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Autore: Adeia Di Elferas    16/04/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Come sarebbe a dire che i soldati sanno già che la Contessa li vuole incontrare?” chiese Giovanni Bentivoglio tra i denti, appena il suo scudiero gli ebbe riferito ogni cosa.
 Il ragazzino fece spallucce e disse solo: “Le voci girano in fretta.”
 “E...?” domandò in un sussurro Bentivoglio, guardando di sfuggita gli altri, che si stavano ancora intrattenendo con Caterina Sforza vicino a Porta Cotogni.
 “E direi che l'aspettano con ansia.” fece lo scudiero, non riuscendo a trovare un espressione migliore per descrivere la strana agitazione che aveva cominciato a serpeggiare tra i soldati.
 “Speriamo bene...” sospirò Giovanni Bentivoglio, facendo un cenno al resto dei comandanti: “Allora, vogliamo avviarci?”
 Gli altri diedero di sprone ai cavalli e Caterina insistette con la propria scorta affinché la accompagnasse solo fino all'ingresso della città.
 “Di qui in poi – disse, una volta varcata la Porta – posso cavarmela anche da sola.”
 Il tragitto tra la Porta Cotogni e l'accampamento delle truppe sforzesche non fu molto lungo, ma ci fu comunque modo di scambiare due parole.
 Caterina chiese notizie di Milano, mentre i generali le chiesero spiegazioni circa i rinforzi arrivatile da Roma qualche giorno addietro, visto che, per quanto se ne sapeva, il Vaticano era schierato a favore di Savelli.
 “Dunque voi siete Giampietro Carminati di Brambilla.” stava dicendo Caterina, mentre conducevano i cavalli a passo rilassato.
 “Ma mi chiamano tutti Bergamino.” specificò Giampietro, annuendo divertito.
 “Da quello che ho sentito su di voi, siete un soldato molto valido e leale.” continuò Caterina, che per quell'uomo aveva provato un'immediata simpatia, malgrado il suo aspetto abbastanza rozzo.
 “Per quello che posso.” confermò il Bergamino con un sorrisetto.
 “Mi servirebbe un uomo come voi, nella mia città. Ho intenzione di nominare un nuovo Governatore a Forlì. Pensateci sopra.” buttò lì Caterina, appena prima di arrivare all'accampamento delle truppe sforzesche.
 Il Bergamino fece un breve fischio e piegò gli angoli della bocca verso il basso, stupito da una proposta così improvvisa, ma in egual misura molto onorato per tanta fiducia.

 Quando la signora di Forlì entrò nell'accampamento delle truppe sforzesche accompagnata dai comandanti, venne accolta da un'improvvisa manifestazione di entusiasmo.
 Gli uomini che l'avevano conosciuta da bambina o che l'avevano incontrata durante il suo ultimo viaggio a Milano, non avevano faticato a convincere i commilitoni del fatto che quella donna era un vero e proprio portafortuna per i militari.
 Anche i più scettici si erano lasciati catturare dalla frenesia di massa e così, quando Caterina passò in mezzo a loro per raggiungere il cuore pulsante dell'accampamento, tutti quanti gridarono il motto delle truppe milanesi, ovvero “Duca! Duca!” e presero a battere lance e spade contro gli scudi o in terra per rendere omaggio alla Contessa.
 Caterina, che aveva sperato di avere un certo ascendente su di loro, rimase stupefatta da un simile calore. Giovanni Bentivoglio rimase anche più stupito di lei, anche se temeva lo stesso che le notizie che la Contessa portava con sé avrebbero fatto cambiare l'umore di tutti molto rapidamente.
 Ci volle parecchio tempo prima che le grida e il fracasso si placassero. Tanto che, alla fine, il silenzio venne richiesto espressamente da Caterina che, dal punto rialzato in cui era stata portata, fece segno ai soldati di interrompere la loro esternazione di gioia.
 Davanti a sé vedeva un mare di volti e di armature. A pochi metri da lei c'erano il Bergamino e Giovanni Bentivoglio, tuttavia pensò comunque che se qualcuno avesse voluto farle del male, due uomini non avrebbero potuto fare nulla contro quella fiumana di soldati.
 Cercò di non pensarci e fece del suo meglio per apparire rilassata e tranquilla.
 “Soldati! Milanesi! Bolognesi!” cominciò, chiamando la truppa in modo diretto, per farla sentire più coinvolta.
 Ci fu un momento di silenzio, laddove si sarebbe aspettata un piccolo moto di approvazione, così frugò nei suoi ricordi per farsi venire in mente cosa diceva ai suoi uomini suo padre quando partivano per una campagna.
 Deglutì un paio di volte e riprese: “Fratelli!”
