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Autore: WilliamShare    22/02/2016    15 recensioni
[SEQUEL DI OBSIDIAN]
QUESTA STORIA FA PARTE DELLA SERIE "SURRENDER AND HEART". POTETE LEGGERE QUESTA FANFICTION ANCHE SENZA AVER LETTO IL PREQUEL.
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TRAILER: https://youtu.be/NcTHnGmcRSU
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“Ciao amore.” Sussurrai, mentre le lacrime cominciavano a scorrermi lungo le guance ed il mio respiro si faceva affannoso[...]
“So che probabilmente ti sarai stancato di sentirtelo dire, ma mi manchi. Mi manchi tantissimo.” Mi asciugai il viso con una mano e tirai su col naso, prendendo un attimo di pausa per riordinare le idee [...]
Rimasi un po’ in silenzio, fino a che l’infermiera non entrò per avvisarmi che sarei dovuta uscire entro pochi minuti[...]
“Devi svegliarti Harry.” Dissi, sollevandomi dal suo petto e poi mettendomi in piedi, tenendo la sua mano fra le mie, cullandola leggermente per poi guidarla verso di me, appoggiandola dolcemente sul mio basso ventre mentre il mio polso accelerava.
“Noi ti aspettiamo qui.” Singhiozzai.
Genere: Erotico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Surrender and Heart'
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“Ho fatto un sogno la scorsa notte.”
La dottoressa Jenkins mi rivolse uno sguardo da dietro gli occhiali, mentre la sua penna si muoveva veloce sul foglio bianco strusciando e colpendo ripetutamente il cartoncino dietro di esso.

Io tenevo le mani in grembo e non riuscivo a smettere di torcermi le dita fra loro, mentre cercavo disperatamente di mantenere la respirazione regolare, come lei mi aveva insegnato a fare: era il primo passo per non lasciarsi travolgere dalle crisi dato che  non volevo ricorrere di nuovo ai medicinali.

Il bambino ne avrebbe certamente sofferto e non avrei permesso a niente e a nessuno –nemmeno a me stessa- di fargli del male; ero più che determinata a tenerlo al sicuro e a prendermi cura di lui il meglio possibile.

“Sempre lo stesso?” Indagò, quasi pronta a mettere giù la penna e a rassicurarmi nello stesso modo: fino a quel giorno avevo sognato la scena nella quale Al si sparava in bocca, ma nella mia immaginazione, prima di uccidersi, sparava a me; la cosa che rendeva quel sogno insopportabile, però, era che non ero io a morire.

Era il bambino.

E, cosa peggiore, Harry mi soccorreva, rassicurandomi con frasi del genere: “Va tutto bene, è tutto okay. È toccato al bambino, tu sei salva.”

Secondo la dottoressa questo incubo mi era derivato dal fatto che non fossi riuscita ad elaborare l’idea della gravidanza e che l’incertezza che Harry si sarebbe potuto risvegliare o meno, mi aveva causato un irrefrenabile desiderio inconscio di averlo ancora al mio fianco.

Diceva che il mio amore poteva avermi portata a considerare l’idea di rinunciare al bambino, di sacrificare la sua vita, pur di riavere Harry, oppure poteva essere un semplice modo del mio cervello per farmi comprendere quanto la situazione attuale fosse la migliore delle ipotesi; entrambe concordavamo sulla seconda opportunità.

Sapevo benissimo anche io che avrei barattato qualsiasi cosa, sacrificato ogni pezzo della mia anima pur di garantire al mio bambino, al figlio di Harry, di continuare a vivere.

“No, non era propriamente un incubo.” Spiegai, abbassando lo sguardo sulle mie mani.

La dottoressa riprese la penna e si sistemò gli occhiali, pronta di nuovo a mettersi a lavorare per decifrare i messaggi della mia psiche.

“Eravamo… Io ero all’aeroporto.” Cominciai, mentre sentivo già gli occhi bruciarmi e la gola stringersi.

“C’era anche Harry che, ad un certo punto, mi regala un portachiavi a forma di mappamondo. In sostanza, lui lo faceva girare, ed io con gli occhi chiusi dovevo fermarlo.”

