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Autore: Blueorchid31    11/04/2016    8 recensioni
Seconda Classificata al Contest " Tra Favole, Miti e Leggende ~ Decostruiamo una storia!' indetto da _Schwarz sul forum di EFP''
Sasuke Uchiha è un uomo ossessionato dal tempo e vive una vita, a suo dire, perfetta. Un evento doloroso lo costringerà a fare ritorno a Parigi dopo svariati anni. Lì si troverà a fare i conti con un segreto che suo padre ha tenuto nascosto da sempre alla sua famiglia e, ovviamente, con una ragazza di nostra conoscenza.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Fugaku Uchiha, Itachi, Mikoto Uchiha, Sakura Haruno, Sasuke Uchiha | Coppie: Sasuke/Sakura
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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II




Sasuke quella notte non aveva dormito. Si era girato e rigirato in quel letto troppo piccolo e tremendamente scomodo in cui aveva dormito così poche volte da quando i suoi genitori si erano trasferiti nel quartiere di Montmartre. Non che di solito dormisse molto, ritenendo che cinque ore a notte potessero bastare per ottimizzare ulteriormente il suo tempo.

Una ricerca scientifica sosteneva, infatti, che il numero delle ore non contasse, bensì fosse importante andare a dormire prima delle due di notte, momento in cui il cervello era più predisposto per la fase REM e il sonno, quindi, più ristoratore. Lui l'aveva presa alla lettera. Prima di coricarsi metteva in pratica anche un rito '' propiziatore '' - per sicurezza – che consisteva nel bere una tisana rilassante con dieci gocce di Alprazolam. La sua mente, in quel modo, diventava un libro senza figure né dialoghi e il suo sonno, di conseguenza, non rischiava di essere disturbato da inutili sogni.

Il suo risveglio, di solito, era dolce, accompagnato dalle note della radiosveglia impostata su un canale di musica classica e regolata per suonare alle sei in punto.

Ah, quanto gli mancava il suo piccolo appartamento alla periferia di Sidney!

Si consolò al pensiero che mancasse poco e che presto sarebbe potuto tornare alla sua vita: dopo le ventiquattro ore canoniche in cui era obbligatorio lasciare il feretro presso l'obitorio del cimitero, quel pomeriggio avrebbero tumulato suo padre e poi lui sarebbe stato libero di tornare alla sua normale e perfetta routine.

Afferrò l'orologio a cipolla che, come d'abitudine, aveva poggiato sul comodino e rimase a fissarlo per qualche minuto, riflettendo sul fatto che erano passati diversi anni dacché aveva avuto occasione di rimanere in panciolle sul letto fino alle otto del mattino. Quel pensiero quasi lo infastidì, o forse era già infastidito dalla notte insonne e da ciò che sua madre e suo fratello gli avevano raccontato il giorno prima, fatto sta che si alzò e andò a fare una doccia.

Il bagno degli ospiti era quasi più striminzito della sua camera e, quell'assurda fissazione di sua madre per lo stile retrò, lo rendeva assolutamente poco pratico: la doccia non era altro che una piccola vasca riadattata con una tendina di plastica verde, risalente come minimo agli anni Settanta, appesa a un bastone di ferro. Sasuke si chiese in quale mercatino delle pulci l'avesse trovata e, soprattutto, perché non avessero deciso di sostituire quel reperto archeologico con un normale, e senz'altro più comodo, piatto doccia.

Anche la rubinetteria risaliva con ogni probabilità ai tempi in cui la casa era stata costruita tanto che il soffione della doccia, incrostato in più punti, e non per l'imperizia della donna di servizio, aveva tutta l'aria di essere ben poco efficiente.

Lo stile Bohèmien di sua madre, prevalente in quell'appartamento, lasciava a intendere che suo padre, più borghese e conformista, le avesse lasciato carta bianca al momento del trasferimento. La loro precedente residenza, situata nel quartiere di Montparnasse, non era mai piaciuta a sua madre perché troppo moderna e funzionale. Sembrava provare un fastidio a livello epidermico ad avere l'ascensore al posto di due rampe di scale ripide quanto quelle de Le Sacre Coeur, ad avere una caldaia al posto di un camino fuligginoso, ad avere, insomma, tutte quelle comodità che una casa moderna poteva darle.

Quando, dopo interminabili ricerche, sua madre aveva scovato quell'appartamentino a Montmartre, il quartiere Bohemien per eccellenza, lui era già partito per l'Australia e aveva appreso la notizia da suo fratello che, riportando le testuali parole di sua madre, lo aveva definito una '' bonbonnière ''.

