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Autore: shamrock13    21/03/2016    3 recensioni
Ho letto Life and Death, e diciamolo… Meh.
Ho iniziato a pensare a tutte le cose che non mi erano piaciute, a come quei personaggi erano poco convincenti, a come sarebbe dovuta andare la storia se lui fosse stato un umano e lei una vampira, ed ecco qui.
Non sono Bella ed Edward (o Beau ed Edythe), volevo provare ad inserire delle dinamiche nuove.
E' la mia "alternativa", spero vi piaccia!
Dal cap. 1:
Anche lei alzò il viso e voltò la testa verso di me, lanciandomi un’occhiataccia. Mi voltai, con un’immagine piuttosto confusa in mente. Lo sguardo che mi aveva lanciato non era solo infastidito, era ostile, minaccioso. Proveniva da un volto molto bello, da due occhi… castani? Molto chiari?
Evidentemente avevo visto male perché sembravano addirittura gialli, o ambrati. E quello non è un colore “giusto” per gli occhi, no?
E poi, era proprio così bella? Mentre l’impressione di bellezza sbiadiva già, a causa della brevità del momento in cui l’avevo guardata, l’altra sensazione che avevo avuto, quella di minaccia, permaneva nella mia mente. Un brivido mi percorse la schiena, come se il mio corpo mi dicesse "Per un pelo…"
Che cosa stupida...
Genere: Avventura, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clan Cullen, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Successivo alla saga
Capitoli:
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Oggi, invece del solito LUI-LEI (o LEI-LUI), vi beccate il capitolo-spezzatino. Vista la trama, mi sembrava un ottimo momento per questo esperimento. Il capitolo poi, dato che vi ho fatto aspettare un sacco, è un po’ più lungo degli altri. Arrivato a metà stavo quasi pensando di spezzarlo in due, ma volevo scrivere fino al punto che mi ero prefissato, e ho pensato che non sarebbe dispiaciuto a nessuno trovarsi per le mani qualche riga in più.
Volevo commentare un altro paio di cose, ma se lo faccio adesso vi becchereste degli spoiler, quindi ci risentiamo in fondo.
Buona lettura!
 


 

Alternativa

Cambiamento

 
Eccoli, tutti e tre.
 
Aro, Caius e Marcus, con i loro occhi antichi ed inespressivi e i loro sorrisi che parevano promettere salvezza e morte, tutto in una volta sola. E accanto a loro, bellissimo con gli occhi ambrati come i miei, stava un vampiro biondo, dal viso gentile e preoccupato. Due passi più indietro rispetto al terzetto, un po’ nell’ombra, Carlisle teneva i suoi occhi fissi nei miei.
 
Avevo sentito parlare dei Volturi, ma non avevo mai avuto occasione di vedere bene i loro visi come in quel momento. In me la parte selvatica e animalesca era inquieta, spaventata. Dovevo trattenermi per non far scattare i miei meccanismi di difesa.
 
 
***
 
 
Ad occhi chiusi inspirai a fondo, stirando con piacere i muscoli delle spalle e della schiena, poi le cosce, i polpacci fino alle dita dei piedi. Mentre espiravo aprii gli occhi, puntandoli sul soffitto, dove un raggio di sole disegnava geometrie regolari filtrando dalla tapparella.
 
Sorrisi.
 
Era il terzo giorno di fila di bel tempo dopo l’uggioso primo giorno di lezione. L’aria era stata fresca, e seguire le lezioni con delle giornate quasi estive non era il massimo, ma le ore libere trascorse all’aperto erano più che piacevoli.
 
Mi alzai, infilai sui boxer un paio di pantaloni della tuta, inforcai un paio di infradito e mi diressi verso il cucinino condiviso dalle stanze di quel piano del dormitorio. Due enormi frigoriferi occupavano quasi completamente una delle pareti, assieme ad una finestra che dava sul campus. Mi diressi verso quello che conteneva le mie cose, che come tutti contrassegnavo con dei post-it, e mi versai un bicchiere di succo di frutta. Stavo per versare in una tazza i corn-flakes ed il latte, quando lo sguardo mi cadde sull’esterno. Era davvero una bella giornata. Ed era presto ancora, non c’era quasi nessuno in giro.
 
Decisi di andare a fare una corsetta prima delle lezioni.
 
Riposi il latte e i corn-flakes, arraffando invece una barretta ai cereali. Avrei fatto colazione più tardi, mi sarei accontentato di un po’ di zuccheri per tenermi in piedi per ora. Mangiai la barretta in due morsi, annaffiandola col succo di frutta, poi tornai in camera.
 
Pescai una t-shirt e dei pantaloncini da un cassetto, poi dovetti scavare fino in fondo ad una delle valigie che dovevo ancora disfare per trovare le scarpe da corsa. Matt, in tutto questo, continuò a dormire come se niente fosse. Era una di quelle persone che dormirebbero in mezzo ad un concerto metal. E in ogni posizione. Ogni tanto, in biblioteca, dormiva seduto e composto al tavolo, gli occhi chiusi e il respiro regolare. Era una cosa che gli invidiavo parecchio, ho sempre avuto il sonno piuttosto leggero.
 
Presi l’i-pod e feci per uscire, poi presi anche una felpa leggera. Era pur sempre Ottobre. Trovai qualcosa di ritmato che facesse da sottofondo e partii, per i vialetti del campus.
 
