene insieme, alcuni addirittura avevano indossato una camicia. Tutti, certo, ad esclusione di Gilbert.
D'altronde cosa si poteva pretendere da qualcuno in quello stato? La sera prima aveva esagerato, e le sue occhiaie lo dimostravano, senza contare poi la pelle ancora più pallida del solito e i capelli sporchi in un modo improponibile, ben nascosti sotto un cappello di lana perché non si vedessero troppo. Sì, per lo meno si era impegnato a vestirsi: la felpa nera che indossava – una delle tante – era pulita e i jeans – ovviamente dello stesso colore – erano i suoi preferiti, quelli strappati sulle ginocchia. Era un vero peccato che ogni centimetro della pelle che sbucava dai vestiti fosse o ricoperto di lividi veri e propri o talmente pallido che, al freddo, faceva apparire lividi anche il colore delle vene che traspariva sotto di essa.
Alan non aveva ancora capito cosa fosse successo la notte prima, se pensare che la loro relazione – qualunque cosa fosse – fosse stata restaurata, se da quel momento avrebbe potuto ricominciare a parlare con Gilbert, se avrebbe potuto toccarlo. Nel dubbio si teneva alla larga da lui, sperando che, se la risposta fosse stata positiva, allora fosse stato l'altro a muoversi per primo.
Il fotografo che stava di fronte a loro aveva disposto la maggior parte dei ragazzi su delle sedie, altri – i più bassi – seduti per terra, e infine i più alti sul fondo. Gilbert si trovava nell'estremo sinistro dell'inquadratura ed era proprio dietro la schiena di Alan che, in quel momento, si sentiva bruciare come se al posto del suo coinquilino ci fosse un fuoco che gli corrodeva le carni. Non si toccavano, ma Alan sentiva una certa tensione fra loro, tale che il loro silenzio pareva forzato e imbarazzante senza esserlo davvero.
«Sorridete!» urlò quindi il fotografo, mettendosi dietro l'obbiettivo.
Alan sospirò velocemente, cercando di mettersi in posa, quando una mano gelida si posò sulla sua spalla. Si voltò di scatto e incontrò il viso pallido di Gil illuminato da un sorriso dolce, con gli occhi talmente stretti da parere chiusi. Ma non fece in tempo a girarsi di nuovo che sentì la macchina scattare.
Prevedeva già come sarebbero usciti, in quella foto: Alan con uno sguardo adorante e sorpreso diretto al viso di Gilbert, e quello che invece sorrideva serafico verso l'obbiettivo, con le palpebre abbassate per nascondere gli occhi che detestava.
Una perfetta sintesi del nostro rapporto, pensò Alan, sorridendo amaramente come si era abituato ormai a fare. Quell'amarezza era però solo apparente: non c'era nulla di meglio per lui che avere di nuovo l'affetto di Gilbert e, in quel momento, della foto non gli importava proprio nulla.

