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Autore: Captain Willard    28/05/2016    2 recensioni
Gabriel Gracelyn ha quarantadue anni e si accontenta di lasciarsi passare la vita accanto: l'amore per la sua fidanzata è ormai appassito, la musica non gli dà più soddisfazioni ed è stanco delle solite facce, della solita ipocrisia, di un'esistenza apatica che lo tiene avvinto.
È quando meno se lo aspetta che le fondamenta delle sue abitudini vengono scosse nel profondo: una ragazza a una festa dove entrambi si sentono estranei, un incontro atteso e inaspettato che lo costringe ad affrontare i fallimenti di una vita piena di successi; occhi verdi come i prati d'Irlanda, a guidarlo verso qualcosa di diverso. Sbagliando e cadendo, ma sempre rialzandosi.
“E pensò che forse si era perso più di quanto voleva credere, in tutti quegli anni.”
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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- hangin' on in quiet desperation -

 



 

 

Alcuni dicono che la musica basti a riempire un'intera esistenza. Gabriel non aveva mai nutrito dubbi al riguardo: il pianoforte era stato il fulcro della sua vita fin dalla più tenera età; vi aveva dedicato anni interi, suonando per ore fino a spellarsi le dita, rinunciando alle uscite con i pochi amici, rifiutando gli inviti, rifuggendo le distrazioni, chino sui tasti fino a crollare addormentato, spaccandosi la testa sui pentagrammi e sulle scale.
Aveva toccato la soglia del successo a soli ventisette anni, iniziando a lavorare nelle orchestre più rinomate, collaborando con artisti di fama mondiale, partecipando a progetti ambiziosi e remunerativi. Gabriel Gracelyn: un nome noto a tutta la gente che contava, negli ambienti più giusti.
 

«È un genio musicale» dicevano di lui alcuni.
«È un fortunato bastardo» mormoravano altri.
Tuttavia, se Gabriel avesse potuto definirsi, ora che aveva ormai superato la soglia dei quarant'anni e aveva un curriculum per cui la gente avrebbe dato l'anima al Diavolo, avrebbe usato solo una parola: stanco.

 

***

 

«Maestro, che piacere vederla!»

«Maestro, che onore ci ha fatto ad accettare il nostro invito!»

Gabriel sorrise benevolo e gettò il cappotto a un cameriere, che si affrettò ad appenderlo nel guardaroba. «Siete voi ad aver onorato me» rispose come si conveniva a Valerio e Giulio, vestiti da domini veneziani uno bianco e l'altro nero. Il musicista si aggiustò le larghe maniche nere della giubba che indossava, decorata con cordini e alamari argentati: un costume raffinato che si era fatto confezionare su misura alla Kingsman1, insieme a pantaloni al ginocchio con intricati ricami argentei di fantasia floreale. Ai piedi calzava degli stivali neri di pelle, con un basso tacco che risuonava sul pavimento d'ebano.

Gabriel si diede un'occhiata intorno, soffermandosi sul mobilio del medesimo legno e sulle pareti tinte di borgogna, a cui erano affissi dipinti astratti e stampe moderne. Il soffitto era a travi, alto e imponente, l'ambiente inframmezzato da un soppalco. I tavolini erano stati uniti per formare un'unica lunga tavolata presso cui sarebbe stato servito il buffet inaugurale, lasciando più spazio al gruppo che avrebbe allietato la serata con musica jazz. Un massiccio bancone stava all'altra estremità della sala, ma per quella sera sarebbe stato servito tutto dai camerieri che scivolavano per la sala con leggiadria, recando vassoi di antipasti e coppe di champagne.
 

«Davvero un lavoro notevole, non c'è che dire» commentò infine il musicista, prendendone una e portandosela alla bocca.
«Se lo gusti, è un Cristal2 del 2004» ridacchiò Valerio. «Comunque sì, non c'è male, considerando che questo posto cadeva a pezzi. Un locale così brutto, in pieno centro a Firenze! Vergognoso.» Fece schioccare la lingua con disapprovazione.

«Ma noi ne abbiamo fatto un vero gioiellino» intervenne Giulio, incrociando le braccia con aria soddisfatta. «D'ora in poi questo sarà il ritrovo della gente che conta davvero.»

«Siamo pochi allora» commentò Gabriel, accennando alla ridotta quantità di ospiti ch'era in sala. Giulio sogghignò. «Abbiamo ricevuto richieste di partecipazione da decine di persone, tutti VIP, ma di quelli da salotto televisivo, personaggi da Isola dei Famosi. Se avessimo fatto entrare tutti quelli che ce l'hanno chiesto, la serata inaugurale sarebbe stata un disastro. Il Gloomy Matters sarà un locale d'alta classe.»

