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Autore: Gaia Bessie    01/06/2016    1 recensioni
Fin dalla Creazione sono esistite due città: la città di Dio e la città Terrena, unite come solo due città gemelle potrebbero essere, che mai sono state viste disgiunte, maturate nel libero arbitrio, che porta a scegliere di procedere verso l'una o l'altra: questa è la storia del viandante e della sua ombra.
[I: Il giorno di dolore che uno ha - Scott/Dawn]
«E cosa avrà ottenuto, così?» osservò lei. «Non le ridarà indietro il suo braccio, servirà solamente a farla arrabbiare ancora di più».
«Tu ti senti così? Arrabbiata?» domandò lui, carezzandole il capo.
«La maggior parte delle volte, credo che la mia aura sia fatta solo di quello, di rabbia».
[ScottxDawn, NoahxIzzy, DuncanxCourtney, SierraxCody, AlejandroxHeather; Accenni a ScottxCourtney, EzekielxOC e AlejandroxOC | Mini-long di otto capitoli]
Genere: Angst, Introspettivo, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Coppie: Alejandro/Heather, Cody/Sierra, Duncan/Courtney
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale
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Il viandante, la sera del primo giorno di cammino verso la città doppia, si fermò sotto un vecchio salice, le fronde che lo sfioravano come dita carezzevoli, e consumò il proprio pasto.
L’ombra, stesa al suo fianco e allusiva come una bella prostituta scarlatta, sorrise e parlò.
«Il primo giorno della creazione, Dio parlò» spiegò, mentre un fascio di luce lunare illuminava il sentiero. «Chiamò a sé la luce, e quindi il tempo, che subito cominciò a scorrere».
L’ombra rise, amaramente, sotto lo sguardo esterrefatto del viandante.
Lei lo accarezzò, ma essendo un’ombra le sue mani l’attraversavano solamente, provocandogli un brivido.
«Dio è muto» rise. «E sordo, e anche cieco: la sua città pullula di nefandezze e lui non riesce nemmeno a sfiorarla con un dito. Forse perché non può. E, il logos, non gli serve proprio a nulla».
Il viandante guardò il cielo, e gli sembrò di non vedere più alcuna luce.


 
 
La luna bussa alla finestra: quello è il segnale.
Si scatena un inferno di suoni, nella camera da letto, un inferno gelido di condizionatore e appannato di quel fiato che si condensava, per divenire vapore, dalla bocca leggermente aperta di Courtney, che si è avvolta nel lenzuolo, per preservarsi da quell’aria pungente, come se la sua pelle potesse sgretolarsi a contatto con le brezze notturne.
Scott si alza, in punta di piedi, cercando di non far scricchiolare la mattonella ballerina, a tre passi dalla sua parte di letto. Sono due mesi che dice che la farà riparare, o se ne occuperà lui stesso, ma ancora non ha provveduto a ricomporre quella mattonella crepata e scheggiata, barcollante nei confini dettati dalle sue sorelle.
Un po’ come non si è mai curato di ricomporre i frammenti vetrificati del suo matrimonio, che piano piano è appassito come un fiore in un vaso, finché non c’è più stato nulla da salvare: solamente un ammasso informe di cocci senza senso, che nemmeno riuscivano a incastrarsi fra di loro. Così Courtney, che alla fine è diventata un brillante avvocato con poco successo, ha una valigia piena di documenti abbandonata sul divano del salotto, sopra una vecchia trapunta patchwork condita alle tarme, che straborda di documenti e fotocopie. Fra questi, Scott ne è sicuro di una sicurezza che lo terrorizza, spillato e nascosto in una carpetta siglata, ci sarà il documento del loro divorzio, una vaga idea che fermenta fra altre storie naufragate, e che nessuno dei due si decide a firmare.
Courtney, che è di una precisione disarmante, avrà stillato un elenco della roba che hanno da dividersi, che comprenderebbe i loro figli se solamente ne avessero avuti, quasi equamente. Il che, tutto sommato, è quanto di meglio Scott potesse auspicare, con una moglie del genere.
L’orologio segna l’una: è ora di andare. La giacca nera, pelle invecchiata dal tempo e non da un estroso stilista con i capelli cotonati, cerca di non frusciare troppo sulle spalle del suo proprietario. Courtney si agita nel sonno, e ha la faccia impiastrata di uno strano intruglio che le ha promesso miracoli e un ritorno alla pelle dei suoi sedici anni.
La luce sfarfalla nel corridoio del condominio, quando Scott chiude la porta, che cigola come un lamento funereo.
Ma a Scott non importa.
 
