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Autore: Captain Willard    30/05/2016    1 recensioni
Gabriel Gracelyn ha quarantadue anni e si accontenta di lasciarsi passare la vita accanto: l'amore per la sua fidanzata è ormai appassito, la musica non gli dà più soddisfazioni ed è stanco delle solite facce, della solita ipocrisia, di un'esistenza apatica che lo tiene avvinto.
È quando meno se lo aspetta che le fondamenta delle sue abitudini vengono scosse nel profondo: una ragazza a una festa dove entrambi si sentono estranei, un incontro atteso e inaspettato che lo costringe ad affrontare i fallimenti di una vita piena di successi; occhi verdi come i prati d'Irlanda, a guidarlo verso qualcosa di diverso. Sbagliando e cadendo, ma sempre rialzandosi.
“E pensò che forse si era perso più di quanto voleva credere, in tutti quegli anni.”
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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- we are simple selfish beings -

 

 

 

 

 

 

«Com'è andata la festa?» chiese distrattamente Alissa, seduta al tavolino da toeletta. Gabriel non le rispose e si sedette sul letto per slacciarsi comodamente le scarpe. Passò poi alla camicia, imprecando sottovoce contro i bottoni e mentalmente contro Alissa. Con la coda dell'occhio la vide prendere dal portagioielli degli orecchini di brillanti e accostarseli ai lobi, fare una smorfia e rimetterli a posto, passare a un altro paio meglio abbinato all'abito color avorio.

C'erano questi momenti in cui si trovava a odiarla: quella noncuranza lo mandava in bestia, la finta indifferenza con cui lei gli si rivolgeva, come a un coinquilino piuttosto che il compagno di anni. Perché doveva sempre fare finta che andasse tutto bene? Perché si ostinava a tenere i paraocchi, convincersi che quei pochi giorni che riuscivano a vedersi non fossero trascorsi litigando? Perché ci teneva tanto a tenere in piedi un castello di carte?

 

Si alzò di scatto e spalancò l'armadio con gesto brusco, esaminando con lo sguardo i vestiti. Tirò giù dei pantaloni di cotone consunti e una t-shirt, voleva stare comodo.

«Ti è piaciuto il locale? Oggi sul giornale non parlavano d'altro.»

Gabriel emise una risatina secca, acida. «Giornale? Pensavo leggessi solo le riviste di moda.»

«Io ci lavoro, sulle passerelle. Leggerne è parte del mestiere.»

«Seh, certo» tagliò corto l'uomo, passandosi una mano tra i ricci neri e rendendoli ancora più indemoniati. Si chinò sul tavolino, accanto ad Alissa: osservò il proprio riflesso, le occhiaie, le rughe. Si sentì di colpo vecchio, svuotato d'ogni voglia. La donna si irrigidì appena a trovarselo così vicino senza preavviso, ma cercò il suo sguardo nello specchio. Lui evitò il suo accuratamente e si raddrizzò.

«Gabriel... Stasera potresti venire con me a teatro. Simone e Lucia non avrebbero problemi a trovarti un posto.» offrì Alissa, raccogliendosi i capelli biondi in uno chignon, solo poche ciocche lisce a ricaderle intorno all'ovale candido del viso.

«A sentire quei raccomandati dei loro figli starnazzare come cornacchie nel coro? No grazie, preferisco lavorare.»

Le labbra le si assottigliarono fin quasi a sparire per la rabbia repressa. «Sei stato tutto il giorno allo studio di registrazione.»

Gabriel si stava quasi divertendo. Gli piaceva vedere Alissa incazzarsi, sperava sempre che a un certo punto tutta la sua rabbia sarebbe esplosa, dando il via libera anche alla propria. Sapeva d'essere un vigliacco, a dare a lei il carico instabile d'un eventuale primo passo, ma non gliene poteva importare di meno. In quegli anni si era inaridito, si era fatto egoista. Forse erano davvero fatti l'uno per l'altra.

«Sì, be', devo lavorare.»