A suo dire quella bomboniera era sul punto di esplodere a causa della sindrome da accumulatrice seriale che sua madre aveva sempre avuto che aveva ridotto, con l'andar degli anni, la superficie calpestabile di quell'appartamento a un terzo.

Per sua fortuna quei geni poco sani erano stati ereditati da Itachi, che se ne andava in giro per Parigi con un vecchio Maggiolone cabriolet, e non da lui che, tolto il suo inseparabile orologio, difficilmente riusciva ad affezionarsi a degli oggetti – o ad affezionarsi in generale.

Con qualche difficoltà di movimento riuscì a farsi la doccia, maledicendo più volte la tenda, la vasca scivolosa e il soffione che, come pensava, a causa del calcare accumulato intorno alle bocchette, era stato efficace come la fontanella di un giardino pubblico.

Si legò un asciugamano all'altezza della vita e si guardò nel grande specchio ovale posto sopra il lavandino, qua e là striato di ruggine – un altro reperto archeologico.

Il suo viso era più pallido del solito, quasi smunto, e i suoi occhi erano adornati da due belle occhiaie, sintomatiche della notte passata in bianco in cui spesso si era ritrovato a pensare a quella ragazza, mettendo in moto la sua mente analitica per capire se ci potesse essere davvero un fondo di verità nelle illazioni di sua madre.

Era impensabile che suo padre avesse potuto avere una relazione extraconiugale, lui così retto, così intransigente e bigotto.

Certo, le prove che avevano trovato Itachi e sua madre lasciavano ben poco al caso, ma qualcosa continuava a non convincerlo. Forse le cose non stavano così come loro le avevano immaginate, forse si erano fermati alle apparenze e non avevano scavato abbastanza in fondo per scoprire la verità. Avevano deciso, più sua madre che Itachi, che quella fosse l'unica versione possibile dei fatti, per quanto, ne era certo, apparisse anche a loro assurda.

Per lui era diverso, lo era sempre stato. Era stato proprio il desiderio di riuscire a spiegare l'assurdo che lo aveva convinto a scegliere un percorso di studi scientifico e a dedicare tutte le sue energie alla ricerca.

Il medesimo desiderio che adesso stava attentando ala sua volontà di rimanere al di fuori di quella faccenda, complice il pessimo presentimento che languiva nella sua testa da quando aveva visto quella ragazza.

Decise di uscire, sperando che una passeggiata potesse aiutarlo a distrarsi da quei pensieri pericolosi.

Sua madre, dalla sera prima, non era più uscita dalla sua stanza e pensò bene di non disturbarla ritenendo che, probabilmente, desiderasse riposare un po'.

Scese le due ripide rampe di scale e uscì in strada.

Si affrettò a indossare i suoi occhiali da sole perché dopo una notte insonne tendeva a essere fotofobico e, quella mattina, il sole splendeva alto sul Quartiere di Montmartre e sembrava aver reso tutti più gioiosi e rumorosi – tranne lui, ovviamente.

Si allontanò in fretta dal caos di quella strada, affollata di turisti, e si diresse verso il Quartiere di Pigalle dove avrebbe potuto prendere la Metropolitana e muoversi verso il centro.

Prese l'orologio dalla tasca e controllò l'ora: le nove e mezza. Era di nuovo in ritardo, una costante da quando aveva messo piede a Parigi, e questa volta per la colazione.

Si fermò in un Bistrot e ordinò un tè e un croissant. Non era mai stato un patito di dolci, ma dovette ammetterlo: i croissant parigini gli erano mancati parecchio.

Senza una meta ben precisa, prese la linea dodici della Metropolitana che dopo dieci fermate avrebbe cambiato con la dieci, arrivando così nei pressi della Tour Eiffel. Da lì si sarebbe poi mosso a piedi.

Giunto alla stazione di cambio, alzò lo sguardo per rintracciare le indicazioni per il treno successivo, ma tutto ciò che i suoi occhi riuscirono a registrare, come se qualcuno si fosse divertito a cancellare il resto dei cartelli e a fargli perdere la strada, fu la dicitura '' Cluny – La Sorbonne ''.

Seguì la freccia che, nonostante tutto, portava comunque al treno che aveva deciso di prendere, e una volta a bordo si lasciò cadere su uno dei sedili di plastica.

Le fermate si susseguirono una dopo l'altra e le porte del treno si riaprirono alla stazione '' Cluny – La Sorbonne ''. Le persone accalcate all'uscita scesero dal treno e lui rimase lì seduto, a guardarle, come incapace di muoversi o non desideroso di farlo, mentre i passeggeri che attendevano sul marciapiede della stazione presero a salire sul treno.