«Non ne dubito» convenne il pianista, sistemandosi meglio la maschera argentea sugli occhi. Avrebbe voluto togliersela, ma così come declinare l'invito all'inaugurazione del locale dei fratelli Lametti, anche quello era un desiderio impossibile. Quei due non gli erano mai piaciuti molto, anche se non erano cattivi diavoli, ma solo due stilisti cresciuti nell'agio a cui i genitori avevano comprato una casa di moda. Cose normali in quell'ambiente. Il problema era che a Gabriel “quell'ambiente” stava stretto da dieci anni e non sapeva come uscirne. Di fare retromarcia dopo tutti i sacrifici fatti non se ne parlava, era arrivato troppo in alto e una caduta ora l'avrebbe ucciso.
 

Si guardò intorno, fece due chiacchiere con qualcuno («Maestro! Maestro, quale onore!»), gente di cui non ricordava il nome e sinceramente non gli interessava nemmeno. Sorrise amaramente pensando che per una volta avevano tutti una maschera tangibile, oltre a quella intrinseca che tutti avevano cresciuta nell'animo come erba gramigna, un'epidemia che contagiava prima o poi chiunque fosse entrato a far parte del famoso “ambiente”. Fare una festa in maschera era stata probabilmente l'idea migliore che Giulio e Valerio avessero mai avuto.
 

Si avvicinò a un tavolo per prendere una seconda coppa di champagne, insieme alla sua anche un'altra mano si allungò sul vassoio: una mano sottile e candida, appena spruzzata di lentiggini, le unghie laccate di nero e al pollice un anello di metallo scuro, semplice e sobrio. Gabriel alzò lo sguardo e i suoi occhi azzurri incrociarono quelli verdi di una donna, o forse una ragazza; la maschera di pizzo nero che indossava rendeva difficile stabilirlo.

Si scambiarono un'occhiata incuriosita, come due animali incerti sulle buone intenzioni dell'altro, poi la sconosciuta prese una coppa e si allontanò in fretta, sparendo su per le scale che recavano al soppalco. Gabriel restò un attimo imbambolato, seguendola con lo sguardo: era vestita in modo curioso, o meglio assolutamente inopportuno per l'evento a cui presenziavano. Le donne più giovani indossavano tutte abiti da sera o jumpsuit di alta sartoria, le più anziane avevano ripiegato su tailleur e gonne al ginocchio; di fatto, tutte eleganti. La sconosciuta invece indossava una semplice camicia bianca arrotolata grossolanamente fino ai gomiti, pantaloni neri aderenti e décolleté del medesimo colore. L'unica cosa vagamente consona alla serata nel suo abbigliamento era un gilet nero di seta che le cingeva la vita morbida. Era un vestiario piuttosto mascolino, ingentilito però da una cascata di morbidi capelli ramati che le scivolavano liberamente fino a metà schiena.

Quando i camerieri iniziarono a servire le portare più consistenti della cena, Gabriel approfittò della distrazione degli ospiti per sgattaiolare a sua volta al piano superiore; non aveva bisogno certo che qualcuno iniziasse a spettegolare, dandogli così l'ennesimo motivo per litigare con Alissa.

 

Eccola lì, la sconosciuta dai capelli rossi. Se ne stava in piedi, appoggiata di schiena contro l'architrave della soglia, faceva roteare lo champagne nel bicchiere e sembrava pensierosa. D'un tratto sospirò e svuotò la coppa in un sorso, ma la riempì subito dopo con una bottiglia che aveva palesemente sottratto da uno dei tavoli al piano inferiore. Gabriel la raggiunse e lei si girò verso di lui, ma non sembrava imbarazzata o sorpresa. Semplicemente lo squadrò dai riccioli corvini alla punta degli stivali, soffermandosi infine sulla coppa già semivuota.

«Ne vuoi?» gli offrì, sventolando la bottiglia. L'uomo scosse la testa e si appoggiò contro l'altro architrave, di fronte a lei. La ragazza fece spallucce e bevve a rapidi sorsi dal proprio bicchiere, per poi riempirlo di nuovo.

Gabriel non riuscì a trattenere la lingua: «Dovresti mangiare qualcosa, altrimenti ti ubriacherai.»

La ragazza si fermò col bicchiere a mezza via, alzò lo sguardo verso l'uomo e sorrise. «E se volessi farlo?»

Per tutta risposta Gabriel vuotò la propria coppa e gliela porse. «Allora siamo in due.»