 E finalmente l'urlo di approvazione e lo scuotere delle lance contro gli scudi tornarono a risuonare per il campo, per poi placarsi a un segno della mano della Contessa.
 “Vi sono grata per essere subito accorsi qui – continuò Caterina – in mio soccorso, per aiutarmi a sconfiggere i criminali che hanno ucciso mio marito e minacciato di impiccare i miei figli.”
 Qualcuno nel pubblico ridacchiò. Caterina non vi fece caso. In molti, in fondo, dovevano aver sentito raccontare della scenetta della sottana sollevata davanti agli Orsi e a Savelli.
 “So bene che la vostra solerzia e la vostra lealtà sono la prova più valida dell'amore e del rispetto che la mia famiglia, la famiglia Sforza, riscuote presso gli uomini d'armi. Siete stati validissimi alleati e sono certa che per secoli si parlerà di come i nobili soldati di Milano e di Bologna sono accorsi a Forlì per liberare me, quella che chiamano la Tigre...” Caterina si fermò un momento, dato che quell'affermazione aveva suscitato un nuovo coro di 'Duca, Duca', ma poi riprese, con ancora più forza: “E so per certo che nei secoli ci si ricorderà ancor di più di come le truppe di Milano e Bologna siano state capaci di agire con solerzia e moderazione, obbedienti, come solo i veri soldati sanno essere. Le generazioni future ricorderanno il vostro coraggio parimenti con la vostra magnanimità. Voi, fratelli miei, avreste potuto radere al suolo Forlì, saccheggiarla e depredarla da ogni ricchezza, senza provare pietà né per i bambini né tanto meno per le donne.”
 Giovanni Bentivoglio guardava Caterina con due occhi di ghiaccio. Quelle parole stavano incantando la truppa, ma prima o poi qualcuno avrebbe capito...
 “Tutti si ricorderanno di come voi avete deciso di astenervi dal sacco della città, sia per amor di giustizia sia per rispetto a una mia richiesta.” proseguì Caterina, senza fare nemmeno una pausa: “Io ho trascorso la mia infanzia in mezzo ai soldati e sicuramente alcuni di voi avranno memoria di me bambina, nel cortile d'addestramento del palazzo di mio padre. Alcuni di voi mi hanno insegnato a tirare di spada, a montare a cavallo, a giocare ai dadi...” qualche risata interruppe di nuovo il discorso, che riprese poco dopo, con maggiore serietà: “Io sono nata e cresciuta in mezzo a voi, per questo vi chiamo fratelli, per questo so che accetterete la mia richiesta di non saccheggiare la città e di non fare alcun male ai cittadini di Forlì. Lo so, perchè condivido i vostri valori e i vostri principi. Dunque, formate due plotoni di rappresentanza che mi scortino in trionfo in città. Mostratevi al mio fianco ai forlivesi, fate loro capire che siete stati gli artefici della loro liberazione e che non siete una minaccia. In cambio avrete la mia eterna gratitudine e il vostro valore non verrà mai dimenticato. Ancora una volta, grazie, fratelli!”
 Un boato assordante riempì l'aria, mentre i soldati invocavano il nome di Caterina e il motto degli Sforza, battendo con forza le armi contro scudi e corazze, cominciando quasi a litigare per decidere chi avrebbe portato in trionfo la Contessa.
 Giovanni Bentivoglio assisteva attonito alla scena, senza riuscire a capire come potesse essere accaduto un simile miracolo. Non solo i soldati regolari, infatti, ma anche i saccomanni più scalmanati si stavano mettendo in riga, agghindandosi come se dovessero andare a una cerimonia, apparentemente già dimentichi del mancato saccheggio.
 Mentre i soldati semplici erano impegnati nell'organizzare i due plotoni di rappresentanza, Caterina tornò dai comandanti e, prima che qualcuno di loro potesse dire qualcosa, chiese: “Ora che la storia del saccheggio è sistemata, sapete dirmi cosa intende fare mio zio con questi uomini? Per quanto tempo ha ordinato di tenere le truppe di stanziamento in Romagna?”
 Rodolfo Gonzaga si affrettò a dire: “Non ha dato dettami in merito. Ha solo detto di seguire ogni vostro ordine.”
 Caterina annuì, già pensando che avrebbe lasciato una settimana di tempo ai soldati per riposare e che poi avrebbe loro ordinato di tornarsene a Milano e Bologna.

 Andrea Bernardi era in prima fila, quando la Contessa, affiancata da Giovanni Bentivoglio e da Giampietro Bergamino e scortata da due lunghissime colonne di soldati milanesi, rientrò in città trionfante.
 Secondo il Novacula, la signora di Forlì non era mai stata bella come in quella giornata di sole.
 Sgomitando per restare in una posizione privilegiata, la seguì fino a quando arrivò alla rocchetta di Porta Schiavonia, dove ancora stava un uomo fedele a Savelli.