Mi salutò l’aria fresca e leggermente umida della condensa della notte. Mi sentivo bene, sia fisicamente che mentalmente. Per un poco mi concentrai esclusivamente su quelle sensazioni di benessere, sui miei piedi che andavano, sul mio torace che pompava, sul sudore che si andava formando sulla fronte e alla base del collo, e il freddo che ciò comportava.
 
Girai l’angolo dell’edificio del dormitorio, proseguii fino ai limiti del campus e presi uno dei numerosi sentieri che si inoltravano nel bosco che lo circondava. Quella parte del Maine, tra il ‘700 e l’800, era rinomata per la produzione di legnami navali e da costruzione, poi nel ‘900 le segherie erano state quasi tutte abbandonate e i boschi si erano rinfoltiti, tanto che il campus sembrava assediato, almeno su tre lati, da altissime conifere.
 
Come entrai all’ombra delle fronde, che si protendevano a protezione del sentiero, la temperatura si abbassò notevolmente. Non che la cosa mi infastidisse troppo, ormai mi ero scaldato abbastanza da essere quasi grato a quel cambiamento, ma all’improvviso anche i miei pensieri presero una strada più fredda e buia.
 
Sapevo perché stavo bene. Almeno, sapevo perché la mia testa era più lucida di qualche giorno prima.
 
Lei non si era più fatta vedere.
 
Ero conscio di quanto la cosa suonasse stupida, ma ormai associavo la mia lucidità alla sua assenza. Non solo, ogni mattina mi svegliavo in preda ad una leggera ansia, che scemava di ora in ora, mentre verificavo che, effettivamente, lei non era a lezione, non camminava per i vialetti attorno al mio dormitorio, non studiava in biblioteca e non mangiava in mensa. Anche quella leggera ansia, inoltre, non aveva nulla a che vedere con le sensazioni che avevo provato il primo giorno di lezione. La associavo più a quella normale inquietudine che si prova prima di una visita dal dentista, o di un esame.
 
Comunque sia, non era questa la cosa più stupida che mi passava per la testa. La cosa più stupida era che ne sentivo la mancanza.
 
Non del panico, parliamoci chiaro. Sentivo la mancanza di lei, della sua voce, della sua risata, dell’effetto che la sua vicinanza aveva su di me. Era strano, avevo avuto a che fare con lei, a conti fatti, solo per una manciata di conflittuali minuti, ma era stato abbastanza da farmene desiderare ancora. E, nonostante tutto, ero grato che non ci fosse più.
 
Non che credessi che avesse abbandonato lo stato, il campus era grande a sufficienza perché non incrociare una persona per qualche giorno fosse una cosa tutto sommato normale. Però c’erano le lezioni, e non si era vista nemmeno a quelle dei due corsi che sapevo frequentava, quelli della prima mattina.
 
Magari era solo un’influenza, e poi la frequenza non era nemmeno obbligatoria. Forse semplicemente studiava per conto suo.
 
Eppure…
 
Eppure quella tranquillità, quella pace che sentivo mi dicevano qualcos’altro. Non so come lo sapessi, ma lo sapevo. E mi dispiaceva.
 
Ricominciai a domandarmi dove fosse, a pensare che forse, quel giorno avrei potuto fare un giro de campus, così, tanto per vedere se avrei visto quella sua testa rossa da qualche parte. Mentre valutavo il da farsi, seguii una curva del sentiero.
 
Dall’altra parte mi si parò davanti un albero caduto. Nulla di problematico, lo saltai agilmente, senza fatica, e atterrai dall’altra parte, stabile sui piedi. Poi quasi finii con la faccia per terra.
 
Boccheggiai.
 
Le mie gambe non rispondevano, le suole delle scarpe si erano incollate a terra e si rifiutavano di andare oltre. La paura mi strinse il petto. Con mano tremante cercai il tasto pausa e spensi la musica, rimanendo in ascolto dei suoni della foresta, il fiato corto e gli occhi spalancati.
 
Non potevo proseguire, non era sicuro. Dovevo tornare indietro di corsa.
 
“E’ pericoloso!” urlò la mia mente.
 
“E’ lei!” urlò il cavernicolo che mi abitava nella testa, rifacendosi vivo dopo tre giorni.
 
 
***
 
 
Lo scatto della maniglia mi costrinse ad un passo indietro.
 
Staccai gli occhi dalle quattro figure, dipinte ad olio su tela, e li portai sul viso del vampiro che stava entrando nell’accogliente studio in cui mi trovavo.
 
Carlisle Cullen, elegante come sempre in cachemire, mi sorrise amichevole. “Keelin! Sono contento che tu sia qui.” Vidi i suoi occhi, vagamente irrequieti, dardeggiare verso i miei, immagino per appurare che fossero ancora color dell’ambra. Solo allora si rilassò completamente, e il suo sorriso si estese a tutto il viso.
 
“Carlisle.” Sorrisi di rimando, mentre mi avvicinavo a lui per abbracciarlo. “E’ bello essere qui.”
 
Mi staccai da lui, solo per trovare altre due braccia ad attendermi. “Dovresti passare più spesso.” Mi rimproverò la sua compagna.
 
“Hai ragione, Esme.” Non potei fare altro che sentirmi vagamente in colpa con quella vampira di poco più alta di me e stranamente materna, per via di quella mia lunga assenza, per quanto avessi tutto il diritto di non stare lì, dato che non appartenevo al loro clan.
 