Alan non riusciva a capire, la sua mente proprio non ci arrivava.
Aveva incominciato a sospettare che il cervello di Gilbert si stesse pian piano friggendo, che tutti quei punti di Q.I. lo avrebbero fatto andare, prima o poi, fuori come un balcone, ma a volte la consapevolezza e l'amore lacerante che provava per lui non bastavano a fargli ignorare quanto fosse stupido, in fondo.
«Quindi hai deciso che lascerai la scuola, e a quattro mesi dagli esami».
«Stai diventando noioso, Al» disse lui di tutta risposta.
Alan sospirò, quindi cercò di ficcare un minimo di sale in zucca al suo coinquilino: «So che tu non te ne fai nulla della scuola, so che sei un genio e tutto quello che ti pare, ma a questo punto perché aspettare fino ad adesso? Mancano quattro mesi e poi tutto sarà finito, e magari non avrai buttato nel cesso gli ultimi quattro anni della tua esistenza».
«Ogni secondo che trascorro fra quelle mura è sprecato, forse anche più delle sedute dalla psicologa, che almeno mi divertono» rispose lui, portandosi una sigaretta alle labbra.
Alan rimase in silenzio.
«E poi vorrei cantare» aggiunse in un mormorio, come se avesse paura che qualcuno lo sentisse.
Nemmeno questa volta Alan rispose, ma il suo silenzio palesava solo ciò che il suo cuore gli urlava, ovvero il desiderio di avvicinarsi a quella testa bacata che si trovava ad amare – sì, proprio amare, nonostante tutto – e abbracciarla. Non poteva permettersi di forzarlo, non poteva permettersi di trovarsi di nuovo lontano da lui.
«Non sono tuo padre, fa' quel che credi» si ritrovò quindi a dire, afferrando a sua volta una sigaretta e accendendola con fare noncurante, anche se dentro di sé c'era un mare in tempesta.
Il silenzio che li aveva accompagnati per anni di convivenza in quel misero buco li trovò ancora una volta, e ad Alan non pesò per nulla: bastarono infatti due minuti scarsi perché Gilbert appoggiasse, come un bambino, la testa bionda sul suo grembo.
E io... io che farò?, era questa la domanda che nella sua testa continuava a rimbombare insistente. Perché Gilbert il genio avrebbe potuto fare qualsiasi cosa nella vita, avrebbe trovato i soldi comunque – anche se avesse deciso di diventare una puttana, tanto il bel visino ce l'aveva – e con i soldi anche qualcuno da ammaliare com'era successo ad Alan. Ma lui? Lui era un misero e mediocre studente, la cui unica forza stava nel proteggere e sostenere un ragazzo che si comportava da bambino e che aveva la fastidiosa mania di rompersi al primo tocco come una rosa di cristallo. Quando se ne sarebbe andato, a scuola cosa avrebbe fatto?
Sacrificio.
Alan sorrise tra sé e sé, quindi si disse che non importava: la cosa fondamentale era la felicità di Gilbert – che tanto meritava dopo tutto ciò aveva passato –, non la sua.

«Mi passi quella cartellina verde, per favore?» chiese ad un tratto Gilbert, seduto per terra.
«Agli ordini, capo» rispose scherzoso Alan, porgendogliela.
Era di buon umore, si vedeva: avevano fatto l'amore due volte quel pomeriggio ed entrambi incominciavano ad essere stanchi e soddisfatti, e Gilbert quando era stanco e soddisfatto componeva musica e cantava con quella sua voce dolce e cristallina. Alan adorava l'assenza di turbamento che quel suono vibrante e sereno portava in tutta la stanza, e ancor di più adorava il sorriso che aveva stampato sulle labbra mentre cantava. Il rischio che si spezzasse in quei momenti era vicino allo zero.
Gilbert aveva scritto ormai qualcosa come quindici pagine di testi, quasi il triplo di spartiti e, di tanto in tanto, nella noia faceva qualche schizzo veloce, cosa che non poteva che rendere Alan doppiamente felice visto che ciò che tratteggiava con la matita raffigurava sempre il suo volto. Ogni tanto decorava quei frettolosi disegni con delle camelie, ma poi ne distorceva i contorni fino a renderle qualcos'altro, quasi come se avesse paura che Alan vedesse quel fiore e si infastidisse.
Alan, però, non ne era affatto infastidito, anzi.
Avrebbe voluto allungare le mani e portarle a toccare la sua carne ancora una volta, avrebbe voluto affondare di nuovo il naso fra i suoi capelli, sfiorare le sue labbra morbide dalla piega infantile, avrebbe voluto mordere la sua pelle, annusare il suo odore e sentire i suoi gemiti di piacere ancora e ancora. Non era ancora sazio di lui, e non lo sarebbe mai stato, n'era certo. Tuttavia non voleva distogliere Gilbert dal suo lavoro e fargli perdere la concentrazione: era giunto alla conclusione che la sua musica – accompagnata dalla sua voce cristallina e limpida – era importante per lui quanto il suo corpo.
D'altronde continuava a chiedersi come facesse un essere umano a comporre così tante canzoni e melodie in poco tempo. Sembrava una macchina talmente era veloce, ma i suoi testi tradivano una fragilità e un'umanità che un semplice ammasso di cavi e metallo non avrebbe mai potuto avere. Ogni tanto provava a strimpellare qualche accordo, unendo ciò che aveva scritto sugli spartiti alle parole, quindi cancellava, riscriveva e ci riprovava finché un sorriso soddisfatto non gli spuntava sul viso.
Alan avrebbe trascorso ore in quel modo, in silenzio in un angolo della stanza ad osservarlo fare ciò a cui teneva di più, a notare i contorni frettolosi dei suoi ritratti e delle camelie che tentava di nascondere, a cogliere di sfuggita quei sorrisi sereni che piegavano le sue labbra morbide. Sì, si sarebbe accontentato di stare in disparte, lontano dal suo sguardo concentrato sui fogli che aveva tutti intorno a sé, lontano dal suo corpo e dal suo odore, lontano dalle sue labbra e lontano da lui.
Ma ci sarebbe stato, e l'avrebbe guardato sorridere.
Sacrificio.