 Ascoltò come tutti la Contessa parlare con quel poveraccio che ancora si ostinava a non lasciare il suo posto solo per paura di una punizione da parte del papa.
 Infine, applaudì come tutti nel momento in cui un prete fedele agli Orcioli convinse il testardo castellano ad interim a cedere la rocchetta, visto che Monsignor Savelli era nelle carceri della rocca di Ravaldino e che il papa di certo non sarebbe stato grato a un incosciente che rischiava la vita per qualche pietra in una città che era già libera.
 Il trionfo era dunque completo e trovò il suo culmine quando Caterina Sforza si recò davanti al Duomo, chiedendo che i prelati responsabili di quella chiesa uscissero immediatamente per ascoltare le sue parole.
 I preti del Duomo arrivarono sul sagrato tutti tremanti e impauriti. Che voleva quella pazza da loro? Erano uomini di Dio, che si erano ben tenuti lontani da tutti o tutto in quei giorni... Che colpe potevano mai avere?
 “Voi!” esclamò Caterina, indicandoli in modo che il pubblico capisse con chi stava parlando: “Voi che tanto vi vantate di celebrare le vostre messe in Duomo! Voi che dite di essere buoni cristiani! Voi non avete accolto le spoglie di mio marito la notte in cui è stato ucciso!”
 Un paio dei preti si buttarono in ginocchio, ritornando con il pensiero a quei terribili minuti in cui loro avevano vietato che il corpo martoriato di Girolamo Riario venisse portato in Duomo, lasciando che fossero i Battuti Neri a occuparsene. Ma che altro avrebbero dovuto fare? In quella notte di inganni pareva che gli Orsi fossero i nuovi signori...!
 “Sappiate che da questo momento in poi – dichiarò Caterina – più nessun membro della mia famiglia varcherà mai più la porta del vostro Duomo!”
 Poi chiese che venissero portati in piazza i rappresentati dei Battuti Neri e a questi promise un ingente donazione e la sua completa e totale riconoscenza.
 Alla fine si portò in San Mercuriale, la chiesa del patrono della città, e, approfittando del fatto che quel giorno ricorreva proprio la festa del Santo, ordinò che venisse subito celebrata una messa solenne in memoria di coloro che erano morti in quei giorni di insensati tumulti.
 Così, per oltre tre ore, potè sedere sulla sua panca e riprendere fiato.

 Quella sera, Caterina cenò a casa dei Numai, famiglia che le si era dichiarata fedelissima, a partire da Luffo Numai.
 Aveva deciso di accettare quell'invito perchè a tavola erano presenti anche i generali delle truppe sforzesche e, pur volendo condividere con loro un pasto al fine di parlare con più tranquillità, non aveva alcuna intenzione di farli entrare, per il momento, nella sua preziosissima rocca.
 Nel corso della cena, Caterina apprese dal Bergamino che l'uomo accettava di buon grado di divenire il nuovo Governatore di Forlì e questo fatto la face sentire molto più tranquilla.
 Con Babone come bargello e il Bergamino come Governatore, i forlivesi o chi per loro ci avrebbero pensato bene, prima di dar vita a nuove congiure.
 “Con tutto il rispetto – disse a un certo punto Giovanni Bentivoglio – dovreste pensare a rendere solido il vostro dominio fin da subito. Vostro figlio, il nuovo Conte, è piccolo, troppo piccolo... Dovreste assicurarvi qualche alleato importante.”
 “Oltre a mio zio, intendete?” chiese Caterina, fingendo di non capire.
 “Qualche alleato più vicino. Questa volta siamo riusciti ad arginare il danno, ma...” disse Bentivoglio, lasciando sfumare la voce.
 “Parlate come qualcuno che ha qualcosa da proporre. Dunque fatelo e non se ne parli più.” si innervosì Caterina che cominciava a essere davvero troppo stanca.
 “Sapete bene che Galeotto Manfredi è spostata con Francesca Bentivoglio e che ha da lei un figlio, di nome Astorre.” cominciò a dire Giovanni, con il tono freddo e distaccato che si addiceva più a una tratta degli schiavi che non a un discorso in cui era coinvolto il sangue del suo sangue: “Dunque vi consiglierei di stipulare al più presto un accordo di matrimonio tra Astorre e vostra figlia.”
 Caterina, che aveva allungato una mano per prendere il calice del vino, si bloccò con il braccio a mezz'aria e guardò Bentivoglio con ostilità: “Mia figlia non ha nemmeno sette anni.”
 Giovanni, appena colpito dalla repentina distanza che Caterina aveva creato tra loro con il suo tono gelido, commentò: “Ebbene, Astorre ne ha compiuti tre in gennaio...”