Li guardai, e notai che mi scrutavano con abbastanza interessa da mettermi a disagio, così riportai l’attenzione sul dipinto che rappresentava la corte dei Volturi. “E’ un quadro molto interessante.”
 
“Mi è molto caro.” Disse Carlisle, mentre spalancava la finestra dietro la sua scrivania. Inspirai a fondo gli aromi di quella parte di America. Gli alberi erano gli stessi del Maine, ma la terra era diversa, il che conferiva al bouquet tutto un altro carattere.
 
Mi era ancora curioso come usassi l’olfatto come senso privilegiato per capire cosa mi stava intorno. Certo, gli occhi erano ottimi per i dettagli, ma il naso mi dava un senso di tridimensionalità, era come guardare in tutte le direzioni. Ricordavo che da umana i miei occhi non erano un gran che, per questo, anche da bambina, passavo più tempo sui libri che a giocare coi miei coetanei.
 
Poi ero stata trasformata, e ricordavo perfettamente due cose. La prima ovviamente era la sete, ma la seconda erano le ore interminabili passate a guardare e osservare qualsiasi cosa che prima mi era preclusa, ossia tutto ciò che si trovava a più di un paio di braccia da me. Era stato stupefacente.
 
“Allora, Keelin. Cosa possiamo fare per te?” La voce di Carlisle mi riportò indietro. Aveva preso posto alla sua scrivania, mentre Esme era in piedi, al suo fianco. Mi avvicinai di un passo ai due.
 
“Per dirla nel gergo degli alcolisti, Carlisle, tu sei il mio sponsor.” Sorrisi, e loro fecero altrettanto in risposta. “Ho quasi avuto una ricaduta, così eccomi qui.”
 
“Lieto di sapere che ti sei fermata in tempo, anche se credevo che ormai ti sentissi a tuo agio tra gli umani.”
 
“Certo che mi sento a mio agio tra gli umani.” Sbottai, punta un po’ sull’orgoglio. “Non sono certo gli umani il mio problema.”
 
Carlisle piegò la testa di lato, con fare perplesso, invitandomi a proseguire. Esme, invece, sorrideva sorniona come se la sapesse lunga. Riflettei sul fatto che, con tutta probabilità, Alice mi aveva già vista arrivare, e forse aveva visto anche quella conversazione. Nel caso, erano tutti estremamente educati a lasciarmela fare senza interrompermi e anzi, fingendosi interessati.
 
“Diciamo che credo di aver trovato il mio Bella.” Esme ridacchiò, mentre Carlisle assunse un’aria sorpresa. Che fosse vera o no sembrava convincente. “E il suo odore è solo metà del problema.”
 
Raccontai di quanto accaduto due giorni prima, della mia decisione di uccidere Francis per cibarmene, del suo comportamento stranamente poco collaborativo e della mia curiosità, che si era messa di mezzo.
 
“Questa suona familiare…” commentò Esme, sempre sorridendo.
 
“In che senso, scusa?” domandai.
 
“Diciamo che la curiosità di Edward è stato ciò che ha salvato Bella, nei primi giorni del loro rapporto. Il fatto che lui non potesse leggere nella sua mente l’ha protetta.” Carlisle sorrise conciliante. “Con tutto il tempo del mondo a disposizione, sono poche le cose in grado di stuzzicare la nostra curiosità, dopo un po’. Una volta trovata una di queste cose, è dura farla sparire a cuor leggero.”
 
“Già…” Convenni, pensierosa. Notai però che anche lui aggrottava le sopracciglia.
 
“Mi chiedo però se Francis e Bella non siano simili anche sotto un altro aspetto. Voglio dire, gli umani capiscono, ad un certo punto, che noi siamo un pericolo, ma le sue reazioni…” Lasciò la frase in sospeso. Gli concessi qualche istante.
 
“Cosa vorresti dire?” Intuivo dove voleva andare a parare, ma preferivo che concludesse il suo pensiero.
 
“Ciò che incuriosiva Edward si è rivelato essere un dono molto potente di Bella, tanto potente da essere sperimentabile anche quando era umana. Le reazioni di questo ragazzo non sono una risposta ad un tuo comportamento minaccioso, ma addirittura ad una tua intenzione, che lui percepisce; almeno, questo è quello che mi pare di capire dal tuo racconto.”
 
“Già, sembrerebbe così.” Convenni.
 
“Mi chiedo se non sia la stessa cosa, se non sia il suo dono che traspare. Sembra che lui abbia una consapevolezza decisamente puntuale su ciò che tu potresti rappresentare per lui al momento.”
 
“Il che sarebbe?”
 
“La sua fine.” Concluse serio.
 
-
 
Camminavo sul grande prato dietro casa Cullen, soppesando tutto ciò che Carlisle aveva detto. Non sapevo questo cosa avrebbe comportato per me nel lungo periodo, ma sapevo cosa sarebbe successo nel breve. Se quello di Francis era un dono o meno lo dovevo scoprire. Fare dei piccoli test per così dire. Carlisle aveva ragione su una cosa, era dura lasciar perdere un fatto così interessante.
 
Sollevai gli occhi e vidi, sulla sponda del fiume, Carlisle, Esme ed Alice, gli unici presenti nella casa al momento. Gli altri erano tutti a caccia.
 