 
****

Alan spalancò gli occhi nel buio.
Tastò con le dita le lenzuola alla sua destra dove ci sarebbe dovuto essere il corpo di Gilbert, trovandole gelide e vuote. Quindi ruotò il capo verso sinistra e guardò l'ora: la sveglia segnava le 04:23.
Si alzò dal letto; il freddo pungeva la sua pelle quanto mille aghi acuminati e ciò lo spinse ad afferrare la prima felpa trovata ai piedi del letto.
Si diresse verso il soggiorno, dove trovò la veranda spalancata. Le tende per la forza del vento invernale svolazzavano impazzite come le ali di una farfalla colta di sorpresa da una tempesta di neve. Alan corse per chiudere le finestre quando, nel buio, vide i contorni di una figura alta e slanciata, distinguibili solo per la luce tremula di una fiammella.
Era Gilbert.
Alan uscì fuori, facendo fatica a tenere gli occhi aperti per il forte vento e per le lacrime che il freddo faceva sgorgare. Ogni tanto vedeva le spalle del ragazzo tremare di brividi profondi, ogni tanto lo vedeva allungare le dita sopra la fiamma per percepirne il calore, ogni tanto scorgeva delle scintille cadere di sotto.
Si avvicinò a Gilbert per tentare di capire cosa stesse facendo, ma senza farsi vedere, con la paura che l'altro si allontanasse. Afferrava dei fogli da una pila accanto a lui e uno a uno li bruciava, gettandone poi le ceneri nel vuoto. Alan, in silenzio, intravide anche che cosa c'era scritto, su quei fogli: a malapena riuscì a trattenere un gemito quando la fiamma dell'accendino mostrò che si trattava di spartiti.
Fece un passo indietro ma inciampò nel tappeto del soggiorno, cadendo per terra come uno sciocco. Gilbert si voltò di scatto. I suoi occhi azzurri brillarono, illuminati solo da quella misera fiammella guizzarono nel buio e si piantarono sul viso di Alan. Ad un primo sguardo parevano quelli di una belva feroce, ma ne bastava un secondo per vedere che negli angoli cadevano lacrime che nessuna fiera avrebbe mai mostrato. E luccicavano, quelle lacrime, anche più degli occhi stessi. Luccicavano come cocci di vetro.