 Caterina si pentì del suo scivolone. Non voleva urtarsi in alcun modo coi suoi alleati.
 Perciò prese il calice di vino a lo vuotò in un colpo, per poi dire semplicemente: “Appunto. Avremo tempo per parlarne più avanti.”

 Prima di tornare alla rocca, benché fosse già abbastanza tardi, Caterina andò da sola e senza avvertire nessuno, dal capo dei Battuti Neri.
 “Posso vederlo?” chiese, appena entrò nella casa di quell'uomo.
 Non ci fu bisogno di specificare l'oggetto di quella richiesta.
 Il Battuto Nero la portò fino alla loro sede e la scortò fin nei sotterranei, dove conservavano i corpi che ancora non avevano trovato una sepoltura definitiva.
 “Potrebbe non essere piacevole.” l'avvisò.
 Caterina annuì piano e prese la torcia: “Andate pure. Vi chiamo quando sono pronta.”
 Il Battuto Nero, dopo un profondo inchino, risalì le scale, lasciando Caterina sola con il tanfo della morte e l'oscurità di una cantina illuminata solo dalla torcia che teneva in mano.
 Si avvicinò al sarcofago di pietra in cui erano stati adagiati temporaneamente i resti di suo marito. Erano passati giorni e l'aria satura di quel sotterraneo lo diceva chiaramente, sebbene il freddo – tanto intenso da trasformare ogni fiato in una nuvola di condensa – avesse in parte rallentato la putrefazione della carne.
 Caterina tenne la torcia proprio sopra al sarcofago, tentando di non pensare al rivoltando olezzo che ne arrivava.
 All'interno di quel misero recipiente di pietra c'era un cumulo indefinibile di carne, ossa e brandelli di pelle.
 Per un istante interminabile Caterina fu sopraffatta dal senso dell'assurdo. Era davvero quello il corpo di Girolamo? Era davvero quello il corpo che lei tanto aveva detestato? Era davvero quel corpo che aveva cercato continuamente di evitare e di tenere lontano da sé per sedici anni?
 Era davvero quello il corpo dell'uomo che aveva odiato fino a sentirsi morire?
 Quella vista a un certo punto fu troppo.
 Caterina spostò la fonte di luce e si ritrasse, tenendo la mano libera premuta contro il naso, per non respirare più quei mefitici odori.
 Sentendosi ancora quella spaventata e impotente bambina di nove anni che era stata la notte in cui aveva incontrato per la prima volta Girolamo, pensò a tutte le volte in cui ne aveva avuto paura, a tutte le notti in cui alla fine si sottometteva a lui perchè... Perchè ne aveva paura. Perchè per lui aveva sempre nutrito un senso di strana inferiorità, come se per qualche misteriosa legge divina lui potesse farle ogni cosa. Come se lei davvero non potesse evitarlo...
 Poi ripensò alle parole che le aveva detto sua madre Lucrezia, quando erano prigioniere degli Orsi.
 Le aveva ricordato che ormai Girolamo era morto. Che la schiavitù era finita. Finita una volta per tutte.
 Era verissimo. La schiavitù era finita. L'aveva odiato per sedici anni, era il momento di smetterla.
 Quella notte, in quella cantina, davanti al sepolcro in cui giacevano le spoglie marcescenti e sbrindellate di Girolamo Riario, Caterina Sforza giurò a se stessa che non si sarebbe mai più piegata al volere di un uomo.
 Ritrovando le forze, Caterina si avvicinò di nuovo al sarcofago e guardò dentro. Stavolta la vista di quei resti non le suscitò altro se non orrore per quello che un essere umano poteva fare a un altro essere vivente.
 Le venne da sorridere amaramente, ripensando a tutte le volte in cui Girolamo aveva agito in modo scellerato o avventato solo per paura di morire. Aveva passato la sua vita a cercare di non morire. Per poi farsi ammazzare in casa propria.
 Sospirò e, appoggiando una mano al freddo bordo di pietra sussurrò: “Alla fine eri mortale pure tu.”
 Dopo qualche minuto, Caterina chiamò il Battuto Nero, che arrivò immediatamente e l'accompagnò di nuovo fino in strada.
 “Predisponete affinché il corpo di mio marito venga portato a Imola. Lo seppelliremo nel Duomo di quella città.” decretò la Contessa.
 L'uomo annuì, mentre Caterina concludeva: “All'inizio la odiava, ma alla fine era l'unico posto dove si sentiva al sicuro dal mondo...”
 Il Battuto Nero non commentò, salutando la signore di Forlì, che se ne tornò alla sua rocca, dove ormai tutti dormivano da un pezzo e dove solo Tommaso Feo, oltre ai soldati di ronda, vegliava per assicurarsi che la sua signora tornasse sana e salva.

   
 
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