Lei rise e gliela riempì di nuovo, poi posò la bottiglia ormai vuota su un tavolino al suo fianco.

«Che ci fa qui una come te?»

La ragazza sollevò un sopracciglio, poi abbassò lo sguardo sul proprio abbigliamento e rise: «Oh! Certo, lo so. Sembro una che si è imboscata alla festa, ma in realtà mi hanno obbligato a venire.»

«Tuo marito?»

«Macché, non sono nemmeno fidanzata. Il mio datore di lavoro, è lui che mi ha costretta. È anche un amico di famiglia e dice che devo fare più vita sociale, perché per lui andare al pub non è abbastanza sociale come esperienza. Tu invece sei da solo?»

«No, io... Be', sì, sarei dovuto venire con la mia compagna ma abbiamo discusso. Ultimamente non facciamo altro.»

«Ahia. Brutta storia. Forse dovrei andare a prenderne un'altra» sorrise lei, accennando alla bottiglia vuota. «Anche se ci vorrebbe qualcosa di più forte, un brandy come si deve. Magari un Cardenal Mendoza.»

«Temo che non lo servano.»

«Che festa del cazzo» sbuffò la ragazza, ma era divertita. «Però la musica non è male. Allora, come ti chiami, straniero?»

«Sono Gabriel.»

Si strinsero la mano, lei aveva una stretta piuttosto forte. «Io sono Maebh3

«Certo che hai una presa...» ridacchiò lui. La ragazza gli fece l'occhiolino.

«È per far capire subito che sono io l'alpha. Di dove sei, Gabriel? No, aspetta, fammi indovinare: dall'accento... britannico?»

«Esatto, nato e cresciuto a Londra. Tu invece?»

Stavolta lei rispose in inglese. «Madre italiana e padre irlandese. Io sono nata e cresciuta qui, ma sono bilingue. Tu invece, come sei finito da Londra a Firenze?»

«Un po' il lavoro, un po' la ricerca.»

Tornarono all'italiano. «Ricerca di cosa?»

«Qualcosa di diverso... È un peccato non averti incontrata prima.»

«Perché, qualche rimpianto?» sorrise lei, ammiccando. Gabriel non rispose, continuando a sorseggiare lo champagne. Al piano inferiore, quasi ignorato tra le chiacchiere degli ospiti, troppo presi dalle vivande e dai loro pettegolezzi, il quartetto assunto per allietare la serata attaccò con un brano dal sound più ondeggiante, morbido. Un pezzo d'altri tempi che fece stringere il cuore a Gabriel, le iridi azzurre lucide di commozione mal trattenuta.

 

Hold me close and hold me fast

The magic spell you cast

This is la vie en rose

 

Si girò verso Maebh: teneva una mano in tasca e con l'altra stringeva la coppa di champagne, aveva gli occhi chiusi e ondeggiava impercettibilmente, seguendo la musica. Sembrava persa quanto lui e fu questo a spingerlo a parlare, lo sguardo tuttavia rivolto dall'altra parte per un vago timore di come lei avrebbe reagito.

«Sai, questa è la mia canzone preferita e non l'ho mai detto a nessuno. Forse perché è un po' melensa, forse perché un po' mi vergogno di questo mio lato romantico... Mi fa sembrare vulnerabile.»

Non si accorse che Maebh si era mossa finché non percepì la sua mano posarglisi lieve sulla spalla. Si irrigidì per un attimo, colto di sorpresa, ma lei sorrideva e le lasciò prendere anche il suo bicchiere per posarlo sul tavolino. Tornò poi da lui, di nuovo una mano sulla spalla.

«Balliamo» sussurrò dolcemente. Quasi incredulo, Gabriel le passò un braccio intorno alla vita, giunse l'altra mano alla sua e sentendosi come in un sogno, assecondò dapprima i movimenti appena accennati da lei, poi prese a condurre la danza.

 

When you press me to your heart

I'm in a world apart

A world where roses bloom

 

Quand'era stata l'ultima volta che aveva ballato? Poteva escludere senza dubbio gli ultimi dieci anni, Alissa odiava ballare. Lasciò vagare i pensieri a ritroso a sfiorare le cose passate: memorie di una compagna di conservatorio, sorrisi che lui aveva ignorato, ragazzo già adulto, il cuore troppo duro per lasciarsi andare alla cura d'una distrazione. Scosse impercettibilmente il capo, tornando in sé, stranamente addolcito da quella rimembranza.