Senza attendere risposta uscì dalla camera per andare nella stanza della musica, al piano superiore. Alissa lo sentì chiudere la porta, i suoi passi risuonare fino al pianoforte. Gli occhi presero a pizzicarle ma trattenne le lacrime, concentrandosi sul proprio riflesso mentre applicava con cura il mascara. Si passò il rossetto sulle labbra, un tenue rosa chiaro per non appesantire troppo il viso, avendo già esaltato gli occhi nocciola con un ombretto bronzeo.

Sorrise al suo riflesso come sorrideva alle telecamere e in passerella, algida come una dea dei ghiacci, magnifica. Per un attimo si sentì una regina, poi il vago buonumore le appassì sulle labbra con le prime note che risuonarono dal piano superiore.

Si alzò, controllò meticolosamente che l'abito non avesse pieghe e indossò la giacca. Era impeccabile come sempre.

Prese la borsa e le chiavi, fece per uscire ma un violento flusso di note la trattenne. Salì al piano di sopra, aprì la porta lentamente, senza bussare: Gabriel sedeva al centro della stanza, chino sul pianoforte, sembrava che volesse quasi prendere a martellate i tasti. Stava lavorando a un nuovo disco e una parola di troppo bastava a farlo scattare e fuggire, rinchiudersi in quella sua torre d'avorio, tra pile di vinili, dischi, libri di musica, spartiti, libretti d'opera, premi lasciati a prendere la polvere e quel pianoforte... quel maledetto pianoforte.

Anno dopo anno le portava via Gabriel un pezzo alla volta, come un'amante contro cui lei non poteva nulla. Avrebbe voluto scuotere l'uomo che le dava le spalle, prenderlo a schiaffi, bruciare quel dannato strumento, essere la regina del suo uomo, essere il suo centro, stracciare gli spartiti e fare della camera della musica la camera di un figlio.

Scosse appena la testa: non era stata educata ad assecondare gli impulsi, non avrebbe cominciato certo a farlo ora. Non poteva permetterselo, non voleva che nessuno sapesse. E pure...

 

«Io sto facendo uno sforzo, Gabriel.»

L'uomo sussultò ma non si voltò a guardarla. Sembrò semmai curvarsi ancora di più sui tasti, pigiandone alcuni a caso, note stonate per una relazione stonata.

«Ho detto-»

«Ti ho sentito la prima volta» la interruppe di netto. Alissa deglutì l'indignazione e impose alterigia al proprio tono.

«E non hai niente da dire?»

«No.»

«Ci vediamo già poco, almeno quando sono qui potresti evitare di stare sempre incollato a quell'affare.»

Gabriel batté una mano sulla tastiera e i suoni cupi che ne ebbe fecero trasalire Alissa.

«Quell'affare, come lo chiami tu,» sibilò furioso l'uomo. «è l'unica cosa che mi permette di sopportare le tue continue lamentele senza dare di matto.»

«Le mie lamentele hanno ragione d'essere. Non mi dici mai niente, non vuoi mai uscire con me, per non parlare del sesso.»

«E ti sei mai chiesta perché?!» ribatté violento lui, alzando la voce. «Tu badi solo alle apparenze, vuoi che tutti pensino che siamo la coppia perfetta e non lo siamo! Oh, e per quanto riguarda il sesso, se non ti sfioro neanche è perché tu, principessa, sei ghiacciata fin nell'animo. Neanche il più disperato ubriacone potrebbe eccitarsi con te!»

Non vi furono risposte: Alissa uscì a testa alta, lasciandolo solo. L'unico gesto di rabbia che si permise fu sbattere la porta di casa con un tonfo che fece stringere i denti a Gabriel. Regolarizzò il respiro, cercando di recuperare la calma e la concentrazione per dedicarsi al nuovo brano su cui stava lavorando. Posò le dita sulla tastiera, riprese da dove era arrivato e si lasciò andare alla musica, come faceva sempre: le note fluivano nella sua testa e lui dava loro realtà attraverso le mani, che volavano sulla tastiera. Era come il capitano d'una nave senza equipaggio, senza mappe né bussole, a seguire una leggenda: lui sondava il proprio animo, cercando un'armonia, senza forzature, senza fretta, come una sirena a cui prima o poi sarebbe arrivato, affidandosi solo al vento.