Il suo subconscio aveva sperato che sul suo vagone salissero talmente tante persone da creare come un muro tra lui e l'uscita, impedendogli di mettere in atto quella malsana idea che aveva iniziato a farsi strada nella sua testa dacché aveva visto il cartello. Contro ogni previsione e contro ogni speranza, i passeggeri appena saliti sul treno si dispersero in fretta, lasciandogli quindi la libertà di scendere qualora questa fosse stata la sua volontà.

Quando udì lo sbuffare del marchingegno di chiusura delle porte, qualcosa in lui finalmente scattò e, incurante della possibilità di venire redarguito per quel gesto pericoloso e per aver ritardato la partenza del treno, scese in fretta. S'immobilizzò di nuovo al di là della linea gialla, incredulo e quasi divertito, ricordando un aneddoto della sua adolescenza, quando saltare giù dalla metropolitana di Parigi all'ultimo minuto era una consuetudine, un gioco, un modo per contravvenire alle regole, e poco dopo sentì di nuovo il marchingegno sbuffare, le porte chiudersi e il treno partire.

Carico di una buona dose di adrenalina seguì le indicazioni che riportavano in superficie, percorrendo i sottopassaggi illuminati dal neon della metropolitana, affollati di viaggiatori e artisti di strada. Una volta all'esterno, si ritrovò su le Boulevard Saint-Germain e da lì in poi non ebbe più alcun bisogno delle indicazioni: la strada la conosceva a memoria.

Imboccò Rue de Cluny , poi girò a destra per Rue Saint-Jacques e infine a sinistra in Rue Cujas, ritrovandosi davanti all'ingresso principale della Sorbonne.

Il tempio della dea Ragione, come era stato ribattezzato durante la Rivoluzione Francese, continuava a esercitare un certo fascino su Sasuke nonostante fossero passati svariati anni. In vero, nella sede centrale, ci aveva messo piede poche volte in quanto la facoltà di fisica era distaccata presso l'Université Pierre et Marie Curie Paris 6 in rue dell'Ecole de Médecine, ma era comunque emozionante pensare che per secoli all'interno di quelle mura fossero state tramandate imponenti moli di cultura, che personaggi come gli stessi coniugi Curie, Giordano Bruno, Jean-Paul Sartre, e molti altri, avessero calpestato quei pavimenti.

Aveva come l'impressione di poterli vedere con vecchi libri consunti tra le mani e le dita sporche di inchiostro a discutere di arte, letteratura, filosofia, matematica. Avrebbe pagato qualsiasi cifra per poter assistere dal vivo alla creazione dell'Elettrometro Piezoelettrico al Quarzo, o alla divisione del radio dal bario con il metodo della cristallizzazione frazionata.

Entrò all'interno della struttura e si diresse al punto informazioni, chiedendo indicazioni per raggiungere l'ufficio di suo padre. La donna dall'altra parte della scrivania gli aveva fatto immediatamente le condoglianze e si era offerta di accompagnarlo e lui aveva accettato di buon grado, temendo di perdersi.

Avevano salito le scale, ornate da passamano di ottone e bronzo che riportavano ancora le effigi dei reali di Francia, e attraversato una serie di corridoi fino a che la donna non si era fermata davanti a una porta in legno a doppio battente e aveva bussato.

« Mademoiselle, est-ce que je peux entrer? » (1)chiese, confermando la sua ipotesi che quella donna si trovasse lì.

« Un istant je vous prie. » (2)rispose una voce sottile dall'altra parte.

Udirono una serie di rumori che non riuscirono a identificare e, dopo qualche minuto, la porta si aprì.

La ragazza spalancò i suoi occhi verdi e socchiuse le labbra.

« Le monsieur est le fils… »(3) si affrettò a spiegarle la donna.

« Ti conosco. » la interruppe lei « Quel bagliore nei tuoi occhi è così famigliare. »(4) affermò d'istinto, prendendo completamente alla sprovvista Sasuke che fu costretto a deglutire e poi a serrare la mascella per controllare lo stupore e l'imbarazzo.

« Je m'en occupe maintenant, merci beaucoup. »(5) si rivolse poi alla donna, liquidandola con gentilezza.

Appena questa fu abbastanza lontana, fece cenno a Sasuke di seguirla all'interno dello studio di suo padre e richiuse la porta.

Sasuke si guardò intorno per qualche istante, mostrandosi più interessato a ciò che lo circondava che a lei che era rimasta alle sue spalle. Era rimasto molto colpito dalla sua spontanea affermazione, forse un po' troppo articolata, poetica, ma sicuramente d'effetto. Altresì non si aspettava che quella ragazza fosse così giovane e che avesse i capelli di quello strano colore: rosa. Un altro punto a favore della tesi che non fosse l'amante di suo padre – aveva già dell'incredibile che l'avesse accettata come sua assistente.

