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Autore: Honeymouth    15/05/2016    1 recensioni
Gli incubi hanno trascinato Pitchblack in un oscuro abisso. Il Signore degli Incubi è davvero scomparso per sempre, dilaniato dai suoi sottoposti? Oppure la sua mano aguzza tornerà per gettare nuovo scompiglio nel mondo degli uomini? Piuttosto che preoccuparsi per la salute dell’Uomo Nero, i Guardiani temono un suo ritorno e si preparano al peggio. Che cosa vorrà Pitchblack? Vendetta o risposte a domande che non sapeva nemmeno di avere dentro di sé?
Genere: Avventura, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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«…and everything that’s under the sun is in tune but everything is eclipsed by the moon.»

“Eclipse” dei Pink Floyd, dall’album “Dark side of the Moon”

Il posto era quello, l’atmosfera che gli trasmetteva il paesaggio aveva qualcosa di familiare, ma le case di legno erano scomparse da tempo. Tutto era cambiato: al posto delle vecchie capanne, erano sorte case di mattoni e ordinati tetti di tegole. I lampioni da poco accesi sembravano delle guardie di fronte alla dimora della regina d’Inghilterra, con le loro facce accese e immobili, che tutto osservavano. Le vie erano pulite e ordinate. Ben presto, però, seguendo le tracce, uscirono dalla zona abitata, per avvinarsi alla campagna, alla foresta e al fiume, che scorreva placido, al di là delle abitazioni. Dietro una fila di colline, piuttosto lontano dal centro abitato, c’era l’oceano. La cittadina era piccola e circondata da valli e da colline. «Senti un po’, da quant’è che non ti fai uno shampoo? I tuoi capelli puzzano peggio di un uovo andato a male!» disse Calmoniglio, dopo aver annusato il campione di riferimento. Pitchblack non si scompose. «Disse il coniglio che non si lavava mai i denti» fece lui, con noncuranza. «Quanti ricordi!» esclamò Dentolina, in maniera del tutto inaspettata e a voce molto alta, nel tentativo di interrompere l’inutile schermaglia. «All’epoca, per la scarsità di monete, spesso dovevo arrangiarmi con qualche altro oggettino prezioso…» disse, vagando di qua e di là, osservando il paesaggio che ora cambiava, riempiendosi di grandi alberi, di abeti e querce, con aria allegra, mentre le altre fatine la seguivano cinguettando. Poi allargò gli occhi, e all’improvviso disse, agitandosi e confabulando con le sue assistenti: «Seattle, area nord, settore tredici, Las Vegas, quadrante est, settore dieci…» Pitchblack inarcò un sopracciglio. L’aria da pazza che aveva Dentolina quando dava indicazioni sul recupero dei denti lo lasciava sempre un po’ spiazzato. Calmoniglio, intanto, fiutava in giro, mettendosi in piedi sulle zampe posteriori e correndo in avanti sulle quattro zampe. «Un odore così schifoso lo riconoscerei anche con il raffreddore…» mugugnava, intanto. «Da questa parte!» disse, precipitandosi verso la foresta. Dentolina e Pitchblack lo seguirono attraverso i fitti alberi e il sottobosco ricoperto di arbusti, muschi e foglie marce. In un punto, lo spazio si apriva su una radura. Il cielo grigio lasciava filtrare una luce fioca attraverso i rami spogli, illuminando un recinto di pietre spezzate. Pitchblack si avvicinò al centro del recinto. Quel posto lo angosciava. Calmoniglio si era fermato in un punto dove la terra nera era diventata compatta, ma sulla quale non era cresciuto nemmeno un filo d’erba. «C’è un tanfo tremendo qui. Il posto dev’essere questo.» disse Calmoniglio, senza preoccuparsi di offendere Pitchblack. L’Uomo nero rimosse la terra. Sotto, un teschio con le orbite vuote li fissava. Calmoniglio e Dentolina si ritrassero istintivamente, invece Pitch continuò a togliere quella coperta di humus da quello che restava del suo corpo. Al collo doveva avere avuto una collana di qualche tipo: denti di lupo, ossa e frammenti di pietra dura erano disposti intorno al torace. Pitchblack allungò la mano all’interno della cassa toracica, nel punto in cui una volta c’era stato il cuore. Sul suo palmo ora c’era un dente, diviso in due. Un piccolo pezzetto di metallo che non era ancora stato dissolto dall’ossidazione suggeriva che quel dentino era parte della collana. «Oh!» sussurrò Dentolina. Pitchblack la guardò e lei annuì. L’Uomo nero mise i due pezzi dell’ultimo dente nel contenitore.