Alan non diceva una parola da ore, e Gilbert non si scomodava a riempire il vuoto creato dal suo silenzio.
Mancava poco tempo e Alan sarebbe dovuto andare a scuola, quindi aveva iniziato a preparare lo zaino ficcandoci dentro libri e quaderni a caso, senza guardare nemmeno la copertina. Non sapeva perché si stesse comportando così, per quale motivo la sua lingua si rifiutasse di parlare a Gil nonostante lo vedesse lì, con la schiena nuda appoggiata alla parete fredda della stanza e il viso stanco.
Le occhiaie avevano nuovamente preso possesso del suo volto, al contrario la luce n'era fuggita.
Gilbert gli tirò uno spintone, poi un altro, un altro ancora. E piangeva mentre lo faceva, come se non potesse smettere ma, allo stesso tempo, arrabbiandosi con se stesso per quelle lacrime. Alan accettava i suoi colpi che, in fondo, non gli facevano male.
Perché aveva distrutto gli spartiti? Un intero giorno di lavoro, decine e decine di canzoni erano andate letteralmente in fumo.
Gilbert gli diede un altro spintone, quindi incominciò ad urlare. Era scoppiato di nuovo, era da tanto che non gli succedeva. Alan sentiva, quasi facessero parte del proprio corpo, le corde vocali dell'altro tendersi fino allo spasimo, la sua voce diventare roca, la sua vista annebbiarsi. Quindi gli si avvicinò e lo sorresse, impedendogli di cadere per terra e, allo stesso tempo, offrendogli una spalla su cui piangere e su cui soffocare quel grido che era incapace di trattenere.
Gilbert gli morsicò più volte la pelle, con forza, senza riuscire a fermare le lacrime.
Alan non poteva far altro che ricordare ciò che era successo quella notte, non riusciva a scacciare dalla mente le immagini del ragazzo distrutto, le sue lacrime, il dolore sordo. Ormai ciò che stava vivendo in quel momento gli sembrava un sogno irreale rispetto a ciò che era accaduto di notte. Le loro due vite – quella notturna e quella diurna – che fino a quella sera avevano mantenuto distaccate, ora avevano iniziato a mescolarsi e a divenire un unico confuso insieme, un grumo di dolore e pazzia, dolcezza e affetto.
Dopo un po' Gilbert si era calmato, ma le lacrime continuavano a scendere, inesorabili.
«Perché hai distrutto tutto?» gli chiese Alan, cercando il suo sguardo.
Fra un singhiozzo e l'altro, così simili a quelli di un bambino, rispose: «Mi fa schifo. La mia musica, le mie parole. Tutto mi fa schifo».
Alan aveva quindi afferrato il viso di Gilbert e l'aveva portato all'altezza del suo. Continuava a piangere, e se ne vergognava. Non voleva lo vedesse in quello stato, ma non riusciva a sfuggire dalle dita di Alan che ancora gli afferravano il volto.
«Non fanno schifo, le tue canzoni» gli disse serio, sapendo di non stargli mentendo.
Gilbert a quelle parole sorrise, ma in modo triste: «Hai ragione. Sono io, il problema. Io, io, IO!».
Si strappò dalle braccia di Alan e si sporse verso il vuoto. Mancava poco che cadesse, quando Alan lo afferrò da dietro e lo tirò via.
Alan sapeva che non aveva voluto realmente morire, che era stato tutto frutto di quella parte di lui che lo portava inesorabile alla distruzione, ma non per questo si sentiva meno triste. Se non ci fosse stato lui, Gilbert ora sarebbe morto, il suo corpo martoriato accasciato sull'asfalto, il suo sangue sparso a terra e la sua bellezza fredda e sporca infranta senza alcun riguardo, perduta per sempre.