Lo studio era molto grande, ordinato, nonostante la quantità di libri che vi erano conservati al suo interno, che impilati gli uni sugli altri, in alcuni punti della stanza sembravano essere diventati come un secondo muro.

Percepiva lo sguardo della ragazza alle sue spalle: lo stava studiando e aspettava forse che lui dicesse qualcosa. Lei, in quella semplice affermazione fatta poco prima aveva implicitamente ammesso di averlo riconosciuto, forse per quel fugace incontro in Chiesa, mentre lui non era stato ancora in grado di dirle alcun che.

« Hai il suo stesso sguardo » esordì la ragazza, mentre lo superava e si posizionava di fronte a lui, appoggiandosi di schiena alla scrivania « Severo e inquietante. » aggiunse, abbozzando un sorriso.

La sincera tristezza che Sasuke poté leggere nei suoi occhi lo costrinse a cambiare i suoi piani. Lungo il percorso dalla fermata della Metropolitana alla sede della Sorbonne, aveva fantasticato a lungo su quel momento. Aveva deciso di farla parlare, di aggredirla se necessario, ma guardandola adesso, così triste, aveva provato più il desiderio di consolarla che altro.

« Tu sei Sasuke, vero? » gli domandò la ragazza.

« Sì. » le rispose « E lei è Sakura Haruno. » aggiunse, scegliendo di proposito di darle del lei per mantenere le distanze.

« Tuo padre mi ha parlato tanto di te. » lo informò, ignorando l'evidente chiusura che il ragazzo aveva mostrato nei suoi confronti.

« Strano. » replicò Sasuke, stando ben attento a non far trasparire l'amarezza nel suo tono di voce: dopo quanto accaduto in passato era impensabile che suo padre parlasse a un estraneo di lui.

« Al contrario io ho appreso di lei solo ultimamente. » aggiunse, guardandola dritta negli occhi per cogliere un eventuale reazione.

« Sarebbe stato strano il contrario. » affermò Sakura, sorridendo divertita e aspettandosi che anche lui facesse lo stesso: i giochi di parole erano sempre stati il suo forte. Ricordò quanto Fugaku li odiasse e si adombrò per un attimo per poi concentrarsi di nuovo sul ragazzo che aveva di fronte che si era limitato ad alzare un sopracciglio, perplesso.

Si schiarì la voce con un colpo di tosse e riprese: « Perché mai tuo padre avrebbe dovuto parlarti di me? Dopotutto ero solo la sua assistente. »

In effetti, constatò Sasuke, sorvolando su quello stupido gioco di parole, il ragionamento della ragazza non faceva una piega.

« Ma dimmi. » continuò lei, incrociando le braccia « Cosa ti ha portato qui, oggi? » gli domandò, socchiudendo gli occhi.

Sasuke si prese qualche minuto per valutare bene cosa risponderle: se si fosse esposto troppo probabilmente lei si sarebbe chiusa a riccio e lui non avrebbe ottenuto alcuna informazione.

« Dovrei recuperare gli effetti personali di mio padre. »

Una scusa plausibile, dopotutto prima o poi l'Università avrebbe chiesto a sua madre di farlo.

« Di già! » esclamò la ragazza, questa volta spalancando gli occhi dallo stupore « Bande d'ingrats! » (6)imprecò, sottovoce.

« Beh, allora preparati! » gli annunciò « In questo studio, tutto è un effetto personale di tuo padre. » gli disse poi, enfatizzando il concetto spalancando le braccia.

Sua madre sarebbe stata contenta, osservò Sasuke: tanti altri oggetti da collezionare.

« Ci metterai come minimo tre settimane. » pronosticò la ragazza « A meno che tu non voglia pagare una ditta di traslochi. »

« Valuterò il da farsi. » replicò Sasuke, caustico.

« Vuoi iniziare subito? » gli domandò Sakura.

« No, penso che ne parlerò prima con mia madre. »

« Bene. » ribatté lei, piegando le labbra in una smorfia strana, sicuramente d'imbarazzo.

« Bene. » ripeté lui, deciso a non muoversi da lì fino a che non avesse ottenuto anche solo una minima informazione.

Sullo studio si abbatté un febbrile silenzio. Sasuke tirò fuori dalla tasca il suo orologio per controllare l'ora e lei, di sottecchi, lo osservò, trovando abbastanza inusuale che un uomo della sua età andasse in giro con un pezzo di anticaglia del genere.

Tuttavia, quel gesto, le fece venire in mente un modo per togliersi dall'impaccio.