 
***
 
Dawn si è addormentata sul divano, che di notte diventa il suo letto, con la tv che ronza sulla National Geographic e la porta semichiusa. Si è addormentata con una vecchia canottiera troppo larga, così che le scopre una porzione generosa di petto e pelle d’oca, con i capelli pinzati in uno chignon schiacciato dal cuscino. L’orologio, seduto sulla poltrona perché il muro deve rimanere intonso, la guarda e brilla di luce riflessa, dalla finestra che fa da porta per una luna troppo luminosa, che evidenzia il bagliore latteo delle lancette. L’una e mezza, un ticchettio irritante, che segue la cadenza cantilenante del documentario, quando saltuariamente Dawn è costretta a svegliarsi. Scott entra in punta di piedi, con una delicatezza che fa quasi ridere, e maledicendo il giorno in cui Dio chiamò il nome del tempo, rendendolo reale, quando si accorge che Dawn si è già addormentata, tutta rannicchiata su quel divano scricchiolante.
Ha lasciato un biglietto ripiegato accanto all’orologio, l’orologio arancione fluo di cui ancora Scott si affanna a capire il senso, che comunque lui non aprirà, come sempre. Gli viene il dubbio, saltuariamente, che Dawn pieghi un semplice foglio bianco, magari sempre lo stesso, poiché è perfettamente consapevole che con lui ogni lettera è uno spreco. In ogni caso, non leggerà mai i suoi bigliettini, la buona notte incastrata in un quadratino di carta riciclata.
Scott sospira, sedendosi sull’orologio e maledicendo silenziosamente quell’indegno aggeggio misuratempo, i piedi penzoloni sul bracciolo verde acido: l’aveva voluta a tutti i costi, Dawn, quella poltrona. Perché nessuno si sarebbe mai sognato di volere una poltrona verde acido in salotto, e a lei piaceva l’idea di accogliere in quel buco di appartamento qualcosa che nessuno aveva voluto.
Come Scott, che scrostava pezzi di colazione dalla canottiera, aspettando che venisse la luce per poterla svegliare e dirle che era di nuovo ora. Ora di alzarsi e vestirsi, lavare i capelli e appuntarli dietro il capo, di levar via un residuo di trucco di giorni prima: Dio non fa sconti, se non lo si compiace nelle piccole cose. E Scott, che ha imparato le preghiere sulle ginocchia di sua madre e si è spellato le ginocchia sulle panche della chiesa del paese, si ritrova ad aiutarla ogni mattina a gettar via i postumi della nottata precedente per ritrovare quel minimo di contegno che le serve per rimanere salda sulle sue gambe.
Chissà per cosa prega, Dawn, quando oscilla sulle ginocchia davanti al crocifisso e sembra quasi una barca in procinto di affondare, chissà per chi prega quando la vede piangere e deve convincersi che sia solamente l’ennesimo gioco di luci. Scott, dal canto suo, deve pregare per un matrimonio in cui nessuno crede più, e in un finché morte non ci separi che sembra esser procrastinato alle calende greche, nella borsa di Courtney in duplice copia, ma senza la firma di una moglie incerta.
Deve pregare per un Dio in cui non crede, o che crede esser sordo o muto o cieco o semplicemente crudele, per lasciare allo sbando un’umanità intera. E guarda Dawn, che si è addormentata con una striscia di lacrime asciugate sul viso, davanti alla televisione accesa, senza potere uscire, non senza di lui. Qualche volta, quando è troppo annebbiato da fumi di nottate che svaniscono in volute di vapore acqueo, gli viene il dubbio che quello non sia altro che uno stupido scherzo di Dio o del destino, il giorno in cui creò la luce e il suo contrario, e chiamò tempo quel che non passava mai.
Prese una fiammella, un fuoco fatuo che infesta i cimiteri, e ne creò un raggio di luna, una scia lattiginosa che avrebbe portato insonnia a un malpelo con il giubbotto consumato e un divorzio rimandato fino all’inverosimile.
Scott, con il viso sconvolto dalle occhiaie, non riesce a smettere di guardarla, tutta nascosta nel divano, come se cercasse di fondersi con esso per non doverne uscire mai più. La canottiera, troppo abbondante sul petto, aveva scoperto un brandello di reggipetto lilla chiaro, che sembrava quasi un altro livido su quel corpo etereo, da ninfetta dei boschi. Ha un modo strano di tremare, Dawn, quando sogna, e sogna i mostri, così che lui è sempre tentato di svegliarla per dirle che non è reale.
Ma, se avesse il coraggio di muovere una mano e sfiorare quella canottiera, di cui sarebbe anche il legittimo proprietario, scoprirebbe una porzione di carne mutilata. E, allora, capirebbe che non è un incubo o una porzione di realtà distorta dal sogno.
Scoprirebbe che non sarebbe in grado di consolarla perché, alla fine, è tutto vero.
 