La mia voce iniziò a tremare e mi morsi il labbro per cercare di non piangere, di distrarmi dal dolore che stavo provando: anche se cercavo di essere forte per zia Emma e nonostante la felicità derivata dalla vita che cresceva dentro di me c’era una parte del mio cuore –una parte particolarmente grande- che sembrava sanguinare ogni secondo, minuto ed ora e non accennava a voler smettere.

“Va’ avanti.” Mi spronò la dottoressa quando vide che non continuavo.

“Quando aprivo gli occhi…” Sospirai, cercando di trattenere i singhiozzi. Portai una mano davanti alla bocca, mentre una lacrima solitaria percorreva la mia guancia e cadeva lungo la mascella.

“Lui non c’era più e zia Emma mi diceva che non ce l’aveva fatta.”

La dottoressa Jenkins mi rivolse uno sguardo compassionevole e comprensivo mentre mi allungava il pacchetto di Kleenex dalla scrivania accanto a lei: ogni volta che andavo da lei non riuscivo a trattenermi e non sembrava che a lei dispiacesse. Dopotutto, quello studio era l’unico luogo nel quale non dovessi nascondere le mie paure e lei questo lo sapeva; certamente aveva avuto tanti altri clienti nelle mie condizioni eppure mai una volta sembrava scocciata o comunque annoiata dalle storie dei propri pazienti.

Ti faceva sentire utile e ascoltata.

“Mi dispiace.” Dissi, mentre mi soffiavo il naso e forzavo una risata tra le lacrime.

“So che sono cose stupide da dire, probabilmente ho solo paura che una simile cosa si realizzi. Ma non riesco a farci niente: continua a fare male.”

“Kit, stai tranquilla: è completamente normale che tu sia spaventata.” La dottoressa mise via la cartellina e si sporse verso di me, offrendomi un lungo abbraccio di conforto, cullandomi finché i singhiozzi non diminuirono leggermente.

“In realtà sono colpita dal modo in cui la gestisci: una gravidanza a diciotto anni non è esattamente una cosa facile da gestire, per non parlare di ciò che hai dovuto passare negli ultimi tre anni.”

Parlava con voce dolce e comprensiva al mio orecchio e nel frattempo strofinava i palmi delle mani sulla mia schiena, nel tentativo di aiutarmi a recuperare la calma: nonostante mi capisse sapeva che non era saggio lasciare che continuassi a piangere, nei giorni precedenti non ero riuscita a fermarmi e uno dei propositi della terapia era aiutarmi a gestire le emozioni e la paura.

“Devi solamente avere fiducia: i dottori hanno detto che ha buone possibilità di riprendersi, no?”

Provò a tirarmi su di morale, districandosi dall’abbraccio per guardarmi negli occhi: la dottoressa era una bellissima donna dai lunghi capelli biondi che portava sempre raccolti in una morbida crocchia dietro la nuca ed i penetranti occhi grigi.
Sembrava quasi che riuscisse a guardarti nell’anima e questa cosa per certi versi poteva risultare utile dal momento che molte volte non c’era bisogno che parlassi perché lei mi capisse, mi risparmiava il dolore derivato dal dire le cose ad alta voce.

Io annuii e tirai su col naso, sorridendole riconoscente mentre mi risiedevo composta sul divano e lei riprendeva la sua cartellina e la penna, scrivendo ciò che era successo negli ultimi momenti.

“Emma mi ha detto che state andando a fare spese per il bimbo.” Disse mentre scriveva per mantenere viva la conversazione e forse per evitare che la mia mente divagasse.

“Sì” assentii, “ma solo per la carrozzina ed il lettino.”

Mi asciugai il viso, sperando che il fondotinta non si fosse sciolto del tutto: non mi andava di sembrare un clown triste mentre giravo per negozi e, dal momento che erano quasi le dieci non avrei avuto il tempo di tornare a casa per coprire di nuovo il viso.

“Quando si saprà il sesso?” Volle sapere, sinceramente incuriosita.

Io sorrisi mentre mi stringevo nelle spalle.

“La prossima ecografia è fra un paio di settimane, ma…” Ed esitai, mentre il pensiero che volevo esprimere si formulava nella mia mente riempiendomi di calore.