« È quasi ora del brunch. » esordì, dunque, attendendo una sua reazione prima di continuare.

Sasuke alzò lo sguardo dall'orologio e la guardò con aria interrogativa: lo stava gentilmente mandando via o lo stava invitando a pranzo?

« Mi fai compagnia? » decise di dirgli scegliendo tra le varie opzioni quella più gentile.

Sasuke annuì: poteva essere un'ottima occasione per conoscerla meglio e, chissà, capire quale rapporto ci fosse stato tra lei e suo padre. Certo, quella ragazza era scaltra e sicuramente con la sua dialettica avrebbe potuto intortarlo a suo piacimento, ma era sempre stato bravo a leggere tra le righe e con un po' di pazienza, ne era sicuro, avrebbe ottenuto quello che voleva.

« Allons! »


Appena fuori dall'edificio, Sakura gli fece un cenno, invitandolo a fermarsi un attimo. Si appoggiò a una delle colonne del porticato e tirò su una gamba, rimanendo in equilibrio, per sostenere il peso della sua borsa a tracolla. Frugò insistentemente all'interno della stessa, portando la lingua sul labbro superiore, in un'espressione che Sasuke definì alquanto buffa. Dopo alcuni secondi, sorrise trionfante, avendo trovato il pacchetto di sigarette e l'accendino in un solo colpo – evento raro.

Prese una sigaretta e la portò alla bocca, porgendo poi il pacchetto a Sasuke.

« Ho smesso, grazie. » la informò, rifiutando con gentilezza.

Sakura accese la sigaretta e inspirò a fondo il primo tiro, sentendosi immediatamente meglio: da quando Sasuke aveva fatto la sua comparsa aveva sentito il bisogno impellente di fumare.

« Che bravo! » esclamò, davvero colpita « E come hai fatto? Agopuntura? Sigaretta elettronica? » gli domandò curiosa: lei ci aveva provato molte volte a smettere, ma puntualmente era ricaduta in tentazione.

« Qualcosa di molto più semplice. » le rispose, quasi divertito.

« Cioè? »

« Forza di volontà. » dichiarò Sasuke, con una nota di sufficienza nella voce che riuscì a zittire la ragazza.

Da quel momento in poi camminarono in silenzio, ripercorrendo al contrario la strada dalla Sorbonne al Boulevard Saint-Germain dove era situata la brasserie in cui Sakura aveva intenzione di portarlo.

Era un locale in pieno stile parigino, anche se proponeva piatti internazionali come il sushi o la pasta.

Si misero a sedere a un tavolo, già apparecchiato con tovagliette di carta a quadretti bianchi e rossi, un bicchiere di vetro da acqua e le posate avvolte in un tovagliolo, anch'esso di carta.

In quanto a eleganza non era il massimo, ma a giudicare dalla folla il cibo doveva essere buono.

« Qui preparano un sushi eccellente. » lo informò la ragazza « Anche se io non l'ho mai mangiato. Non mi piace. » aggiunse, porgendogli il menù che la cameriera aveva lasciato al tavolo.

« Come fa a dire che è eccellente se non l'ha mai mangiato? » la provocò Sasuke, che dopo essere riuscito a zittirla si era sentito intellettualmente superiore e, quindi, aveva acquisito sicurezza.

« Potresti. » Sakura indugiò appena « Sì, insomma, potresti non darmi del lei? » gli chiese, tutto d'un fiato, aggiungendo poi: «Mi mette a disagio. Siamo quasi coetanei dopotutto. »

Sasuke incurvò le labbra in un ghigno: l'aveva capito subito che il fatto che lui le avesse dato del lei l'avesse messa in imbarazzo, ma aveva continuato, deciso a mantenere le distanze, a non darle confidenza. Non aveva intenzione di diventare suo amico, in verità non vedeva l'ora di dimenticare tutta quella storia, ma non prima di aver scoperto la verità.

« Se non sbaglio sei nato a Luglio. » riprese Sakura « Io sono nata a Marzo. Sono più grande di te di qualche mese, ma non per questo mi devi dare del lei. Mi fai sentire vecchia. » sproloquiò nervosa, spiegazzando l'angolo della tovaglietta.

Sasuke rimase stupito nell'apprendere che lei fosse così informata: forse non mentiva sul fatto che suo padre le avesse parlato di lui.

« Non sei originaria di Parigi, vero? » le chiese Sasuke, accontentandola sul '' tu '' e partendo definitivamente all'attacco.

Lei gli sorrise, sollevata, e smise di maltrattare la tovaglietta.

« Non mangio il sushi, ma sono Giapponese. » gli confermò, anche se era certa che quella precisazione fosse stata assolutamente inutile.