 
***
 
La chiesa, di lunedì mattina, è sempre vuota: risuonano canti fantasmi in ogni panca, in ogni angolo, con padre Gabriel che legge il Vangelo con voce monotona, che farebbe addormentare chiunque. Ma non lei. Scott la osserva sempre, sulla soglia della chiesa di quel Dio in cui non crede più, a vederla pregare per un miracolo che non arriverà: è routine, questa. E qualche volta lui deve sopprimere quell’impulso primordiale che lo porterebbe a strisciare per tutta la navata centrale, fino all’altare, dove adorerebbe l’unico Dio capace di restituirgli il tempo perso e la luce oscurata. Si caverebbe il sangue dalle vene, se servisse per cambiare le cose, e si caverebbe gli occhi dalle orbite per offrirli in sacrificio. E si getterebbe sul pavimento ogni sera, a pregare, come un cane, per chiedere al buon Dio un miracolo che, almeno per Dawn, non sembra arrivare mai.
La chiesa è deserta e risuona dei pianti di una donna-bambina, piegata in due mentre riceve il sacramento, mentre padre Gabriel le dice di aver fede. Ma la fede non basta più. Non è mai bastata.
La fede è quel che Dawn ha usato per tirarsi su da un mare di sangue e tornare a riva, una bambolina rotta e piangente. Ed è fede quella che la costringe a pregare sulle ginocchia martoriate dal legno ruvido, e a fermarsi a guardare un crocifisso appeso nel corridoio di casa sua, senza senso apparente, come se potesse mettersi a parlarle per miracolo.
Guardandola recitare le preghiere, come aveva fatto lui fino a una manciata di anni prima, sulle ginocchia di sua madre, lo riempie di una tristezza pungente e dolorosa.
Vorrebbe mettersi a gridare che non serve, non servirà a nulla, ma Dawn prega con sentimento genuino e, quando la vede piangere sui grani del rosario, non riesce materialmente a dirle che non cambierà nulla: che i morti sono tali ed è meglio non risvegliarli, che le ferite non guariscono mai, ma lasciano cicatrici. La spalla di Dawn, infilata a forza in una maglietta con le maniche a tre quarti, scivola sulle ossa affilate delle clavicole. E, sebbene Scott sia troppo lontano per accertarsene, gli sembra di vedere una porzione di pelle seghettata all’altezza della spalla.
Mesi prima, Dawn aveva preservato quel tic adorabile, il lento alzare la mano per sfregare la carne mutilata, corrotta. Poi, aveva smesso, e Scott si era trovato a pensare che era proprio quello, il guaio con le cicatrici: che credevi che non sarebbero mai sbiadite, quando poi succedeva, e finivano per confondersi nella trama uniforme dell’epidermide. E non perché si assottigliassero effettivamente, non sempre, ma perché, a forza di guardarle, non si notavano più e finivano per diventare parte integrante del proprio essere.
«Amen» sussurra Dawn, e rimbomba per tutta la chiesa, il capo chino per ricevere la benedizione del padre più grande di tutti. Un padre crudele, o cieco, muto e sordo, che si ostinava a lasciarla vagare alla ricerca di un aiuto che non le avrebbe dato.
Scott la guarda barcollare, come brilla, nella sua direzione, un sorriso soddisfatto del volto: così sia, si costringe a pensare, se è quel che vuole, soddisfare la sete di grandezza di una divinità che nemmeno le parla. Una divinità che l’avrebbe lasciata morire, una divinità che l’ha guardata strapparsi i capelli su un cadavere, una divinità che l’ha guardata bramare la pira del funerale solamente per gettarvisi dentro e morire bruciata.