“Io spero sia un maschio.” Dissi infine, con il sorriso sulle labbra.

Il pensiero di un bimbo ridente, con le fossette ai lati delle guance e gli occhi verdi –come Harry- mi riempiva di speranza ed era forse l’unica cosa che mi permetteva di non lasciarmi travolgere completamente dalla depressione.

La dottoressa finì di scrivere ed annuì nella mia direzione in un gesto d’approvazione.

“Anche io speravo si trattasse di un maschio con il mio primo.” M’informò, sfilandosi gli occhiali ed appoggiandoli in grembo.

“E…?” Chiesi incuriosita, sporgendomi leggermente in avanti.

“Beh, è arrivato.” Rise, sporgendosi verso la scrivania alla sua sinistra per prendere una cornice argentata con all’interno la foto di due bambini, uno che all’apparenza poteva avere dieci anni ed un altro di –probabilmente- quattro. Me la porse e, quando la presi, notai che assomigliavano tutti e due a lei in modo incredibile: gli occhi, forse, erano l’unica cosa che avevano preso dal padre.

“Sono due bambini bellissimi.” Mi complimentai, restituendole la cornice.

“Lo so.” Disse lei, guardando la foto con amore. “Sono il mio orgoglio più grande.”

Io non potei fare a meno di portare una mano sul ventre leggermente gonfio, mentre cercavo di figurarmi l’aspetto del mio bambino a dieci anni: probabilmente sarebbe stato un bimbo intelligente e vispo, a tratti perfino dispettoso ma, cosa più importante, sarebbe stato mio.

Mio e di Harry, mi corressi mentalmente –cosa che lo rese ancora più meritevole d’amore ai miei occhi.

“Bene, non ti trattengo oltre.” La dottoressa Jenkins si alzò ed io la imitai, mentre si dirigeva verso l’attaccapanni e mi porgeva il mio giubbotto e la sciarpa.

“Fammi sapere come va e ricordati di pensare positivo.” Si raccomandò.

Io annuii ed aprii la porta, cercando di individuare zia Emma in macchina prima di uscire in strada: fortunatamente individuai la carrozzeria metallizzata quasi immediatamente quindi mi diressi verso di essa, guardando attentamente a destra e a sinistra prima di attraversare per evitare di farmi investire.

Una volta entrata in macchina allacciai velocemente la cintura, mentre zia Emma bloccava il cellulare e lo metteva in borsa, per poi inserire la chiave nel quadro e girarla per mettere in moto.

“Sei pronta per un po’ di shopping?” Chiese, entusiasta guardando gli specchietti retrovisori ed immettendosi nella strada principale con una mossa fluida degna di un guidatore professionista: zia Emma aveva sempre avuto una guida estremamente sportiva e fluida, cosa che invece non poteva essere detta di me.

Ero una vera imbranata al volante e non c’era istruttore di guida che tenesse, men che meno mia zia che per quanto potesse essere dotata non era assolutamente paziente: d’altro canto riuscivo a capirne molto di motori e ciò mi aveva giovata in molte occasioni.

Anche con Harry, pensai, ridacchiando.

“Sarà un incubo.” Bofonchiai, accendendo il cellulare e controllando le notifiche: ogni volta speravo in un messaggio di Rhett, anche in una risposta sgarbata, perché almeno avrei avuto il modo di dare il via ad una conversazione, di provare a parlargli e a spiegargli la dinamica degli eventi. Probabilmente non sarebbe servito a niente, anzi, lo avrebbe solo fatto infuriare il doppio, avrebbe scatenato il suo odio nei confronti miei e di Harry poiché a noi era stata risparmiata la vita e ad Al invece no.

“Stavo pensando che per fare entrare la culla in camera dovremo spostare il comò.”

Zia Emma interruppe i miei pensieri mentre metteva la freccia e svoltava in una delle strade del centro città, mentre la mia mente vagava al pensiero di dove mi sarei potuta trovare al momento della nascita del bambino: Harry sarebbe già stato sveglio per allora? E se non avesse avuto intenzione di avere niente a che fare con quel bambino? O, peggio: se non si fosse svegliato affatto?