« Da quanto tempo vivi a Parigi? » incalzò lui, deciso a battere il ferro finché era caldo.

« Da sempre. O almeno da che ho memoria. »

Quella risposta criptica non soddisfò affatto il ragazzo che mentalmente aveva già fatto i suoi conti: il cognome Haruno lo aveva subito portato a pensare che lei non fosse di Parigi, i lineamenti, il taglio degli occhi e quella frase a bruciapelo che aveva proferito sulla porta dello studio di suo padre gli avevano confermato il suo sospetto, tuttavia in quel quadro quasi perfetto c'era qualcosa che stonava ed era il suo francese, impeccabile e senza accenti particolari.

Vivendo all'estero Sasuke aveva imparato che, per quanto si potesse conoscere bene una lingua e parlarla correntemente, l'accento della propria lingua madre fosse impossibile da eliminare del tutto: che fosse nata in Francia, quindi?

La cameriera si accostò al tavolo e chiese loro cosa volessero ordinare.

Sasuke optò per una semplice insalata e dell'acqua naturale, mentre Sakura ordinò una omelette, un tagliere di formaggi e un bicchiere di vino rosso.

« E così sei un fisico. »

Sakura cambiò discorso, incentrando di nuovo la conversazione su di lui.

« Sì. » affermò lui, senza aggiungere altro: non amava parlare di sé.

« Ambizione, distrazione, mostrificazione e derisione. » recitò lei, facendo ondeggiare una mano come un direttore d'orchestra.

Sasuke la guardò perplesso e alzò un sopracciglio: ciò che aveva appena detto non aveva il ben che minimo senso logico.

La ragazza scoppiò a ridere, conscia che non avesse capito e lui corrugò la fronte, contrariato, sentendosi preso in giro.

« Sono le varie branche dell'aritmetica, ma penso che possano essere valide anche per la fisica. » tentò di spiegargli, anche se era quasi certa che non avrebbe capito ugualmente « Voi scienziati siete come dei libri senza figure, né dialoghi. » continuò, cercando di rendere il concetto più chiaro « Inseguite in modo spasmodico la conoscenza, schiavi di formule e numeri, dimentichi di avere un'anima che necessita di essere nutrita quanto la mente. »

Per quanto Sasuke si sforzasse non riusciva a seguirla e quel senso fastidioso di inadeguatezza lo portò a lanciarle uno sguardo severo, ammonitore, volto a dissuaderla dal continuare.

La cameriera, in modo provvidenziale, tornò al tavolo con il loro pranzo, allentando così la tensione.

Sakura iniziò a mangiare come se nulla fosse accaduto, mentre lui ancora troppo arrabbiato rimase a fissare la sua insalata, cercando di allontanare da sé il desiderio di risponderle con il rischio di poter essere offensivo. Aveva voglia di insultarla, di umiliarla, per quella bestemmia che aveva appena proferito. Implicitamente lo aveva offeso, deliberatamente attaccato, e il suo orgoglio non riusciva a sopportare un simile affronto.

Un libro senza figure, né dialoghi. Ambizione, distrazione, mostrificazione e derisione.

Quella ragazza non sapeva di cosa stava parlando e, soprattutto, aveva quello strano modo di interloquire che la rendeva non solo incomprensibile, ma anche insopportabile.

« Come hai conosciuto mio padre? »

Sasuke si decise a rompere il silenzio, tornando all'argomento principale, quello per cui aveva accettato di pranzare con quella donna blasfema e inopportuna.

« All'università. » gli rispose lei, mandandolo su tutte le furie per quell'ennesima risposta vaga e superficiale.

Sasuke iniziò a sospettare che lei avesse subdorato qualcosa, che avesse scoperto il suo gioco e che, quindi, si comportasse in quel modo di proposito.

« Tuo padre era un uomo molto buono. »

Inaspettatamente Sakura ricominciò a parlare, con un tono molto diverso da quello che aveva utilizzato in precedenza.

« Per me non è stato solo un mentore, ma anche un amico, un padre. » continuò, con voce strozzata, mostrando quanto in fondo fosse fragile dietro quella maschera di donna emancipata che si era costruita « L'ho amato molto. » chiosò, lasciando Sasuke esterrefatto: forse le teorie di sua madre non erano poi così tanto infondate.

Dopo aver pronunciato quelle parole Sakura posò la forchetta, sentendo venir meno la fame, e con un gesto veloce della mano si asciugò una lacrima arroccata nell'angolo dell'occhio destro.