“Alice ci dice che riparti di già.” Disse Esme, dispiaciuta. Io guardai la veggente, incuriosita. Lei alzò gli occhi al cielo, in risposta. “Sì, è vero, domani nel Maine c’è ancora il sole. Fidati però, è il momento giusto per partire.” Mi disse sorridendo. Io mi strinsi nelle spalle. “Mi fido.”
 
“Keelin, c’è un’altra cosa a cui mi hai fatto pensare.” Mi disse Carlisle. “Ricordo com’era Edward prima che conoscesse Bella, e ricordo com’è stato dopo. Ma soprattutto ricordo il momento in cui è cambiato. Non capita spesso alla nostra specie, il cambiamento non è una cosa della nostra natura, ma quando succede è potente, e ci cambia per sempre.”
 
Sembrava quasi una minaccia anche se lui sorrideva teneramente.
 
“Devo fare attenzione?” Domandai, confusa.
 
“Oh, se quello che ti aspetta è ciò che è successo a mio figlio, ti suggerisco esattamente l’opposto.”
 
Rimasi interdetta dagli sguardi di Carlisle ed Esme, colmi di affetto, e dall’occhiata di Alice, che ammiccò appena la guardai. “Attenta all’ombra!” concluse lei ridacchiando.
 
Neanche mi sforzai di capire cosa intendesse.
 
-
 
Correvo ancora quando passai i confini di stato del Maine. Avevo corso per tutta la notte, e gran parte del giorno precedente, essendo partita da Forks verso mezzogiorno. Fortunatamente, a quella latitudine, gran parte del mio percorso era stato tra i boschi.
 
Dopo tremila miglia di corsa iniziavo a sentire la stanchezza. Se effettivamente, come sembrava, fosse stata un’altra bella giornata, avrei avuto tutto il tempo di andare a caccia prima di andare a cercare Francis. Per ora le parole di Carlisle riguardanti il cambiamento di Edward erano relegate in un angolo della mia mente, preferivo non pensare all’eventualità che l’aver incrociato questo umano avesse un impatto così potente sulla mia esistenza. Avevo però continuato a pensare alla possibilità che avesse un dono, e che questo dono lo rendesse consapevole di me. L’idea di testare questa teoria mi piaceva, stavo pensando di provarci prima da lontano, a distanza, per vedere se in qualche modo avvertisse la mia presenza.
 
L’alba era passata da poco quando iniziai ad avvicinarmi al campus. Sarei andata a caccia ma prima avrei verificato se Francis stava bene, ed era dove doveva essere, ossia nel suo dormitorio. Era una cosa stupida, un rischio inutile dato che iniziavo davvero ad avere sete e che lui sarebbe ovviamente stato lì, dove altro poteva essere? Però, inspiegabilmente, sentivo il bisogno di accertarmene.
 
Stavo per dirigermi verso i dormitori quando, attraversando un piccolo sentiero sterrato, mi imbattei in una traccia. La sua traccia.
 
Mi fermai di colpo, tanto di colpo che le mie scarpe sprofondarono nel terreno di una decina di centimetri, in una decelerazione che avrebbe rotto il collo ad un umano.
 
Un istante per ascoltare, e sentii il suono dei suoi passi, la musica che sfuggiva alle cuffiette che indossava. Prima di rendermene conto ero partita, seguendo la sua scia.
 
Non potevo arrivargli alle spalle sul sentiero, non in quelle condizioni. I miei vestiti e le mie scarpe, dopo tutte quelle ore a contatto con il mio corpo marmoreo che si muoveva nella corsa, erano quasi a brandelli. E poi c’era la sete.
 
Me ne accorsi quasi subito, ero partita dietro di lui per cacciare. Mi sforzai di riprendere il controllo in qualche modo, ma non riuscii ad arrestare la mia corsa. Abbandonai però il sentiero, e balzai tra i rami degli alberi, saltando di tronco in tronco, prima raggiungendo e poi superando Francis.
 
Mi fermai e mi voltai ad osservarlo, mentre affrontava dapprima una curva e successivamente, con agilità, un tronco caduto che gli sbarrava la strada. Il suo odore mi riempiva di nuovo la testa, come la prima volta, e il suono del suo cuore, accelerato dalla corsa, era un richiamo irresistibile.
 
Sarebbe stato facile ora, che era distratto da quell’ostacolo, balzargli addosso e-
 
Lo vidi arrestarsi, e portare lo sguardo nella mia direzione. Non verso l’alto, anche perché ero probabilmente invisibile tra l’ombra dei fitti rami per i suoi occhi, ma guardava decisamente la base degli alberi su cui mi trovavo.
 
Questo mi distrasse, per un momento, dai pensieri della caccia, anche se continuarono a farsi sentire nella mia mente. Avrei colto quell’occasione e testato la teoria di Carlisle.
 
Sul sentiero Francis spense la musica, rimase immobile per qualche istante, in ascolto, poi voltò le spalle e scavalcò nuovamente il tronco, tornando sui suoi passi.
 
“Non così in fretta.” Pensai, e con tre balzi precisi, lo superai nuovamente, precedendolo sul sentiero di una quindicina di metri. Poi mi voltai a guardarlo.
 
Lui si fermò, ancora, come se sapesse che la via non era più sicura. Era affascinante, ma pericoloso. Mi sentivo una cacciatrice che gioca con la preda, ed ero troppo assetata, il suo aroma era troppo invitante per indugiare ancora in questo giochino. Nonostante tutto, quando lui si guardò intorno, individuò la direzione giusta per raggiungere il suo dormitorio e si inoltrò fuori dal sentiero, io balzai ancora e gli tagliai la strada per la terza volta.
 