Un moto di angoscia mi pervase e potei sentire il sangue defluirmi dalle guance: non avevo paura di dover crescere il bambino per conto mio –avevo già messo in conto la possibilità che Harry non avesse voluto avere niente a che fare con me e nonostante il pensiero mi lacerasse l’anima riuscivo comunque a sopportarlo- la cosa che più mi riempiva di paura era l’eventualità che quel bambino sarebbe potuto crescere senza poter abbracciare suo padre, riceverne gli insegnamenti e chiedergli consigli.

Avrei voluto offrire solo il meglio all’unica cosa veramente buona che avessi mai fatto e non avere la certezza di poterlo fare mi causava un senso di impotenza che rischiava di uccidermi.

“Mi stai ascoltando, Kit?” Mi riprese zia Emma, vedendo che non accennavo a volerle rispondere.

Io scossi la testa e mi voltai verso di lei, riacquistando lucidità.

“Scusa zia, ero sovrappensiero.” Risposi, cercando di sfoderare un sorriso che sembrasse quanto meno convincente. Lei inarcò un sopracciglio e rallentò in vista di un parcheggio libero lungo la strada.

“Ho detto che forse dovremmo prendere in considerazione l’idea di trasferirci, più in là.” Cominciò, mentre metteva la retromarcia e procedeva all’indietro.

“Quando il piccolo crescerà avrà bisogno dei suoi spazi.” Spiegò.

Io ridacchiai nervosa.

“Penso sia un po’ presto per iniziare a pensare a certe cose” obbiettai, infilando il cellulare in tasca e sganciandomi la cintura mentre lei cercava di posizionare meglio l’auto.

“Insomma, questo bambino deve ancora nascere e noi già stiamo pianificando la sua intera vita.” Continuai, aprendo lo sportello e scendendo dall’auto, mentre mia zia faceva lo stesso: capivo che stesse cercando di garantirci un futuro migliore possibile, ma l’idea che esso escludesse l’eventualità che potessi vivere con il padre di mio figlio non mi piaceva affatto.

Per quanto fosse improbabile, la speranza era comunque l’ultima a morire e il pensiero di una vita passata con Harry era una cosa che mi aiutava a mantenermi sana di mente.

“Kit, è normale. Succede sempre così.” Mi rassicurò lei, sfoderando un enorme sorriso che aveva il chiaro scopo di mettere fine a quella conversazione: sapevo esattamente che intendeva concentrarsi del tutto sullo shopping e che il mio pessimismo avrebbe solamente rovinato il suo entusiasmo.

Zia Emma non aveva mai potuto avere dei figli suoi poiché il crescermi aveva assorbito del tutto il suo tempo libero e le aveva impedito di riuscire a frequentare uomini single della sua età al di fuori del lavoro ed ero quasi sicura che il suo volersi prendere cura di questo bambino era un modo per poter vivere una specie di maternità che le era stata sempre negata.

Quindi decisi di non protestare e la seguii per la strada mentre lei continuava a blaterare di cose senza senso riguardo a marche di pannolini e pappe che non intendeva assolutamente contraria; cominciò anche ad illustrarmi il suo piano di acquistare una macchina per poter fare gli omogenizzati in casa per evitare di comprare quelli già confezionati che, si sapeva, non erano mai sani quanto il cibo cucinato in casa.

Nonostante la trovassi a tratti pignola, concordavo nel voler dare il meglio al piccolo ed avevo piena fiducia nei suoi gusti per la scelta della culla e della carrozzina che si rivelarono ancora una volta infallibili.

Avevamo subito adocchiato una culla di legno bianca, dalle testate stondate e le sbarre lisce alle quali erano stati attaccati dei morbidi cuscini paraurti celesti ed una carrozzina blu scuro che poteva essere utilizzata anche come passeggino fino a che il bambino non avesse compiuto cinque anni. Considerato che ci saremmo certamente risparmiate l’acquisto di un secondo articolo la modica cifra di trecento sterline non ci sembrò poi così esagerata; inoltre, se avessimo deciso di prendere insieme il lettino avremmo ricevuto uno sconto di circa cento sterline sul conto finale.

Mentre continuavamo ad arrovellarci e a controllare e confrontare i prezzi con un sito online una commessa giovane dall’incarnato estremamente chiaro –quasi ceruleo- ed i capelli corvini ci si avvicinò, desiderosa di dare una mano.