Era ancora un ragazzino, e quella era una giornata grigia, di inizio primavera, come tante. L’inverno stava per finire, ma faceva ancora freddo e il clima era uggioso. Una pioggerella sottile gli pizzicava la faccia. Se ne stava nascosto dietro un cespuglio, aspettando che qualcuno si facesse vivo per poterlo spaventare a morte. Sentì dei passi sul sentiero. Si mise la maschera di corteccia, radici e foglie sulla faccia e aspettò. Conosceva la ragazzina. Si chiamava Betty ed era una bella bambina di circa nove anni, dai lunghi e ricci capelli corvini e gli occhi verde chiaro. Non piaceva alle altre ragazzine del villaggio. Betty era strana. Jonah “Pitch” Black la seguì, muovendosi attraverso i cespugli. Lei udì il fruscio e si voltò, cercando di vedere se qualcuno, dietro di sé, la stesse seguendo. Mosse gli occhi in direzione dei cespugli e degli alberi, cercando di individuare un’ombra, un animale, una persona. Si voltò e Pitchblack era di fronte a lei, ricoperto da una maschera spaventosa e con il corpo ricoperto di pelli e pelo. «AAAARGH!» urlò lui. Betty fece un balzo all’indietro quando lo vide e chiuse gli occhi quando urlò. Quando lui ebbe finito il suo numero, Betty aprì un occhio. «AAAAARGH!» ripeté lui, alzando di nuovo le braccia. «Dai, Pitch, smettila, lo so che sei tu!» disse lei, richiudendo gli occhi per la sorpresa, ma con un’espressione rassegnata e riaprendoli subito dopo. La sua espressione placida e tranquilla non lasciava trasparire il minimo sgomento. Jonah abbassò le braccia e poi si tolse la maschera. «Come hai fatto a…» «Ormai ti conosciamo tutti al villaggio. Anche se la maggior parte continua a spaventarsi, se gli fai degli scherzi del genere.» disse lei, con semplicità. «Questo costume è nuovo?» chiese. Jonah la guardò di sbieco, evidentemente deluso. «…Sì.» rispose lui, che per qualche bizzarro motivo non riuscì a trovare un motto sarcastico. «È molto bello.» fece lei. Lui la guardò di rimando, con un’aria cupa, aggrottando le sopracciglia. «Mi prendi in giro?» domandò. «No, niente affatto! Lo credo sul serio.» fece lei, sorridendo, in modo sincero. «Sai, penso che ci voglia una grande abilità… I tuoi scherzi mi piacciono… Soprattutto quando le vittime sono persone che mi stanno antipatiche.» aggiunse lei, con un sorriso, ma anche con un po’ di dolore nella voce. Jonah sorrise di rimando. Era la prima volta che gli capitava di avere una conversazione di quel tipo con qualcuno. Normalmente non riceveva complimenti, né il tono con cui gli si rivolgevano era così gentile. Stava per aggiungere qualcosa, quando sentì dei passi che si avvicinavano a loro. Era un gruppo di ragazzini del villaggio, i più stupidi, prepotenti e cattivi. Facevano combriccola, ma a Pitch non l’avevano più toccato, almeno non fisicamente, da quando li aveva giocati con un tiro mancino leggendario. «Guarda un po’ chi si vede! Betty. Non sapevo che ti piacessero gli sfigati.» dissero, all’indirizzo della ragazzina e adocchiando Pitch. Lui cercò di ribattere, ma Betty lo lasciò a bocca aperta, senza che potesse emettere una sillaba. «Sentite…» iniziò, piccata. Lanciò un’occhiata a Jonah e lui abbassò la testa, deluso e amareggiato, aspettandosi già che la ragazzina negasse di avere niente a che fare con lui. Più di una volta, dei bambini che gli avevano parlato in amicizia, gli avevano voltato le spalle perché era “sconveniente” avere a che fare con lui. «…Che cosa interessa a voi di chi piace a me? Meglio stare con uno sfigato che con degli stupidi.» rispose Betty. Jonah alzò lo sguardo, meravigliato. La ragazzina aveva lo sguardo fermo e determinato, guardava in faccia i ragazzini con aria di sfida, i