Ma stavolta... si fermò a meta di una scala, le mani sospese a mezz'aria sui tasti. Le note si erano fatte rabbiose, cattive, sbagliate. Punto morto. Sospirò e abbassò il coperchio del pianoforte, sapendo che era inutile insistere. Era da due settimane che andava avanti così, i pezzi su cui stava lavorando non lo convincevano, le registrazioni erano in stallo. Due settimane da quando era stato alla festa.

Gemette frustrato e si prese la testa tra le mani, cercando di quietare i pensieri e soprattutto non soffermarsi sul ricordo di occhi del verde più pazzesco che avesse mai visto. Capelli rossi di sirena in cui annegare le ballate, bocca di languida amante, pelle candida e lentigginosa da scoprire lembo a lembo... Oh, dio.

Si tirò su di colpo rischiando di far cadere lo sgabello, passò in camera a infilarsi una felpa, cacciò in tasca portafogli e chiavi e uscì di gran carriera, ansioso di prendere un po' d'aria e fare due passi.

 

Un campanile da qualche parte batteva le sei del pomeriggio quando Piazza della Signoria accolse il pianista, splendida come sempre nei bagliori aranciati del crepuscolo, ma Gabriel aveva smesso da anni di commuoversi davanti a quella visione. Si sentì piccolo e meschino in quello spazio aperto, infastidito dai turisti e da alcuni ammiratori che già davano segno d'averlo riconosciuto. Si tirò su il cappuccio della felpa e si incamminò tra la gente, i polmoni stretti dall'esasperazione. Aveva bisogno di un posto dove stare tranquillo, distrarsi, riposare il corpo e l'anima dal respiro collettivo della città.

Era ormai arrivato a Ponte Vecchio quando la sua camminata furiosa fu interrotta di colpo da una donna, che gli tagliò la strada con un passeggino evitando per un pelo di passargli sui piedi. Gabriel trattenne un insulto ma quel piccolo arresto gli fu benefico: lo sguardo gli cadde alla sua sinistra, dove in una vetrina stavano dei libri in bella mostra. Si avvicinò, gli erano sempre piaciute le librerie e provò una fitta di malinconia pensando che erano anni che non vi metteva piede. Diede un'occhiata ai libri esposti in vetrina: principalmente romanzi e saggi d'autore, ma anche libri di fotografia, di musica, d'arte, e poi anche quella specie di manuali che ultimamente spopolavano parecchio: Come ravvivare la vita di coppia, I segreti di un blog di successo, Come essere felici in 10 passi e via dicendo. L'ultimo titolo in particolare lo incuriosì, in un modo un po' vergognoso e scettico ma abbastanza disperato da spingerlo ad entrare. Scovò lo scaffale dove tenevano quel genere di libri e pescò il volume che lo interessava, pensando che forse non era una coincidenza aver visto quel titolo proprio in un tale periodo, ma dopo aver letto il primo paragrafo non si trattenne e gli scappò a mezza voce: «che cazzata!»

«Purtroppo vendono parecchio» commentò allegramente una ragazza alle sue spalle.

A Gabriel quasi cadde il libro di mano dalla sorpresa. Questa voce, pensò sbiancando. Si girò con cautela, credendo quasi d'essersela immaginata ma eccola: era più bassa di quanto ricordava, stavolta senza tacchi. I capelli rossi raccolti in una grossa treccia, grossi occhiali tondi dalla montatura di plastica turchese sopra il naso piccolo e un po' storto che non aveva avuto modo di vedere alla festa, nascosto dalla maschera e forse fratturato anni prima; una cicatrice biancastra su uno zigomo a tagliare la spruzzata di lentiggini, bocca carnosa, un viso non davvero bello ma grazioso. Era struccata e a vederla così, in jeans, felpa e converse, Gabriel si rese conto che era ancora più giovane di quanto aveva creduto alla festa, forse diciotto, diciassette anni persino.