“Posso esservi utile in qualche modo?” Trillò con una voce cristallina che si sposava benissimo con i suoi tratti delicati da elfo dei boschi mentre un sorriso cordiale le si dipingeva sul viso.

“Eravamo interessate a comprare la carrozzina.” Disse zia Emma, ricambiando il sorriso ed indicando l’oggetto in questione con un cenno della mano mentre la commessa annuiva e mi guardava come se avesse capito che la mamma ero io: probabilmente era palese dal momento che sembrava che fossimo una normale coppia di madre e figlia che andavano a fare acquisti in una situazione del tutto ordinaria.

“Siete già a conoscenza dell’offerta?” Volle sapere, facendo scorrere lo sguardo fra me e mia zia in modo del tutto efficiente.

“Sappiamo tutto. Ci chiedevamo se fosse possibile cambiare il colore dei cuscini del lettino.”
La commessa s’illuminò.

“Allora è una femminuccia?” Chiese con gli occhi che si illuminavano mentre zia Emma ridacchiava; io sorrisi solamente, cercando di non isolarmi nella mia apatia nei confronti di quella questione –che fosse maschio o femmina non importava finché era sano.

“In realtà ancora non lo sappiamo, la prossima ecografia è fra un paio di settimane ma ci stiamo già preparando.” Spiegò zia Emma con tono fiero, passandomi un braccio attorno alle spalle e stringendomi a sé affettuosamente mentre io continuavo a forzare il mio sorriso: tutto quell’entusiasmo da parte della commessa mi risultava un tantino stucchevole e mi dava come l’impressione che fosse una di quelle ragazze che sognano la gravidanza fin dall’adolescenza.

“Di quanti mesi sei?” Mi chiese voltandosi verso di me. Io mi strinsi nelle spalle mentre sentivo il sangue colorarmi le guance.

“Ormai sono quasi tre mesi.” Spiegai.

“Nascerà in estate: ho sentito dire che il parto d’estate è un tormento…”

Per quanto la questione mi riguardasse non potei fare a meno di strabuzzare gli occhi mentalmente nel constatare che la ragazza aveva trovato terreno fertile per iniziare a chiacchierare amabilmente ed ammazzare il tempo durante una monotona giornata di lavoro.

“Hai già deciso come vuoi partorire?” Non accennava a volerla smettere di parlare di questa cosa ed il mondo mi cadde addosso quando mi resi conto che non sarei uscita da quel negozio tanto presto: ero stanca e demoralizzata dalla situazione che mi circondava e, come se non bastasse, avevo una fame da lupi nonostante l’abbondante colazione.

“Naturale.” Tagliai corto, sempre cercando di non risultare scortese.

“Senza epidurale?” Sembrò sorpresa, quasi scioccata a dire il vero, e la cosa mi mise un po’ a disagio.

“Non credo, no.” Spostai il peso da un piede all’altro, mentre mi guardavo intorno alla ricerca di qualcosa che potesse fornirmi un appiglio per cambiare argomento e poter tagliare corto con i convenevoli e le informazioni sul tipo di parto che avevo scelto.

E fu allora che lo vidi: nella corsia centrale, quella alla mia sinistra, vicino allo scaffale dei peluches con un enorme orsacchiotto bianco in mano c’era la persona che non mi sarei mai e poi mai aspettata di trovare in quel posto a quell’ora di quel giorno.

Rhett mi stava guardando di nascosto dalla sua posizione in ombra in fondo al corridoio con gli occhi rossi e cerchiati di nero, segno evidente che non era riuscito a dormire e che, probabilmente, era stato a causa del pianto; proprio quel pomeriggio ci sarebbero dovuti essere i funerali di Al, suo fratello, e non riuscivo a spiegarmi la sua presenza in un negozio prenatale.

“Rhett…” Lo chiamai con voce incerta.

Mia zia e la commessa si voltarono verso di lui e mi pentii di averlo chiamato a voce alta quando notai quanto fastidio gli desse l’attenzione che gli era stata dedicata: probabilmente era stanco e stravolto e stava comprando un peluche da deporre nella bara di Al in segno del suo amore nonostante tutto ciò che anche lui aveva subito.