pugni chiusi, come se avesse intenzione perfino di prenderli a botte, se avessero continuato a offendere lei o il suo amico. «Com’è che ci hai chiamato?» fece il capobanda. «Siete pure sordi? Siete degli stupidi, stupidi, STUPIDI!» gridò lei. «E tu sei solo una femmina!» urlò il ragazzino, dandole una spinta. Betty finì a terra. Jonah non perse tempo: si scagliò sul prepotente, iniziando a tempestarlo di pugni. Era la prima volta che si comportava così, la prima volta che sentiva un leone ruggirgli in petto. Era la prima volta che voltava le spalle alla sua natura codarda per difendere qualcuno. Ben presto, però, gli altri gli andarono addosso. Lo buttarono a terra e venne tempestato da calci e pugni. Mezzo intontito, con un occhio nero, pieno di terra e polvere sul suo costume, Jonah non fece nemmeno uno sforzo per rialzarsi, preferendo fingere di essere già svenuto. Il leader del gruppo gli sputò addosso e poi se ne andò, insieme agli altri. Tutto era avvenuto in fretta, così in fretta che Betty non aveva neanche avuto il tempo di rialzarsi. «JONAH!» chiamò lei, chinandosi su di lui. «Jonah, Jonah, come ti senti?» Jonah alzò la testa. L’occhio si stava gonfiando a vista d’occhio. «Jonah…» mormorò Betty. «…grazie.» disse, evidentemente commossa. Il ragazzo sorrise e si rialzò. «Sono io che ti devo ringraziare.» fece lui. «Per cosa?» chiese lei. «Per non avermi voltato le spalle.» Il viso di Betty si illuminò di un sorriso splendente e gioioso. «Ora devo andare, la nonna mi ha chiesto di darle una mano e mi sta aspettando… Ci vediamo domani?» chiese lei. Jonah annuì. Betty sorrise di nuovo, in modo aperto e sincero e si avviò lungo il sentiero, proseguendo il cammino che Pitch aveva interrotto. Jonah la guardò allontanarsi, i capelli corvini che brillavano e l’orlo della gonna che ondeggiava. Jonah la vide scomparire nella bruma. Si toccò la guancia dolorante. Portò una mano alla bocca e sputò il suo ultimo dente da latte.

Sposò Betty. Betty, figlia di una donna rimasta vedova quando lei aveva otto anni, piano piano aveva perso tutte le sue amiche, su consiglio delle loro madri. Circolavano cattive voci sulla madre di Betty e su di lei. Nessuno avrebbe mai voluto sposarla. Nessuno tranne Jonah. Suo padre morì quando lui aveva tredici anni. Come fosse morto precisamente nessuno lo seppe mai, ma le malelingue dicevano che l’avesse ucciso lui. La verità era un’altra, ma nessuno la scoprì. Con la famiglia liberata dalla cattiva influenza di quel padre cattivo e violento, Jonah poté affrancarsi anche dalla parte peggiore di sé. Lui e Betty ebbero una figlia, una pargoletta dai capelli neri e gli occhi grigio acciaio. La chiamarono Jill. Jonah “Pitch” Black si sentiva felice: una sensazione che per tutta la sua giovinezza gli era totalmente mancata. Nessuno aveva mai creduto in lui e non aveva mai sperimentato un tale senso di appartenenza. L’inadeguatezza era sparita, non si sentiva più un buono a nulla. Alle volte, però, durante la notte, si svegliava con il cuore che gli scoppiava, e aveva paura che se avesse voltato la testa, non avrebbe trovato sua moglie lì, accanto a lui. Aveva paura di perdere Betty e Jill e aveva il terrore che quella felicità che ora provava non sarebbe durata. Certi giorni, si ritrovava a vagare per la foresta, incapace di avere ragione di quel panico che sentiva dentro di sé. Ogni volta che attraversava quei momenti, Betty aveva sempre la cosa giusta da dire. Betty sapeva quello che provava, perché l’aveva sentito e a volte lo sentiva ancora anche lei. Aveva fiducia in suo marito e Jill amava suo padre. Eppure, quasi quelle sensazioni fossero state una premonizione, tutto finì.