«Così sia, Scott» mormora Dawn, infilando la mano in quella di lui. «Non portare tutto questo rancore. Forse, Dio ha deciso così, per me».
E Scott si trattiene dal gridare che, sì, ha deciso così. Ha deciso di prendere sua figlia, una delle tante, e gettarla via come un pupazzo rotto, torturarla per farla piangere e farle gridare un amen amaro e velenoso. Sia lodato il signore, dicono i canti, ma Scott non trova motivi per lodare un carnefice. Per quel che ne sa potrebbe lui stesso elevarsi a Dio e aver maggiore bontà di quello preesistente, rubandogli quel trono incrostato di sangue secolare.
«Portami a casa» mormora la ragazza, abbassando lo sguardo. Si sfiora la cicatrice, con aria distratta, mentre un grumo di dolore si condensa nell’esofago di Scott: non ha smesso. «Ti va?».
E a lui è sempre andato, di prenderla per mano e riportarla a casa, e farla sedere sul divano mentre sbatteva due uova in una padella, perché non saprebbe cucinare altro, e farle mangiare quel cibo sminuzzato che lei, fosse sola, rifiuterebbe. E riprenderla di nuovo e aiutarla a svestirsi, aiutarla a entrare nella doccia e sentirla piangere da dietro la tendina. Ricordare, poi, che la prima volta che è successo, Scott ha rischiato di piangere insieme a lei.
«Possiamo andare al parco, se ti va» la alletta come una bambina, come una figlioletta da viziare. Con lei, esce fuori una dolcezza che pensava non avrebbe mai avuto, quella un po’ impacciata che lo costringe ad impedirsi di essere brusco, e scostante. «O posso portarti a mangiare fuori».
Lei lo guarda, con quella sua aria da Madonna in lacrime. E Scott prega che non pianga davvero.
La mano che lei gli mette sul viso è lieve come una piuma ma, ogni volta, Scott si sente come se Dawn lo stesse schiaffeggiando, ma è principalmente per quel sorriso che lei mette su, come per dirgli di non sperare: non ce n’è bisogno.
«Dawn, per favore» mormora lui, chinando il capo. «Tutto quello che vuoi. Ma non dirmi di andare via».
Lei annuisce, lievemente, e sospira, come per trovare quella forza drenata via dal tempo. Il sole splende di luce nuova, sopra la sua testa, e le colora d’oro i capelli. Quando alza lo sguardo, ha un sorriso sognante dipinto sulle labbra, di quelli che aveva messo via da tempo.
Scott trattiene il fiato, in attesa di quel colpo al cuore che arriva, arriva sempre, quando lei comincia a sorridere in quel modo, per fotterlo in maniere poco pratiche e molto letterarie.
Così, quando lei gli prende le mani e ride, ride forte, il suo cuore rimane saldo nel petto.
Finché Dawn non parla.
«Vorrei andare al mare, Scott».
E allora lui deve chiedersi che piano abbia in mente Dio, per non risparmiarle anche questo.
 
 
***
 
Scott guarda Dawn e il suo sguardo implorante, le sue mani giunte, e si domanda perché, Dio, perché.
Ma non chiede più, ormai ha capito che con la sua volontà, e quella di Dio, c’è poco da combattere.
E, quando la prende per mano e le dice un va bene sospirato, Dawn sorride ancora di più.
Così che lui si costringe a fermarsi.
«Non voglio essere io a farti del male» sussurra.
Lei non risponde. Ha le mani giunte come in preghiera e i fianchi scoperti dalla maglietta.
 