Non avrei mai e poi mai dimenticato il giorno in cui mi aveva confessato di aver subito pestaggi a sua volta da parte di Al e di come mi fossi sentita male per averlo sempre evitato e, anzi, per aver avuto paura di lui senza nemmeno conoscerlo a fondo: nella mia mente lo avevo sempre accomunato ed identificato con il dolore che avevo subito senza prendere in considerazione l’idea che anche lui avesse potuto soffrire.

Rhett mise a posto il pupazzo e fece per voltarsi, certamente con il fine di andarsene, ed io mi ritrovai a seguirlo senza nemmeno essermi resa conto che i miei piedi si erano mossi incuranti degli sguardi delle due donne sconcertate intorno a me.

“Rhett.” Lo chiamai a voce più alta, accelerando il passo per raggiungerlo: lo avevo finalmente a portata di mano dopo mesi che non mi era stato concesso vederlo né parlargli e in seguito a quattro giorni di chiamate ininterrotte nella speranza di potergli esprimere il mio dolore per la sua perdita.

“Ti prego, aspetta…” La mia voce si spezzò mentre lui allungava il passo e, con le sue gambe lunghe, si avvicinava velocemente all’uscita senza voltarsi indietro; era come vedermi scivolare via dalle dita l’ultimo brandello della mia vita passata, di quel piccolo lasso di tempo che avevo vissuto con Harry e che avevano segnato la mia ripresa dopo anni di paura.

Cominciai a correre quando mi resi conto che se non l’avessi affrontato in quel momento non avrei più avuto l’occasione per farlo e, appena fui sufficientemente vicina, allungai una mano ed afferrai la manica della sua giacca a vento, finalmente raggiungendolo mentre rallentava il passo; non seppi mai se fosse stato lui oppure avessi agito senza accorgermene, ma in un attimo mi ritrovai stretta a lui in un abbraccio stritolatore, in mezzo alla strada, accompagnato dai singhiozzi di Rhett dritti nel mio orecchio che continuava a ripetere parole incomprensibili di scuse e rimpianto nei miei confronti e in quelli di suo fratello.

Le lacrime raggiunsero anche i miei occhi mentre tutto il suo dolore ed il suo senso di perdita mi investivano, insieme al sollievo derivato dalla consapevolezza che non mi odiava e che non mi riteneva colpevole di ciò che era accaduto.

“Va tutto bene,” provai a rassicurarlo, cullandolo come meglio potevo, dondolandomi a destra e a sinistra per muovere anche lui.

“Ti voglio bene, Rhett.” E rimasi abbracciata al mio migliore amico, l’unica persona che in quel momento potesse realmente capire il mio dolore fino in fondo ed aiutarmi a superarlo una seconda v

olta.

“Perdonami.” Disse solo, con la voce rotta dai singhiozzi. 


 





Harry e Kit in cucina (Obsidian)


credits to elefhteriaa





HEY

Prima di tutto volevo ringraziare tutti voi lettori e recensori
ed i venti che hanno aggiunto
la storia tra le preferite...

SIETE DAVVERO ADORABILI
Non ho ancora riletto il capitolo
-se lo avessi fatto non lo avrei più postato- 
e passerò certamente a correggere
domani gli eventuali errori.

COMINCIAMO CON I RECENSORI
(Cliccate sui loro nomi!)


SophieFerres
__she_isnot_afraid__
My name is Miry
Harry_Love_
Loveisallaround
happy_me

E la storia che andiamo a sponsorizzare è quella di....


Who's that shadow? - __she_isnot_afraid__
Scarlett sa di aver raggiunto i suoi amici al falò nel bosco insieme alla sorella. Ne è certa. Non è affatto certa però del motivo per cui si sia risvegliata in uno scantinato buio e, apparentemente, abbandonato. Per fortuna (o per sfortuna?) scoprirà di non essere del tutto sola, lì dentro.
Nota autrice: brevi capitoli e aggiornamenti frequenti
DA BRIVIDI
Vi ricordo che ogni recensore vedrà
una storia pubblicizzata a fine capitolo

TANTO LOVE, ci vediamo al prossimo capitolo

William

 
  
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