Ancora lui si fermò, il suo respiro era veloce e il suo cuore pompava più forte di quanto facesse nella corsa. E io cedetti. Mi protesi in avanti, pronta al balzo. Dovevo nutrirmi, e dovevo nutrirmi di lui.
 
Prima che potessi staccarmi dal tronco però, lo vidi fare un incerto passo all’indietro, pallido come la morte, inciampare, cadere seduto pesantemente e gemere, nel puro terrore in cui si trovava. E in tutto ciò i suoi occhi erano fissi su di me. O meglio, sull’ombra che mi nascondeva.
 
E io mi vidi, in quel volto, per il mostro che ero.
 
Arrestai il movimento che mi avrebbe portato al balzo, spezzando il ramo grosso quanto una coscia a cui mi sorreggevo, e fuggii.
 
 
***
 
 
Tremavo ancora come una foglia quando scivolai sotto il getto bollente della doccia. Ero grato del fatto che dormissero ancora tutti, e nessuno mi avesse visto in faccia quando ero rientrato dalla corsa.
 
Oggi era stato peggio di tutte le altre volte messe insieme, forse soprattutto perché ero stato colto così alla sprovvista, non c’erano stati segnali, avvertimenti. Nessuna presenza assieme a me in quel bosco.
 
Panico. Puro, cieco, nero panico. E la certezza che, questa volta, non me la sarei cavata.
 
Poi un ramo grosso quanto un alberello era venuto giù, e il tonfo si era portato via tutto: ero di nuovo io e mi sentivo al sicuro. Scosso, spaventato, preoccupato per la mia salute mentale (preoccupazione che ormai albergava nella mia mente più spesso di quanto non mi piacesse ammettere a me stesso), ma consapevole che la mia vita non era in pericolo.
 
“Per ora…” Ignorai quel commento del mio istinto primordiale.
 
Uscito dalla doccia avevo recuperato un po’ di colore, e i tremiti mi avevano abbandonato. Sentii i rumori associabili ai movimenti delle persone nelle stanze attorno, e decisi che, quel giorno, avrei provato ad essere più sociale del solito.
 
Non avevo troppa voglia di ritrovarmi ancora da solo.
 
-
 
Mezza giornata fu più che sufficiente per pentirmi di quella decisione.
 
Le lezioni della mattina, assieme a Matt, passarono normalmente, ma a pranzo, assieme a uno dei vari chiassosi gruppi che frequentava, era stato una vera tortura. Tutti scambiavano battute, pettegolezzi e risate, nulla di insolito, ma io non ero proprio dell’umore giusto.
 
Anziché distrarmi da quanto successo quella mattina e da quanto continuavo a portarmi dentro, quella compagnia non faceva altro che disturbarmi, dal momento che ciò che volevo fare, sembrava, era riflettere per i fatti miei su quanto accaduto.
 
Appena finito di mangiare, quindi, mi staccai dal gruppo con una scusa, e mi diressi, camminando sotto il sole, alla lezione successiva. Alzai il viso verso il cielo, notando che il tempo non era più bello come quello degli ultimi due giorni. Grosse nuvole correvano in cielo, oscurando ogni tanto la luce solare.
 
Che fosse una specie di presagio?
 
Scossi la testa, amaramente rassegnato a quelle riflessioni, ormai spontanee.
 
Trovai un posto nell’aula, dietro a due ragazze che leggevano una rivista prima dell’inizio della lezione. Lo sguardo mi cadde sulla pagina accanto a quella dell’articolo che aveva catturato la loro attenzione. Era la pubblicità di un profumo.
 
La foto era in bianco e nero, fatta eccezione per la boccetta del suddetto profumo e i capelli della modella, i quali erano (ovviamente) di una pazzesca tinta di rosso. Non furono quelli però a farmi pensare a lei. Il colore era davvero troppo carico e finto.
 
La modella, nella sua diafana bellezza artificiosa, dalla quale ogni difetto era stato abilmente rimosso da un talentuoso grafico, sembrava un cadavere.
 
La sua pelle, liscia ed omogenea all’inverosimile, contrastava con lo sfondo scuro della foto. L’abbigliamento della ragazza non faceva altro che accentuare quel contrasto. Era infatti coperta esclusivamente da un drappo nero, che spiralava attorno al suo corpo, coprendo sapientemente solo ciò che il pudore (e probabilmente il regolamento riguardante la pubblicazione di riviste acquistabili liberamente) richiedeva.
 
Gli occhi della ragazza, contornati da ciglia nerissime incredibilmente lunghe, erano chiusi.
 
Pensai a Keelin, e a quei suoi occhi color dell’ambra, aspettandomi quasi che la modella della rivista dovesse aprirli e mostrarmeli, dello stesso colore.
 
Osservai quella pubblicità, riflettendo, fino a quando le ragazze non riposero il giornale, all’ingresso del professore.
 
-
 
Keelin era morta, e io ne ero straziato.
 
La stanza era buia, fatta eccezione per l’altare in pietra su cui il suo corpo si trovava. Era in marmo bianco. Emergeva dalle tenebre che coprivano il pavimento come una coltre, tanto che i miei piedi vi affondavano.
 