Una sera, da dietro le scogliere e le colline che nascondevano il mare, si videro luci fiammeggiare. La notte calò rapida sulla foresta e centinaia di fuochi la incendiarono. Il villaggio era in subbuglio, tutti gli uomini presero le armi e andarono alle colline, per difendere la loro casa dall’invasione. Pitch era tra loro. Nella luce cruda delle torce che venivano lasciate cadere a terra nell’impeto dello scontro, nella confusione di quella lotta durante la quale la foresta iniziò a bruciare, Pitchblack rimase ferito al fianco dal nemico e, accecato dal terrore e cosciente della disfatta, iniziò a correre attraverso la foresta. Il cuore gli martellava in petto e i pezzi della sua collana suonavano, come fossero gli strumenti in una macabra danza di ossa e annunciassero la marcia della fine. Incespicò, cadde, si rialzò. I suoi piedi scivolavano sulle foglie bagnate e sul muschio, sulle lisce radici e sui rami semisepolti. Poi, la sua ansia, se possibile, aumentò. Il respiro gli rimase in gola, soffocandolo. «Papà!» una voce infantile chiamava dall’oscurità e Jonah la riconobbe: era quella di sua figlia Jill. Ricominciò a correre, questa volta dirigendosi verso l’origine del richiamo. «Papà!» Jill continuava a chiamarlo e ogni volta che la sua voce echeggiava attraverso la foresta, Jonah sentiva una pugnalata al cuore. «Jill!» chiamò alla fine, ritrovando finalmente il fiato e sua figlia. «Jill, che ci fai qui?» ansimò, con urgenza. «Ti stavo cercando…» «Vattene. Vattene subito. Qui non è sicuro» «Io non me ne vado senza di te» «VA VIA!» urlò Pitch e la rabbia, la frustrazione e il terrore deformarono il suo volto in una maschera orrenda. Jill trattenne il fiato e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Fece un passo indietro. «VATTENE!» gridò Pitch «O NON RIVEDRAI PIÙ TUA MADRE!». Jill urlò di paura, arretrò, si voltò, cadde e poi si rialzò, iniziando a correre il più velocemente possibile lontano da suo padre, tornando al villaggio. Pitch la guardò correre lontano e mentre la vedeva sparire nelle tenebre, si sentì svuotato e confuso. Nei suoi occhi gli era rimasta impressa la faccia terrorizzata di Jill: un tempo avrebbe gioito nel vedere un volto deformato dalla paura, ma in quel momento quell’espressione lo atterriva e avvertì nel petto una morsa di ferro che gli dilaniava il cuore. Si allontanò il più possibile da quel punto, perdendo sempre più sangue dalla ferita aperta. Cercò di tamponare l’emorragia con una mano. Li sentì avvicinarsi. Poi la vide. La capanna abbandonata, con il tetto squarciato, era lì, di fronte a lui. Sapeva di non poter continuare così, quasi non riusciva più a muovere le gambe. Aggrappandosi alla soglia, lasciando orme di sangue sul legno imputridito si mosse in direzione della camera al piano terra. Lo scheletro di un letto era ancora là in un angolo e si distingueva appena, in quell’oscurità notturna. Pitch si rintanò sotto di esso. Aveva il respiro pesante e la ferita pulsava dolorosamente. Udì passi massicci, fasciati da stivali, che si muovevano là fuori. Nel buco delle finestre sfondate, ombre ricoperte da armature scintillanti scivolavano nella notte. Torce dalle fiamme baluginanti ammiccavano nel buio. Il legno scricchiolò e Pitch il fiato gli rimase intrappolato in gola, soffocandolo. Poi, in lontananza, gli parve di sentire un urlo. Tutto il sangue che gli era rimasto in corpo gli si ghiacciò nelle vene, perché un pensiero gli aveva attraversato la mente: “Jill!” Non si accorse che una figura si era avvicinata al suo nascondiglio. Vide troppo tardi il riverbero letale della punta della lancia. I suoi occhi si riempirono di puro terrore. Il nero della notte, che riempiva i suoi occhi, a quel punto, colmò anche la sua anima. L’arma calò su di lui e gli trapassò il cuore.