Sasuke, dentro di sé, cercò di convincersi che quella fosse una sceneggiata per non cadere nella tentazione di provare pena o comprensione per lei. Aveva appena ammesso di aver amato molto suo padre, era quello che lui voleva sentirsi dire, ma non quello che si sarebbe aspettato che lei dicesse; non così spontaneamente, almeno, come fosse stata una cosa normale: quale amante avrebbe confessato il suo peccato con tale facilità?

Qualcosa continuava a non tornargli e non era solo il fatto che qualcun altro, a parte sua madre, avesse potuto provare un simile attaccamento verso una persona tendenzialmente anaffettiva come suo padre.

« Cosa intendi? » le domandò Sasuke, con la speranza che lei rispondesse con sincerità.

« Ho perso i miei genitori quando ero molto piccola » gli rispose, riprendendo a maltrattare la tovaglietta con le dita della mano « E Fugaku è stato quanto di più simile a una famiglia che io abbia mai avuto. Si prendeva cura di me come avrebbe fatto un padre, o almeno credo. » gli spiegò, poi, sentendo di nuovo le lacrime affiorarle sui bordi delle palpebre.

« Mi dispiace per i tuoi genitori. » si sentì di dirle il ragazzo, versando un po' d'acqua nel bicchiere per ovviare alla sgradevole sensazione di secchezza che aveva iniziato a provare in direzione della gola.

« Non puoi dispiacerti per qualcosa che non conosci, come non si può soffrire per qualcosa che non ricordi di avere avuto. » affermò lei, dandogli di nuovo prova di essere molto brava con le parole e, all'occorrenza sintetica, ma efficace.

« Non hai ricordi di loro, quindi. »

« No. Avevo solo quattro anni. »

Sakura inforcò lo stelo del calice e portò il bicchiere alle labbra, bevendo un lungo sorso di vino: l'ultima volta che aveva parlato del suo passato così apertamente era stato proprio con il padre di Sasuke, un dejavù che aveva dell'incredibile. Probabilmente, come suo padre, Sasuke tentava di difendere il suo animo gentile e altruista, indossando la maschera dell'uomo duro e intransigente.

« Dopo cos'è accaduto? » incalzò Sasuke, sentendo di essere sulla strada giusta, infischiandosene di poter essere inopportuno o sgarbato nel porle domande così personali.

« Quello che accade a tutti gli orfani. Sono stata in un istituto, in Giappone, per circa un anno, o almeno credo. Il primo vero ricordo, un po' confuso, della mia infanzia è il viaggio in aereo che mi ha condotta a Parigi. »

Più Sakura andava avanti nel racconto, più dentro Sasuke nasceva un nuovo dubbio, se possibile più inquietante di quello con il quale era partito quella stessa mattina.

« Perché Parigi? Non avevi parenti in Giappone? » indagò, quindi, perché quel dubbio si era ormai insinuato nelle sue sinapsi e la sua mente era già arrivata a una conclusione, ma aveva bisogno di ulteriori informazioni per averne la certezza.

« Mi stai facendo il terzo grado per caso? » obiettò lei, riducendo i suoi occhi a due fessure.

« No. » rispose, sicuro « È solo che la tua storia mi ha incuriosito, ma se non hai voglia di parlarne possiamo anche cambiare argomento. » si sforzò di sembrare convinto di quello che diceva, benché in cuor suo desiderasse il contrario.

« Comunque no, nessun parente. Né qui, né in Giappone. »

Sasuke tirò un sospiro di sollievo, udendo la sua risposta ancora attinente all'argomento.

« Non so neanche come ci sia finita qui a Parigi. Un bel giorno mi hanno caricato su un aereo e spedita in un collegio dove sono rimasta fino ai diciotto anni. » continuò lei, gesticolando animatamente.

La domanda nacque spontanea nell'eccelsa mente dell'Uchiha: come aveva fatto una povera orfanella a diventare assistente del Rettore dell'Università di Letteratura Straniera della Sorbona?

« Ti starai chiedendo chi ha pagato i miei studi, immagino. »

Leggeva anche nel pensiero?

« Una delle suore del collegio fece richiesta per una borsa di studio e, non so come, la vinsi. Evidentemente Suor Marie aveva dei buoni agganci in Paradiso. » gli confessò, sorridendo al ricordo di quel giorno in cui la sua vita era cambiata in modo radicale.

Quell'ultima rivelazione insospettì ulteriormente Sasuke: che la suora avesse potuto avere qualche aggancio all'interno della Sorbona poteva essere anche plausibile, ma quella storia continuava ad avere delle enormi incongruenze, delle falle che la rendevano assai poco credibile.

« Non hai mai cercato di scoprire come sei arrivata a Parigi? » le domandò, quindi: al suo posto non si sarebbe dato pace, proprio come stava facendo in quel momento, fino a che non avesse trovato una spiegazione.