Mi avvicinai.
 
Il drappo nero che la avvolgeva a spirale lasciava scoperta molta della sua pelle, ma l’unica cosa che questo mi provocava era disagio, perché le sue braccia, le sue gambe, il suo ventre scoperto, erano dello stesso colore della pietra su cui poggiavano.
 
Le lacrime mi rigavano le guance, ma non avrei saputo dire perché, vederla morta, scatenasse in me tutta quella disperazione.
 
Altri due passi e le fui accanto.
 
Posai una mano sulla pietra e una sul suo braccio, ma mi ritrassi immediatamente. La consistenza, la temperatura, perfino, di quello che stava sotto le mie mani, era la stessa, sia che si trattasse di marmo, sia che si trattasse del suo corpo.
 
Avevo paura. Avevo freddo.
 
Nella stanza regnava il silenzio, ma mi accorsi che il torace di lei si alzava e si abbassava, come se respirasse. Osservai quel fenomeno per un momento, poi tornai a guardare il suo viso e sprofondai nel terrore.
 
I suoi occhi erano aperti, fissi nei miei. Ed erano scarlatti, come i suoi capelli. Nonostante il suo viso fosse totalmente inespressivo, sentivo l’ostilità che quell’essere provava per me.
 
Indietreggiai, e lei si alzò a sedere.
 
Indietreggiai ancora, e lei fu in piedi, senza sforzo, come se fluttuasse nell’aria. I suoi occhi non mi lasciavano un istante.
 
Senza più alcun controllo, mi voltai per fuggire, ma i lembi di stoffa nera che ancora la avvolgevano mi raggiunsero, stringendomi, imprigionandomi, trascinandomi verso di lei.
 
Sentii un urlo salirmi nel petto, non sarei riuscito a trattenerlo. Era troppo.
 
Fu in quel momento che la mia testa cozzò contro il pavimento della stanza. Mi ritrovai avvolto come una mummia nella mia coperta, incapace di muovere le gambe e le braccia, disteso sul pavimento. Mi agitai, in un moto di panico residuo dall’incubo, poi mi costrinsi a calmarmi. Il ritmico russare di Matt mi aiutò a tornare alla realtà.
 
Analizzai la situazione e capii quale lembo della coperta tirare per liberarmi, poi mi sedetti sul pavimento, ansimando. Ero bagnato fradicio, avevo sudato parecchio.
 
Mi presi la testa fra le mani, e cercai di calmarmi. Solo un sogno, solo uno stupido incubo. Alzai gli occhi sulla parete di fronte a me e sussultai. Avevamo dimenticato di abbassare le tapparelle la sera precedente, e il riquadro della finestra si proiettava nitido sul muro. Nel quadrato di luce prodotto dai lampioni c’era, ben visibile, una sagoma umana.
 
Mi voltai di scatto, ma la finestra era vuota.
 
Controllai di nuovo il muro, ma anche lì ora c’era solo il quadrato di luce.
 
Rabbrividendo mi alzai, nuovamente inquieto, indeciso sul da farsi. Probabilmente era stato solo un residuo del sogno, mi ero suggestionato da solo, però volevo controllare. Non le avrei permesso di terrorizzarmi anche nella mia stanza (a chi mi riferivo? A Keelin o alla mia mente? Non avrei saputo dirlo…).
 
Spalancai la finestra. Il freddo mi schiaffeggiò la pelle.
 
Eccola. L’inquietudine, la paura, il terrore ancestrale, o qualsiasi cosa fosse. Come se mi stesse aspettando lì fuori, mi saltò addosso appena aperte le ante vetrate. Sopraffatto, le gambe mi cedettero e caddi in ginocchio, aggrappato al davanzale. Inspirai una convulsa boccata d’aria, poi le mie labbra si mossero, come da sole, pregando una qualche sconosciuta entità: “Basta, basta, basta, basta, basta…” Ancora e ancora, non riuscivo a dire altro. Avevo perso la testa, ne ero sicuro.
 
“Basta, basta, bast-” all’improvviso, il nodo che mi stringeva tutto, il petto, il ventre, le spalle, la mente, si sciolse, come neve al sole. Non ero esausto come un secondo prima, ero solo stanco perché sveglio nel bel mezzo della notte. Non ero più spaventato, mi sentivo in pace.
 
Alzai gli occhi al cielo, ora coperto di pesanti nuvoloni, ed inspirai, a pieni polmoni. Ero confuso tanto quanto prima, ma la mia confusione, la mia meraviglia, erano ben accette adesso. Come se, dopo giorni e giorni di torcicollo, qualcuno mi avesse fatto passare tutto in un secondo, con un semplice tocco. Non capivo, ma se funzionava allora non mi sarei lamentato.
 
“Grazie… Ora va bene…” sussurrai alla notte, per poi alzarmi nuovamente in piedi.
 
Il sollievo mi aveva svuotato. Non avevo idea di come fosse possibile, ma così come quella mattina sapevo che sarei potuto morire, adesso sapevo di non correre alcun pericolo. Come in trance richiusi la finestra, tirai le tende, raccolsi le coperte e mi infilai a letto.
 
Mi addormentai quasi subito, come un sasso.
 
 
***
 
 
La notte era calata, e solo allora mi azzardai ad uscire dal bosco.
 