Lei sgranò appena gli occhi e sembrò averlo riconosciuto perché sorrise, un paio di deliziose fossette che Gabriel ricordava benissimo le comparvero agli angoli della bocca. L'uomo posò a tentoni il libro dietro di sé e fece un passo avanti, ricambiando istintivamente il sorriso. «Maebh...?»

«Gabriel! Sei proprio tu allora! Che caso, eh? Che ci fai qui?»

«Cercavo un libro che potesse convincermi a non impiccarmi con le corde del pianoforte. Tu invece?» rispose lui, ridendo ma non troppo.

«Io ci lavoro qui! Ho giusto finito di sistemare dei nuovi arrivi. Quindi tu suoni il piano? Fighissimo! E da quanto lo suoni? Vieni, ho il libro perfetto per te!»

Senza neanche attendere risposta, Maebh lo prese per una mano e lo trascinò su per una stretta scalinata fino al piano superiore. Gabriel fece per balbettare qualcosa ma sorrideva, la libreria era un tripudio di colori, stampe, strani grappoli di cristalli appesi ai soffitti, tanti profumi di carte diverse e lei era... pazza. Un piccolo terremoto che lo faceva sentire leggero e pulito, sanato dai malesseri e dalle malinconie, e una sensazione di vuoto gli strinse lo stomaco quando la ragazza gli lasciò la mano per mettersi a spulciare uno scaffale straripante.

«Lo suono da che ho memoria, è il mio mestiere.»

«Vuoi dire che fai dischi, concerti, eccetera?»

Gabriel annuì, radunando tutta la sua forza di volontà per evitare di guardarle il fondoschiena quando lei si chinò per guardare in fondo allo scaffale.

«Sai, mio padre era violinista, magari- oh, trovato! Ecco a te.» Gli saltellò accanto e gli porse un volume non molto grosso ma pesante, dalla carta spessa e una copertina blu che rimandava a rilegature d'altri tempi. Una donna dai capelli rossi svettava al centro, lo sguardo perso in direzione d'una nave all'orizzonte, un quadro melanconico racchiuso in una ghirlanda bianca con un motivo di conchiglie.

«Il porto proibito» lesse Gabriel, sfogliandolo con delicatezza, soffermandosi con lo sguardo sui morbidi disegni a matita. «Ma è un fumetto.»

«Preferirei definirlo romanzo illustrato, in questo caso. Fidati, non ha nulla da invidiare a un Gaiman o un Salgari.»

«Parla d'amore?»

«Anche.»

«È un amore felice?»

«L'amore non è facile e non è sempre felice, ma quello che viene narrato qui è sicuramente un amore che vale la pena d'essere vissuto.»

«È da tanto che non leggo un libro come si deve. Dedico quasi tutto il mio tempo al lavoro, poi la sera ordino qualcosa da mangiare, mi butto sul divano e guardo la tv» spiegò con una certa vergogna l'uomo, carezzando la copertina.

«Allora sei un cinefilo?»

«No, di solito guardo programmi idioti fino a collassare per il sonno.»

«Non ti annoi?» gli chiese Maebh, sinceramente stupita.

«Be', sì, ma sai come si dice, le vecchie abitudini sono dure a morire.»

«E allora che ci fai qui? Non dovresti stare lavorando?» lo canzonò lei, dandogli una gomitata amichevole.

«Posso permettermi una giornata di pausa.»

«Dovesti passarla con la tua fidanzata.»

«È andata a teatro, e domattina partirà quindi non la vedrò per un paio di giorni.»

«Lavoro?»

«Sì, va a Milano per una sfilata.»

«Oddio, è una modella! Come si chiama? Magari l'ho vista in tv!»

Gabriel rise davanti al suo entusiasmo genuino, scevro di qualunque invidia o malignità. «Alissa Calvo.»

«...Oh.» L'entusiasmo della ragazza si spense rapido.

«Non ti piace, eh?» sogghignò l'altro, incrociando le braccia.