« Oh, sì! » esclamò lei « Ci ho provato svariate volte. Ho persino pensato di andare in Giappone, a Kamakura, la mia città natale per scoprire le mie origini. »

« Kamakura hai detto? » la interruppe Sasuke, che sentendo quel nome aveva sbarrato gli occhi.

« Sì, la conosci? »

« Ne ho sentito parlare. » mentì: era la città natale di suo padre. Coincidenza?

La coincidenza, in senso lato, è la probabilità, accidentale e inaspettata, che due o più eventi siano tra loro collegati, ma in fisica, come nel caso di due raggi di sole che colpiscono lo stesso punto, l'allineamento dei due eventi non è affatto casuale o sorprendente.

Sasuke, pertanto, non aveva mai creduto alle coincidenze.

« Mi piacerebbe molto andarci, ma il viaggio costa un'assurdità. » piagnucolò la ragazza, abbassando le spalle, sconfortata.

« Adesso. » sbottò improvvisamente Sasuke, tirando fuori il portafogli dalla tasca e posando i soldi per il conto sul tavolo « Adesso devo proprio andare. Mia madre e mio fratello mi stanno aspettando. » le spiegò in fretta, con un'espressione sul viso molto simile a quella di chi ha appena ricevuto una pessima notizia o ha visto un fantasma. L'ultima informazione che Sakura gli aveva dato era stata cruciale. Non aveva ancora le idee molto chiare, ma quantomeno aveva assodato che tra lei e suo padre non ci fosse stato quel sordido rapporto ipotizzato da sua madre. Adesso quantomeno sapeva come comportarsi, cosa fare, e con un po' di fortuna sarebbe riuscito a mettere in atto i suoi propositi prima che suo padre venisse tumulato.

« Aspetta! » lo fermò lei, cercando di nuovo qualcosa nella borsa: questa volta una semplice penna.

Allungò una mano verso di lui, invitandolo a fare lo stesso. Lui la guardò corrucciato non riuscendo a capire il senso di quel gesto, ma la assecondò.

« Hai delle belle mani. » osservò lei, accarezzando la mano del ragazzo che, rigido, continuava a chiedersi che intenzioni avesse.

Con gentilezza lo costrinse a voltare il palmo della mano all'insù e prese a scrivervi sopra dei numeri.

« Questa sera sono stata invitata a una festa. » gli disse « Forse non hai voglia di stare in mezzo alla gente, ma mi farebbe piacere se tu venissi. » aggiunse poi, restituendogli la mano.

Sasuke annuì, incapace di fare altro e uscì in fretta dalla brasserie diretto nuovamente all'Università: doveva immediatamente togliersi quel dubbio angosciante dalla testa.

Suo padre era nato a Kamakura, poi durante il servizio militare si era trasferito a Tokyo dove aveva iniziato gli studi e conosciuto sua madre. Dopo la morte dei suoi nonni non aveva più fatto ritorno alla sua città natia, tuttavia poteva essere plausibile che avesse avuto ancora delle amicizie lì. Sakura era nata a marzo, lui a luglio, e nel periodo che era intercorso tra la sua nascita e quella di Itachi i suoi genitori avevano avuto una crisi matrimoniale che li aveva portati quasi al divorzio. Quelli erano fatti, non coincidenze, ed era sicuro che, indagando su quella borsa di studio, avrebbe scoperto che non era mai esistita.








Note Autrice


Salve carissimi lettori,

questa mattina sarò abbastanza sintetica perché sono in ritardo e tra un quarto d'ora devo stare in ufficio. :-(

Ringrazio chi ha recensito il precedente capitolo, chi ha inserito la storia tra le preferite, le seguite e le ricordate, e chi l'ha solamente letta. Grazie infinite!

Vi annuncio anche che il capitolo di Mr è quasi terminato ma siccome in questi giorni sono oberata di lavoro non penso che riuscirò a postarlo prima di giovedì o venerdì.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e gradirei sapere che cosa ne pensate.

Colgo l'occasione per fare gli auguri a una mia carissima amica che oggi compie gli anni. Bonne Anniversaire Giropizza!

Un bacione a tutti e a presto.




Note:




(1) « Mademoiselle, est-ce que je peux entrer? » (Signorina, posso entrare?)

(2) « Un istant je vous prie. » (Un istante prego)

(3) « Le monsieur est le fils… » (Il signore è il figlio…)

(4) Traduzione di un verso della canzone '' Once upon a dream'' di Lana del Rey

(5) « Je m'en occupe maintenant, merci beaucoup. » (Me ne occupo io adesso, grazie mille.)

(6) « Bande d'ingrats! » (Banda di ingrati)

   
 
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