«Pitch?» I ricordi erano finiti, ma l’Uomo nero aveva ancora lo sguardo assente. Teneva debolmente in mano il contenitore. «Le… le avevo dimenticate…» sussurrò, tra sé e sé. «Chi?» chiese Calmoniglio. Dentolina gli lanciò un’occhiata significativa e scosse la testa. «Vorrei stare da solo» disse Pitchblack, consegnando il contenitore dei suoi ricordi a Dentolina. Senza aggiungere un’altra parola, se ne andò. La fatina dei denti e il coniglietto di pasqua lo guardarono allontanarsi tra gli alberi secchi e laconici. «Beh, credo… credo che sia meglio tornare al quartier generale…» suggerì Dentolina.

Pitchblack era seduto di fronte allo stagno della sua gioventù. Da ragazzo, andava spesso da quelle parti per pescare rane e pesci. Ricordava che alle volte le canne erano così fitte che si finiva per perdersi e spesso si finiva al centro del laghetto, invece che raggiungere la riva. In quel momento si sentiva così, come quando era bambino: solo, confuso e incerto sulla strada da prendere. “Io… appartenevo a qualcosa… a qualcuno…” Ancora non riusciva a credere di aver avuto anche lui una famiglia. La cosa che più aveva desiderato al mondo, l’aveva avuta e poi l’aveva dimenticata. Tutto il buono che aveva avuto dalla sua vita si era perso la notte in cui era morto e gli erano rimasti soltanto i brutti ricordi. La cosa che più lo faceva stare male era che l’ultima cosa che Jill avesse provato nei suoi confronti fosse stata paura. Dentro di sé, credeva che non avrebbe potuto fare altrimenti. Eppure, pensava anche che se avesse preso un’altra decisione, se fosse stato più coraggioso, magari avrebbe potuto salvarla. Magari avrebbe potuto difenderla. Ora sapeva: oltre a non essere capace di fare altro che spaventare, non aveva salvato nessuno con quello che sapeva fare meglio. Era la solitudine il suo destino. L’ultima cosa che aveva provato prima di morire era stata la disperazione ed era l’unica cosa che era in grado di far provare agli altri, per sentirsi meno vuoto e meno solo. Voleva incutere lo stesso terrore che aveva provato lui, in quella notte tremenda e forse qualcuno avrebbe capito che cosa si prova, avrebbe compreso quale panico ci invade quando guardiamo in faccia la morte. Sapere che cosa aveva passato non lo aiutava, in quel momento. Pensava mancasse ancora qualcosa. Ricordò Joey e come tutto quanto era cominciato. Nella sua mente, il viso di Joey e quello di sua figlia Jill si sovrapposero. “Si somigliano molto” pensò. Si alzò un vento freddo, fastidioso, ma pulito e frizzante. L’Uomo nero alzò lo sguardo. «Pitchblack? Che cosa ci fai qui?» Jack Frost si trovava su un ramo alto, appoggiato mollemente al tronco, ma teneva il bastone nella mano destra, come se cercasse di avere un atteggiamento rilassato, ma al primo movimento brusco potesse ingaggiare una battaglia spietata. Era bastata la sua presenza per far congelare il laghetto, che ora sembrava un gioiello di diamanti: cristalli di ghiaccio avevano creato elaborati e magnifici disegni. Sui tronchi, sui rami e sul terreno, si era formato uno strato di brina scintillante che rendeva tutto bianco, opaco e sontuoso. «Jack Frost, come mai non sono sorpreso?» disse Pitchblack, con un sorrisetto, e allargando le braccia, alzandosi dal masso che gli aveva fatto da seggio e facendo per andarsene. «Ehi, dove stai andando?» fece Jack Frost. «Al mio covo, questo posto è diventato troppo affollato per i miei gusti» replicò l’Uomo nero, allontanandosi, tenendo le braccia dietro la schiena. Jack Frost fece una smorfia, perplessa, curiosa e dubbiosa. «Se sei qui, dev’esserci una ragione» punzecchiò il ragazzo del gelo, quasi urlando, per via del fatto che Pitchblack si era già allontanato parecchio. Nessuna risposta venne dall’Uomo Nero. «Pitchblack!» chiamò Jack Frost. L’Uomo nero sembrò confondersi con gli alberi e svanire. Tutto era silenzio. Jack, con un balzo e impugnando il bastone con entrambe le mani, andò a controllare dietro l’albero: Pitchblack non era lì dietro, né in nessun altro angolo di quel bosco. Se n’era andato.
   
 
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