I giorni continuavano a susseguirsi senza che nulla cambiasse nella loro routine: di giorno Gil componeva musiche, buttava giù testi, suonava e cantava senza fermarsi nemmeno per mangiare, ma di notte prendeva il suo maledetto accendino e bruciava ogni cosa, spargendone le ceneri nell'aria.
Alan non sapeva cosa fare: da una parte avrebbe voluto che Gilbert smettesse di notte di bruciare la sua musica, dall'altra avrebbe ancora più preferito che smettesse di bruciare se stesso durante il giorno, sprecando ore e ore di lavoro che non avrebbero portato a nulla. La sua voce infatti incominciava a stancarsi, le sue dita erano piene di tagli più o meno profondi causati dalle corde della chitarra, le sue occhiaie sempre più scure e i sorrisi rarissimi. Sembrava che qualcosa lo divorasse da dentro, un qualcosa che gli stava risucchiando ogni luce. Tutto in lui era grigio e pallido, e ormai anche i suoi testi iniziavano a ripetersi e a diventare sempre meno pregnanti e interessanti, fino a che, Alan n'era certo, si sarebbero definitivamente esauriti, insieme alle forze di Gilbert.
La musica di Gilbert, proprio quella che Alan pensava lo stesse salvando, stava invece diventando la sua malattia, ma, pur di non vederlo di nuovo affacciarsi nel vuoto, pur di non vedere più le sue lacrime disperate e sentire i suoi morsi sulla pelle, aveva smesso di opporre alcuna resistenza alla sua bramosia di creare qualcosa di nuovo a tutti i costi e se ne stava seduto in un angolo, ad ascoltare e basta.
Le canzoni che creava mentre il Sole era ancora alto nel cielo, però, non erano nulla in confronto a quelle che aveva iniziato a creare di notte. E Alan sapeva bene che erano quelle che componeva al buio e con le dita ancora sporche della cenere dei suoi spartiti quelle che realmente rispecchiavano il suo essere.
Alan si sedette in un angolo del divano, affianco a Gilbert, ancora scosso da singhiozzi che ormai sempre lo trovavano non appena aveva compiuto la sua opera di distruzione. Non trascorse molto tempo, però, prima che si calmasse e si alzasse da quel posto sicuro che erano le sue braccia per avventurarsi nella sua camera da letto.
Tornò con un'enorme scatola di cartone sigillata. Prese il suo coltellino svizzero e l'aprì, rivelando un basso. Alan non aveva idea di come l'avesse comprato, con quali soldi e con quale tempo, e nemmeno sapeva se fosse o meno capace di suonarlo, ma non gli chiese nulla, rimanendo solo a guardare.
Gilbert non tentò di adoperarlo, né di strimpellare qualcosa – anche perché non aveva alcun amplificatore e nemmeno avrebbe potuto usarlo nell'appartamento in cui si trovavano, visto che erano in affitto e già un paio di volte il proprietario aveva minacciato di buttarli fuori di casa per i loro “schiamazzi” –, ma restò lì, a sfiorarne le corde con le dita sottili, immaginando di suonarle.
Prese poi una penna nera e iniziò a scrivere freneticamente sugli spartiti, seguendo una melodia che aveva in testa e che non poteva neppure provare.
Quello che sembrava un Paradiso si era tramutato in Inferno. Ma d'altronde era sempre stato così, con Gil. L'unico problema era che ormai vi era caduto anche Alan e difficilmente sarebbe riuscito ad uscirvi.
Sacrificio, ancora e ancora.

Sì alzò dal letto e posò le dita sul corpo tiepido di Gilbert, accoccolato al suo fianco. Si stava trasformando di nuovo in una piacevole abitudine, la sua presenza, ma questa volta Alan aveva messo da parte ogni pensiero che lo riconducesse all'idea che la loro storia sarebbe finita in modo positivo, l'unica cosa che si concedeva di sperare era che almeno durasse.
Aveva preso un impegno con se stesso, e avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per rispettarlo: lui era la camelia bianca che Gilbert aveva preso dolcemente fra le dita quell'unico giorno in cui aveva indossato una camicia bianca, lui era tutto il profondo affetto, la devozione e la fedeltà che Gilbert potesse mai sognare di ricevere. Gli avrebbe mostrato la gola in segno di resa e sottomissione, gli avrebbe permesso di graffiarla con la punta di un coltello, di affondarci i denti o, cosa ancora più intima, di baciarla con trasporto.
Avrebbe sanguinato per lui, si sarebbe sacrificato per proteggere quello che, ormai si era rassegnato all'evidenza, era la persona che più aveva amato e amava al mondo, la persona che sarebbe stata la sua unica dipendenza e ossessione.
Proprio mentre accarezzava la schiena di Gil, proprio mentre osservava le ossa sporgenti delle scapole, proprio mentre la luce illuminava la sua pelle candida, proprio mentre lo guardava lì, immobile e completamente in sua balìa, capì che avrebbe rinunciato al suo futuro per lui. Che cosa sarebbe infatti stata la sua vita senza quel fragile fiore di vetro fra le dita? Si sarebbe sentito inutile e inetto, avrebbe perso il suo scopo e il suo amore, non solo per Gil, ma anche per se stesso.
Si avvicinò al suo orecchio e, sereno, gli sussurrò che sarebbe andato ovunque fosse andato anche lui, che se avesse abbandonato la scuola, lo avrebbe fatto anche lui, che se avesse deciso di gettarsi nel vuoto, se non fosse riuscito a impedirglielo allora l'avrebbe seguito.
Quindi si addormentò e cadde in un sonno senza sogni né angosce.