 
***
 
Le onde s’infrangono sulla sabbia, ma Dawn non si ritrae. Siede su una duna e guarda i bagnanti, con aria concentrata: ci sono due ragazze, due biondissime surfiste stese sulla loro tavola, a riposare in attesa dell’onda successiva. Scott le tiene la mano, come per darle quel coraggio che nemmeno lui ha, per darle un sostegno che potrebbe rinfrancarla solamente se venisse da Dio.
L’acqua è torbida, al largo, dove la sabbia viene rimescolata dalle onde. E Dawn trema, anche se finge che sia quel venticello sporadico che le muove i capelli di tanto in tanto.
Un telefono squilla in lontananza, e Scott pensa di non aver detto a Courtney che non sarebbe tornato. Anche se forse non importa, perché di certo sua moglie rimarrà a lavorare fino a tardi anche quel giorno, pranzando con una simbolica forchettata di insalata in ufficio, con le tapparelle abbassate. Di certo, non importa a lui, quando tiene la mano di Dawn e si rende conto che non esiste un mondo, al di fuori di lei.
«Squali!» grida qualcuno, anche se quel grido pare venire dallo stesso orizzonte. «Squali!».
E Scott si ritrova a guardare Dawn che fa come per correre in acqua, e a tenerla per la vita, mentre lei si divincola per tuffarsi in acqua.
«Dawn!» le urla, cercando di trattenerla. «Stai ferma!» e lei si congela quasi, guardandolo con quei suoi occhi sgranati. Perché non posso salvarli, sembra dire. «Non ti lascio andare lì».
Anche perché, già i bagnini sono corsi in acqua, rischiando la vita, per recuperare chi è in difficoltà.
«È la volontà del Signore, Dawn» mormora Scott, cercando di dare un suono convincente a quelle parole che, per lui, significano poco.
Ma lei piange, quando riportano in spiaggia le due ragazze sulla tavola da surf.
A una delle due manca un braccio1.
 
 
***
 
Guardandola in viso si può vedere come non riesca nemmeno a gridare: non avrà nemmeno tredici anni, e si contorce su quella Tavola surf, guardando Dawn come se da lei dipendesse la sua vita.
«Andiamo via. Non avrei dovuto portarti».
Scott la tira per un braccio, senza grazia, ma lei sembra essere ancorata alla sabbia.
«Scott…».
Il viso di lui è il ritratto della disperazione.
«Andiamo via» sembra quasi volerla pregare. «Non voglio che tu…».
C’è una pinna di squalo che si allontana verso l’orizzonte.
 
 
***
 
Dawn fissa la finestra con aria ispirata, la televisione accesa a vuoto su un telegiornale che nessuno sta seguendo: l’orologio ticchetta le sue ore che passano, e Scott non sa cosa dirle. È sempre così.
Ogni singolo giorno che passa, escluse le parentesi della chiesa, è una tortura che non lascia scampo. La luce è un fascio che brucia, da quella minuscola finestra, gli occhi stanchi di Scott.
La finestra sibila avvertimenti, ma lui è troppo distratto per carpirne il senso. Ma non Dawn.
«L’ennesima vittima di un attacco di squalo… misterioso aumento… provvedimenti del governo…».
Scott si volta, per trovarsi una Dawn incantata davanti allo schermo, gli occhi fissi sulle immagini trasmesse.
«Ha solo tredici anni» mormora lei, senza guardarlo. «E adesso, se dovesse sopravvivere, sarebbe mutilata per sempre».
«Prenderanno lo squalo, Dawn» risponde Scott, posandole un vassoio sulle ginocchia.
«E cosa avrà ottenuto, così?» osservò lei. «Non le ridarà indietro il suo braccio, servirà solamente a farla arrabbiare ancora di più».
«Tu ti senti così? Arrabbiata?» domandò lui, carezzandole il capo.
«La maggior parte delle volte, credo che la mia aura sia fatta solo di quello, di rabbia».
 