Mi ero nutrita a sazietà e mi sentivo meglio, almeno fisicamente. Il mio cedimento e la reazione di Francis mi perseguitavano. Quello che era successo al mattino ero io. Io ero quel mostro. Potevo illudermi, minimizzare, convincermi di essere a mio agio tra gli umani, ma erano tutte menzogne. Questa consapevolezza mi stava scavando dentro, il mio morale era a terra.
 
Mi diressi verso la vicina città, dove conservavo i miei averi in un vecchio magazzino che avevo affittato. Non avevo mai avuto la passione per il mantenere le apparenze, come facevano i Cullen. Vi giunsi non vista, e mi cambiai i vestiti. Quelli che indossavo ormai erano da buttare.
 
Controllai il mio riflesso in uno specchio, accasciato su uno scatolone, e dopo aver constatato di essere di nuovo presentabile, uscii nella notte, camminando questa volta per le strade.
 
Vagai per ore, seguendo il mesto corso dei miei pensieri, fino a quando non intuii dove mi stavano portando i piedi. Non mi ero nemmeno accorta di essere tornata al campus, ormai deserto e immerso nel buio, e quando alzai la testa vidi, poco più avanti, il dormitorio di Francis.
 
Sospirai, e poi decisi di proseguire. Volevo assicurarmi che stesse bene.
 
L’edificio era a due piani, lungo e stretto. Ogni finestra corrispondeva ad una stanza, ce n’erano almeno una ventina per piano su quel lato e, immaginai, altrettante sull’altro. 80 camere, 160 studenti. Sarebbe stato tedioso.
 
Decisi di iniziare dal piano terra, camminando lungo tutta la facciata, annusando l’aria attorno alle finestre. Non suonò nessun campanello. Feci altrettanto sul retro, ma la stanza di Francis era probabilmente al primo piano, così balzai sul tetto spiovente.
 
Continuai a cercare, fino a quando non sentii il suo profumo e individuai la finestra della sua camera, sul lato che dava sul campus. I respiri che percepivo appena all’interno erano lenti e regolari, Francis e Matt dormivano profondamente. Mi calai agilmente sul davanzale, rimanendo senza sforzo in equilibrio sulla piccola superficie che esso mi offriva, e osservai le due figure all’interno, dato che la tapparella era alzata e le tende non erano tirate.
 
Sembrava tutto a posto, dopotutto. Dormiva serenamente.
 
Quella meno serena ero io. Nonostante mi fossi nutrita quella mattina, da quando avevo riconosciuto il suo odore, la rabbia, la sete, la volontà di aggredirlo erano tornate. Sentivo tutti i muscoli rigidi come pietra, mentre combattevo l’istinto di aprire quella finestra. Fu allora che dubitai di me. Forse non ero forte abbastanza. Forse sarebbe stato meglio chiuderla qui, e dimenticarsi di tutto, teorie o non teorie. Cedere.
 
Ero talmente presa da quei pensieri, che quasi non mi accorsi che il sonno di Francis si faceva via via più agitato. Lo vidi muoversi, lo sentii gemere e borbottare parole senza senso, in un irrequietezza che andava crescendo, fino a quando, intrappolato dalle coperte, cadde sul pavimento.
 
Ero quasi sicura che anche quella fosse una reazione alla mia presenza. Ormai non era più una teoria, era una certezza. Lo avevo visto accadere più volte quel giorno. Lo vidi alzarsi a sedere e prendersi la testa tra le mani. Probabilmente era nello sconforto, tanto quanto me.
 
Quando alzò la testa io lo feci con lui, e fu in quel momento che mi tornò in mente Alice. “Attenta all’ombra!” La mia ombra era perfettamente visibile sul muro della camera. Francis iniziò a girarsi, ma io ero molto più veloce, fortunatamente. Sparii di nuovo sul tetto prima che il suo sguardo si posasse sulla finestra.
 
Sgomenta, capii che la mia distrazione, unitamente alla sua peculiare capacità di percezione, era un problema per entrambi. Un problema che andava risolto. Francis si mosse, lo sentii armeggiare alla finestra, e con dolore seppi che quando quella finestra si fosse aperta e il suo profumo fosse esploso dall’interno di quella stanza, non avrei più avuto scelta.
 
Carlisle lo aveva detto, il cambiamento non è proprio della nostra specie. Io non ero forte abbastanza, lo avrei tirato sul tetto con me e sarebbe morto.
 
La finestra si aprì, il suo odore arrivò alle mie narici. Mi mossi piano, come un felino, portandomi proprio sopra di lui. Il mostro dentro di me ringhiava. Ancora qualche centimetro, silenziosa come un’ombra, e poi avrei fatto la mia mossa.
 
Un tonfo, e poi la sua voce, in una supplica. “Basta, basta, basta, basta, basta…”
 
Già, il cambiamento non è proprio della nostra specie. Infatti non cambiai, o almeno, non fui io a volerlo. Il suo viso terrorizzato quella mattina, il mio disgusto per me stessa, l’incubo che avevo scatenato in lui solo con la mia presenza, la sua voce esausta che continuava a ripetere una parola e una parola sola.
 
Il mostro ruggì, ma questa volta riconobbi il suo verso. Era frustrazione, disperazione, l’ultimo tentativo di farmi cedere. E fallì. Non sarei stata il mostro, non lo sarei stata mai più. Qualcosa prese posto in me, qualcosa che fino ad allora era stato sbagliato. Non saprei descriverlo in altro modo, ma non fu uno sforzo mio. Fu come sedersi comodamente al proprio posto. E ci fu pace.
 