Alan non riusciva a smettere di tremare, le dita tendevano spasmodiche la carta a righe che aveva trovato sul comodino.

 
So che non è da me lasciare biglietti, né fare scenette melense inutili e scontate.
Se si fosse trattato di qualcun altro, me ne sarei andato e basta, ma si tratta di te.

Alan strinse con più forza il foglietto, quasi fino a strapparlo.
 
Ho detto che voglio lasciare la scuola, ma non ti ho detto che voglio anche lasciare l'appartamento, la città e qualsiasi cosa mi leghi a questo posto. Se voglio smettere di soffocare, devo essere completamente libero da vincoli. Mi capisci, no?

Alan lesse ciò che c'era fra le righe: fra tutti i vincoli sapeva di essere il più forte. Ecco cosa mancava, in quella lettera: Devo liberarmi di te, Al, perché sei un vincolo, il più soffocante di tutti.
 
Non so dove andrò, nemmeno per quanto tempo starò via. D'altronde non ho mai creduto ai 'per sempre', perché dovrei iniziare adesso?
Volevo solo farti sapere che sto bene, che starò bene. E voglio che anche tu stia bene, perché non riuscirei a perdonarmi di essermene andato senza essere sicuro che tu non sia più felice così.
Sì, ne sono convinto, tu sarai più felice, senza di me.

Alan rise amaramente, lasciando che le lacrime che si erano accumulate negli angoli dei suoi occhi cadessero silenziose sul foglio. Era stato egoista fino all'ultimo, mostruoso fino alla fine, un alto inutile cliché usato solo per giustificare se stesso. Perché no, non sarebbe stato più felice, non lo sarebbe più stato senza di lui. Ma che ne sapeva Gilbert, d'altronde? Non aveva mai visto la sua devozione, il suo amore bruciante, il suo sacrificio. Che ne poteva capire, lui, dell'amore? Era un mostro che a malapena si reggeva in piedi di giorno e che di notte esplodeva in attacchi violenti contro se stesso e tutto ciò che lo circondava. E anche la sua musica era mostruosa, di giorno perché inetta e vana, di notte perché silenziosa e muta.
 
Me ne vado, Al, ma non è un addio, questo posso promettertelo. Un giorno o l'altro tornerò, ti troverò con una bella ragazza al fianco e un sorriso soddisfatto su quella brutta faccia che ti ritrovi e ti offrirò una birra. E tu farai fatica a riconoscermi, perché ormai mi avrai dimenticato.

Dimenticarlo, sì, come se fosse possibile dimenticare il suo corpo magro e spigoloso, il suo calore e le sue mani fredde, i suoi capelli sempre scarmigliati, le sue labbra carnose e i suoi occhi spenti. E le sue ciglia, e le sue dita, e il suo sorriso, e tutto quanto. Come se fosse possibile dimenticare dieci anni della propria vita.
 
Ti voglio bene, Al, e grazie di tutto.

Gil

Alan finì di leggere le ultime righe, trovando la conferma che tutto ciò che c'era stato fra loro nella mente di Gilbert non era stato altro che qualcosa riassumibile in un “ti voglio bene”. Prese quindi il foglio e iniziò a strapparlo ancora e ancora, fino a che non divenne una manciata di coriandoli a Carnevale nelle mani di un bambino. Ma subito dopo se ne pentì e si chinò per terra a raccogliere ogni frammento, a cercare affannosamente di rimettere tutto a posto, di trovare di nuovo la scrittura spigolosa di Gilbert, spigolosa come lui.
Lo voleva lì, dannazione quanto lo voleva. E sapeva che gli avrebbe permesso di commettere su di lui di nuovo tutte le torture che gli aveva fatto subire i quei dieci anni pur di averlo vicino. Avrebbe dato la sua stessa carne per poterlo vedere, accarezzare, abbracciare, baciare.
Ma ora, nella loro casa, prima sempre piena della sua voce, c'era solo il silenzio, spezzato a malapena dai singhiozzi di Alan che, dentro di sé, non faceva altro che pensare a una parola: sacrificio.
   
 
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