 
***
 
«Dovresti tornare a casa» mormora Dawn quando l’orologio suona le sette, e una sottile lama d’ombra si è già insinuata negli angoli della stanza, oscurandoli. «Si è fatto tardi».
Scott annuisce, senza muoversi di un millimetro. Come se i suoi piedi si fossero fusi con le mattonelle del salotto, la guarda come alla ricerca di un permesso che non gli verrà dato.
Perché sono le sette, l’ora in cui Dawn di alza dal divano e corre in camera da letto, su quel letto matrimoniale su cui non ha più dormito: è ancora sfatto, con i vestiti appallottolati sul lenzuolo, e lei non lo tocca mai. È l’ora in cui si mette davanti allo specchio, con il disordine alle spalle, e si spoglia di quei vestiti impregnati di sapone scadente, per percorrere la storia che le hanno inciso addosso.
«Potrei restare. Se non ti do troppo fastidio, volevo dire».
Lo sguardo di lei è ghiaccio puro, è un brivido che lentamente si condensa sulla schiena di Scott: lo sta esaminando, cercando chissà che cosa nella sua aura, come se questa potesse spiegarle come fossero arrivati a quel punto, entrambi.
«Courtney ti aspetta» risponde, Dawn, ed è pallida come la luna che presto si affaccerà dalla finestra. «Dovresti davvero andar via, Scott».
E a lui, a lui tremano le mani. Sembra un folle o un demente, quando si costringe a tener fermi gli arti, solamente perché lo sconvolge troppo parlare con lei. Solamente perché anche lui, quando Courtney ha cenato con uno o dieci bicchieri di vino, viene spogliato davanti uno specchio.
E, sotto quella stessa canottiera che, per Dawn, è anche un pigiama, lui nasconde delle cicatrici molto simili: Chris gli aveva offerto, insieme a una pietà finta come un dolce di cartone, un’operazioncina per cancellare quelle macchie seghettate dalla pelle.
Scott aveva rifiutato, e le aveva tenute per sé, tutte le sue cicatrici, senza che innesti di pelle potessero ripararle, in qualche modo. E, proprio come aveva sperato, alla fine avevano finito per non essere più così evidente, in una mappa di bel altri segni.
«Non ti ridarà indietro niente, Dawn» osserva Scott, con la mano sul pomello della porta. «Non ti ridarà indietro né il sangue né lui, come hai detto tu. Vedi di ricordartene».
«Vorrei che fosse possibile».
Scott sorride e, il suo sorriso è uno di quelli che inquieta come una sottile fetta di luna che scivola in una nube, soffocando.
«Qualche volta, lo vorrei anche io».
Il rumore della porta che si chiude, in un’agonia di cardini stridenti, non la fa sobbalzare. Ha lo sguardo fisso sull’orologio, Dawn, e su quel tempo che Dio chiamò prima di ogni era.
«Ti prego, torna».
Ha parlato alla porta.
 
 
***
 
Courtney è rincasata presto, e non ha cenato. Però si è messa sul divano, con un libro che non ha aperto e una televisione che non ha guardato. Almeno finché non ha sentito che una ragazzina è stata quasi sbranata da uno squalo. E, per un attimo, ha anche avuto paura di un ricordo nascosto in un angolo del suo cervello, sepolto sotto una spiaggia intera.
Scott non è ancora tornato.
 