“Bast-” Una pausa. Un sospiro “Grazie… Ora va bene…”
 
Quelle parole, sussurrate nell’aria della notte, mi impietrirono sul tetto come un gargoyle, fino a molto tempo dopo che Francis si fu rimesso a letto, e il suo respiro fu tornato lento e regolare.
 
 
***
 
 
Mi richiusi la porta del dormitorio alle spalle, lo zaino in spalla, l’incubo notturno solo un vago ricordo. Verificai che la zip della giacca fosse ben chiusa, il freddo di quella mattina era pungente. Si era alzata una coltre di nebbia che limitava la visuale a qualche metro, come se il tempo volesse far dimenticare a tutti la svista dei giorni precedenti, riportandoci in pieno autunno.
 
Mi avviai sul il vialetto, il suono dei miei passi ovattato, così come tutti gli altri suono di quel mattino. La nebbia sembrava parlare delle voci e delle risate degli studenti, che tuttavia non potevo vedere.
 
Quando fui quasi al viale principale che portava verso le aule, una piccola figura emerse dalla coltre bianca che copriva tutto, e io mi bloccai.
 
 
***
 
 
Avevo atteso nella nebbia, in ansia, per quasi mezz’ora. Era il momento della verità, l’ultima prova. Ero decisa a non fare del male a quel ragazzo, in alcun modo, ma sarebbe bastato? O ero pericolosa a prescindere per lui? E se anche non lo fossi stata, magari lui in questi giorni aveva stabilito un rapporto di causa ed effetto tra me e quello che scatenavo, e aveva deciso di starmi alla larga. Non gliene avrei certo fatto una colpa.
 
Finsi sorpresa nel vederlo entrare nel mio campo visivo, in realtà lo avevo sentito (sia con le orecchie che con il naso) ben prima. L’odore, il suono del suo cuore, rimanevano sempre mortalmente invitanti, ma anche estremamente piacevoli ora. Potevo sperimentarli sicura di non avere reazioni inconsulte.
 
Sorrisi timidamente, aspettando una sua reazione.
 
 
***
 
 
Un’immagine piuttosto stupida mi salì alla mente. Una serie di omini, dietro le loro postazioni, che controllavano che tutti i sistemi e i processi del mio corpo fossero in ordine.
 
“Ansia?” “Assente!”
 
“Minaccia?” “Assente!”
 
“Capacità di movimento?” “Funzionale al 100%!”
 
Un involontario sorriso mi salì alle labbra. La cosa mi stupì ma la presi come un buon segno. Forse il senso di pace che avevo sentito la notte precedente era genuino dopotutto. Non che credessi davvero che i miei “episodi” avessero a che fare con lei, non la vedevo da giorni dopotutto. Decisi di non stare lì a farmi troppe domande e cavalcare l’onda finché potevo. Mossi un passo, la terra non si aprì, e continuai a camminare verso di la ragazza che mi sorrideva.
 
“Keelin, buongiorno.”
 
 
***
 
 
Il suo viso che si illuminava in un sorriso tranquillo fu una risposta più che sufficiente alle mie domande. Il mio sorriso si fece più largo mentre facevo dondolare il capo, in segno di saluto.
 
“Francis.”
 
 


 
Eccoci.

Innanzitutto mi scuso per la lunghissima attesa, ma d’altra parte, questo è un hobby e la vita fuori da word esige la sua attenzione in modo molto pressante sempre più spesso. Spero che le 1.500 parole in più della mia solita lunghezza bastino a farmi perdonare.
Altra cosa, nell’intro del primo capitolo scrivevo che non mi avevano fatto impazzire i personaggi di Beau ed Edythe in Life and Death. Per quanto riguarda Edythe, magari ne parliamo in un altro capitolo, ma sto capendo come mai Beau mi suonasse molto strano. E’ un ragazzo, ma l’autrice è una donna. E, da uomo, l’estraneità l’ho notata in fretta. Proprio per questo mi scuso con tutte le lettrici se il personaggio di Keelin risulta malamente abbozzato, o se la sua psicologia, letta da una donna, funziona poco. Se così fosse, vi prego di farmelo sapere, così da renderla più convincente.
Come ho detto altrove, è un esperimento che volevo fare, ed ha i suoi alti ed i suoi bassi.
Per quanto riguarda la trama di questo capitolo, mi ha fatto piacere scrivere dei Cullen, così da dare contesto alla storia. Anzi, nella versione originale doveva esserci anche un siparietto con Emmet, ma spezzava un po’ troppo il ritmo, così l’ho tolto. Potrebbe darsi che qualcuno dei Cullen torni, più in là, ma per ora non mi sbilancio.
Altra cosa, il dono di Francis. Spero che non renda meno “vero” il personaggio e meno autentiche le sue reazioni verso la vampira, come se una capacità sovrannaturale fosse l’unica cosa che gli impedisce di cascare ai piedi di lei. Non è e non sarà così, e soprattutto, Francis non ha certo smesso di farsi domande solo perché ha avuto qualche ora di tregua. Il bello inizia ora.
Come al solito, grazie a chi legge, recensisce, ricorda, segue e preferisce, aiuta un sacco.
Preparatevi ad un’altra attesa, spero non lunga come questa.
A presto!

N.
 
  
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