In quel soppalco, a metà tra un mondo che voleva dimenticare e un cielo di cui avrebbe voluto ricordare le costellazioni, in quell'abbraccio atteso e inaspettato che sembrava consolarlo di un dolore sopito, Gabriel avrebbe potuto definirsi sereno.

 

When you kiss me heaven sighs

And though I close my eyes

I see la vie en rose

 

Maebh si strinse contro di lui, Gabriel percepì le sue labbra sfiorargli la gola ed ebbe paura: che ci faceva lì, stretto a una sconosciuta, stretto come se il suo corpo fosse stato disegnato per combaciare con quello di lei? La sua vita era costretta dalle abitudini ma reggeva, era una follia quel che stava facendo, era spingere il bicchiere oltre il bordo, infrangere un equilibrio di apatia cristallizzata. Non ne valeva la pena, quegli occhi verdi che si alzarono a scrutarlo non valevano la pena, anche se il suo corpo anelava a quell'abbraccio, a qualcosa di più.

Smise di ondeggiare, voleva stracciare i veli di quello che sembrava un sogno assurdo eppure bramato. Scosse la testa, fece per distogliere lo sguardo da quelle iridi colore del grano acerbo che lo tenevano incatenato. «Forse non dovrei-»

Maebh gli posò un dito sulle labbra prima che potesse finire. «Lascia che sia...»

Un sussurro che spinse Gabriel alla resa e gli fece stringere più vicino Maebh, e pensò che forse si era perso più di quanto voleva credere, in tutti quegli anni. Si era perso il calore d'un corpo morbido e rilassato contro il suo, si era fatto sfuggire il lieve solleticare d'un bacio nell'incavo della spalla, quella stretta al ventre che gli suggeriva di stringere, toccare, inebriarsi della pelle candida e dei capelli scarlatti della ragazza che ora lo guardava, sirena dolce e intossicante.
 

«Gabriel...» lasciò in sospeso lei, l'uomo non rispose: non servivano altre parole. Fu quasi timido nel chinarsi su di lei, affondandole una mano tra i capelli setosi a carezzarle la nuca; Maebh si sporse a sfiorargli le labbra con le proprie e Gabriel si abbandonò a quel bacio, schiuse la bocca ad accogliere la lingua calda della ragazza e chiuse gli occhi. Si sentì ebbro d'una gioia quieta e sconosciuta, ubriaco di una bocca che lo fece sentire sazio per la prima volta in vita sua, placando quella sete che mai l'aveva abbandonato...
 

Fu quando si separarono per riprendere fiato che la realtà gli crollò addosso: che stava facendo?! Come gli era saltato in mente, si era bevuto il cervello? Dio... baciare una sconosciuta, rischiando di essere visto da qualcuno degli ospiti. Baciare una sconosciuta, lui che era fidanzato da dieci anni e non aveva mai tradito neanche col pensiero! Folle, folle... Folle!
Afferrò Maebh per le spalle, distanziandola. «Devo andare. Mi dispiace, non avrei dovuto farlo, io...»

Non terminò la frase, preferì fuggire da quello sguardo e quelle labbra che lo richiamavano tentatrici, si lanciò giù per le scale come se mille demoni lo stessero inseguendo. Raccattò il suo cappotto ignorando le vaghe proteste dei fratelli Lametti e scappò fuori nella salvifica aria settembrina, correndo fino alla macchina. Non si voltò indietro, nel cuore la paura che se l'avesse fatto, sarebbe tornato indietro.

 

«Maebh! Sei qui sopra?» chiamò un uomo sulla cinquantina, salendo faticosamente le scale con l'ausilio di un elegante bastone dal manico intarsiato d'argento. La ragazza gli sorrise, andandogli incontro.

«Scusa Cesare, volevo restare un attimo da sola.»

L'uomo sospirò e le porse il braccio, insieme ridiscesero con calma. «Suvvia, vieni a mangiare qualcosa e fai uno sforzo, non hai parlato con nessuno.»

«Ho salutato i tuoi cugini.»

«Capirai, ci mancherebbe che non salutassi Giulio e Valerio, sono loro che ci hanno invitato. Io parlo degli altri!»

«Ho parlato con uno.»

«E chi era?»

«Non lo so» svicolò Maebh, sorridendo tra sé. «Ma era interessante.»

 

***

 

 

1) Piccola citazione all'omonimo film con Colin Firth, in cui la Kingsman è sia una sartoria di lusso che un'agenzia di servizi segreti.

2) Lo champagne dei ricconi esibizionisti, notoriamente.

3) Nome irlandese, significa “colei che reca immensa gioia” o anche “colei che intossica” [pronuncia may-ve]


 

  
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