 
***
 
Dawn, la notte, per addormentarsi fa una fatica immensa perché, quando il tempo comincia a rallentare per assenza di luce, la sua mente comincia a rimandarle immagini dei mesi precedenti, all’estate di anni prima, quando ancora era una persona normale, quando ancora non viveva con i suoi fantasmi. La notte le porta un ricordo annebbiato dell’anno che fu, quando si è immersa nel mare, per protestare contro lo shark finning, tenuta per mano da B.
Quando ci ripensa, è costretta a lottare contro l’oblio del dolore, per ricordarsi che lei e B erano stati insieme, per quel periodo, e Scott era in luna di miele con Courtney: quella ferita che l’aveva dilaniata ai tempi di All Stars, piano piano, con B che la curava, era diventata un lieve fastidio di poco conto. E lì, immersa nel mare cristallino, a nuotare fra quelle creature di madre natura che non le avrebbero fatto niente. O, almeno, così credeva.
Dio, nel suo piano di armonia prestabilita, si era dimenticato di dirle che i doni non sono tali, ma solamente prestiti: quel giorno, era scritto che Dawn avrebbe perso qualcosa, o qualcuno.
Gli squali, che erano sempre stati suoi amici, si erano rivoltati contro Dio, contro ogni sorta di bene superiore, e avevano colpito. A posteriori, Dawn avrebbe provato a dare la colpa a sé stessa e agli uomini, che di certo avevano turbato l’equilibrio degli squali, con quella pratica disgustosa.
Era arrivato dal nulla, lo squalo tigre, e lei non l’aveva nemmeno visto, finché non aveva tirato sotto B, facendolo a pezzi, brandelli sanguinolenti erano tornati a galla. Lei se l’era cavata con poco.
Era stata fortunata, le avevano detto i medici, veramente fortunata: non si esce quasi mai così bene da un attacco di squalo. Aveva tutti gli arti al loro posto ed era viva: cosa avrebbe potuto volere di più?
Ma quella cicatrice dentellata, dove lo squalo l’aveva afferrata, per poi lasciarla andare, come accortosi dell’errore, le deturpa il fianco e lei non riesce ancora a ignorarla.
Ventiquattro ore dopo l’attacco, trovarono uno squalo tigre troppo vicino alla riva, e aveva resti di carne umana nello stomaco. Lei non lo volle nemmeno volere: si era rinchiusa in casa e aveva aspettato.
Scott tornò la settimana dopo, e la scoprì distrutta da un dolore nuovo di cui, almeno quella volta, non aveva nessuna colpa. Provò a fare dietrofront e a lasciarla struggersi per B, ma non ci riuscì.
E adesso, quando Dawn deve alzarsi nel cuore della notte perché ha sognato la sensazione delle zanne dello squalo che le affondano nella carne, ripensa al sorriso triste di Scott, che le rivolse quando la trovò acciambellata sul divano, smagrita e consumata, e dovette raccoglierla.
Quando prega, alla fine, non prega solamente per l’anima di B, per quella rabbia che la sta divorando, per tutti quelli che hanno perso molto più di qualche pezzo di carne e pelle. Prega per il sorriso di Scott, che si è consumato nel suo matrimonio infelice.
Nel suo letto, nel suo divano, in verità Dawn prega che Scott continui a tornare.
 
***
 
Il giorno dopo, Dawn fa fatica ad alzarsi dal divano: ha la testa annebbiata per la notte quasi in bianco, e l’orologio continua a lampeggiare le sette di mattina. Un solo pensiero, dov’è Scott, le affolla la mente.
Di solito, riflette, appena si sveglia lui è già al suo fianco, che l’ha guardata dormire per tutto il tempo.
 
***
 
Scott è tornato a casa: Courtney non è ancora uscita, ma temporeggia al tavolo della cucina, inzuppando pensierosa un biscotto nel caffelatte, così che lui è costretto a salutarla con un cenno del capo, prima di chiudersi in camera da letto. Quando ne è riemerso, aveva uno zaino in spalla e una penna in mano. La valigetta di Courtney è sul tavolo, e a lei si gela il sangue nelle vene, nel vedere Scott che prende il documento del loro divorzio e lo firma, come lei ha visto fare a molte altre coppie.
«Mi dispiace».
In quella casa, Scott non ci tornerà mai più.
 
***
 
 
«Pensavo non saresti tornato» mormora Dawn, appena lo vede entrare dalla porta. Si è raggomitolata sul letto, avvolta in dei vecchi vestiti che lui le aveva lasciato. «Che non ti avrei visto mai più».
Lui sorride, sfiorando la carne deturpata del fianco, e lei ha chiara la risposta: Scott sorride e Dawn ha una preghiera in meno da recitare.







1 Liberamente ispirato a Bethany Hamilton e al suo "Soul Surfer"

 
   
 
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