«No! Lei è bellissima, davvero, è solo che il suo...» Maebh abbassò la voce fino a sussurrare. «Seno

«Rifatto.»

«Ah, allora non avevo visto male.»

«Meglio non parlare del seno della mia compagna, è imbarazzante e ammazza la conversazione.»

Maebh rise di gusto, aggiustandosi gli occhiali che le erano scesi. Gabriel inclinò appena il capo, studiando i suoi lineamenti. «Che hai fatto alla guancia?»

Lei arrossì e distolse lo sguardo, spostando il peso da un piede all'altro, chiaramente a disagio. «Un incidente, quando avevo diciassette anni.»

«Adesso invece ne hai...?» le chiese lui, cambiando argomento.

«Ventuno. Tu invece? Alla festa non abbiamo parlato molto» sogghignò la ragazza, di nuovo di buonumore.

«Giusto il doppio. Ti avrei fatto più giovane.»

«È reciproco. Allora, lo prendi?» sorrise, indicando il libro che Gabriel stringeva al petto.

«Oh, sì. Mi hai convinto. Anzi, forse è meglio che paghi e vada, sicuramente hai da fare...»

«Purtroppo ho ancora parecchio da fare, sì.»

Maebh lo precedette al piano inferiore, conducendolo alla cassa; al momento di prendere la busta col proprio acquisto tuttavia Gabriel esitò. «Stasera a che ora stacchi?»

La rossa sospirò e gli sorrise benevola. «No, Gabriel.»

«No nel senso che resti a dormire qui?»

«No che... no. Non esco con quelli fidanzati.»

«Ma quella sera mi hai baciato, pur sapendo che ero impegnato...» protestò debolmente lui, confuso.

«Era diverso! Era solo un bacio, non pensavo che ti avrei più rivisto. Ma frequentare un uomo impegnato? È diverso, non fa per me.»

«...Neanche come amici?» tentò Gabriel, esibendo il sorriso più accattivante del repertorio.

Maebh alzò un sopracciglio. «Sei serio?»

«Oh, e dai! Che male ci sarebbe?»

La ragazza fece per replicare, poi rise tra sé e scosse la testa. «E va bene» concesse. «Ma solo come amici. Prova a toccarmi il culo e non potrai più suonare per una settimana.»

Gabriel avrebbe saltato dalla felicità, invece si accontentò di schioccarle un rapido bacio sulla guancia che la fece ridere di gusto. «Allora per stasera?»

«Alle otto ci vediamo qua fuori, non farmi aspettare. Andiamo a mangiare in un posto serio, nessun ristorantino snob dove ti portano spuma di acciughe a venticinque euro.»

«Conosco solo quel tipo di ristoranti, al massimo ho il numero della pizzeria dove ordino sempre.»

«Va bene, ci penso io a fare da GPS stasera. Ora devo lavorare, quindi ti saluto. A stasera» lo salutò lei velocemente, fuggendo al piano di sopra. Gabriel la seguì con lo sguardo finché non fu sparita; per un attimo ebbe la tentazione di salire e baciarla ma una vibrazione in tasca lo fece trasalire. Prese il telefono e lesse il nome sul display: Alissa lo stava chiamando.

«Non stasera. Non ora che sto bene» sussurrò, rivolto più a se stesso che alla compagna. Spense il cellulare e uscì fuori, inspirando con gratitudine l'aria mite. Gli parve stranamente dolce la compagnia della folla allora, sorrise a due turiste inglesi che gli chiesero l'autografo e comprò un mazzolino di fresie da un venditore ambulante, augurandogli una buona serata e lasciandogli un generoso resto.

Mentre tornava a casa con calma, il profumo dei fiori a carezzarlo e il peso del libro ad alleggerirgli il petto, Gabriel preferì non cercare di dare un nome a quel che si sentiva crescere nell'anima. Sapeva solo che era come essere tornati a galla dopo l'apnea d'una vita, e tanto gli bastava per non voler mollare più la presa.

 

 

***


 

  
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