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Autore: PeaceS    10/06/2016    3 recensioni
Sequel di 3.00am
Lord Voldemort sembra scomparso: nascosto nell'ombra e in attesa di recuperare le sue forze, ricorda ai suoi avversari sporadicamente la sua presenza. Sono passati due anni e le premesse di Angelique si sono avverate: lui non è nel pieno delle sue forze e Albus Potter viaggia ininterrottamente per trovare un modo - un piano - che possa salvarli tutti. Nel mentre, Chrysanta Nott ritorna, ma il suo cuore appartiene già a qualcuno.
Il tempo passa e la verità sta per venire a galla: la vera identità di Scorpius sta lottando per uscire e lei, nonostante cerchi di cancellare ciò che è stato, sa che non sarà così facile.
Jackie Alaia e Joanne Smith giocano con i morti e Dalton Zabini con un libretto che, due anni prima, aveva reso Lily un mostro senz'anima.
Alice Paciock è passata al lato oscuro e si dice che suo fratello, ora, sia in giro per Londra... a dissanguare innocenti - e cercare di evitare l'unica donna che avesse mai amato, Roxanne Weasley.
Lucy Weasley, invece, è sempre più vicina al suo destino. E tra Mangiamorte, Demoni e Angeli, sente il fuoco dell'inferno cercare di bruciarla da dentro.
Lucifero è dentro lei.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Draco/Hermione, Harry/Ginny, James Sirius/Dominique, Lily/Scorpius
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
Capitoli:
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VIII.

 

 

 

 

 

Londra era coperta da grossi nuvoloni neri carichi d'acqua, quel giorno, e l'aria era così bassa e afosa da strappare parecchi sospiri esasperati nei passanti veloci e ignari che passeggiavano per High Street.
Lucy Weasley svoltò in una stradina desolata accanto a Cross Road, accelerando il passo per fermarsi poco dopo – proprio agli inizi di Wood Street – dove uno spiazzato si allargava sistematicamente sotto i suoi occhi, circondando circolarmente un antico edificio, in perfetto stile Vittoriano, con una grande insegna appena sopra il portone di quercia che recitava “City of London Police”.
I suoi sandali dal tacco centoventi produssero un ticchettio inquietante quando salì gli scalini di marmo, osservando impassibile il leggero via-vai di agenti e civili, coprendosi meccanicamente i capelli rossi con il cappuccio nero del giubbettino che indossava.
Il vestito di maglia le aderiva al corpo come una seconda pelle e i suoi occhi si focalizzarono su un punto impreciso davanti a lei: gli sguardi le scivolavano addosso e i fischi a malapena turbavano i suoi pensieri – quel giorno così vorticosi da darle la nausea.
“Ehi, bambola!”
“Va a farti fottere, viscidone” sibilò quando un uomo sulla quarantina ammiccò sulla scollatura a barca coperta a malapena dal giubbettino di pelle. Aveva la bacchetta ben stretta nella tasca alla sua destra e sorrise smielata, pronta a renderlo cibo per cani.
“Ha gli artigli, la gattina...” rise l'altro, camminando all'indietro senza mai staccarle gli occhi dal fondoschiena.
“E anche i denti per staccarti le palle a morsi, dolcezza” soffiò Lucy, con il suo solito linguaggio da scaricatore di porto e girando appena il capo per godersi appieno la sua espressione.
“Touché”
In realtà Lucy non era stata mai, mai, appetibile agli occhi degli uomini. Quando frequentava Hogwarts per la maggiore si limitavano ad un'occhiata superficiale e raramente incontrava qualcuno di insistente. Era sempre stata quella strana, lei.
Finché non erano iniziati quegli incubi. Fin quando quella voce non aveva iniziato a parlarle.
Lucy salì lo scalone sulla destra – ignorando l'androne con alcuni agenti a cui chiedere informazioni – e proseguì imperterrita. Le pareti erano di pietra grezza e il pavimento tra un marmo rosato e piastrelle bianco gesso, mentre c'erano alcuni ritratti di agenti defunti alle pareti attaccati ad alcuni meriti della City.
Già. Lucy non era stata mai, mai, appetibile agli occhi degli uomini. Solitamente, si limitavano a fissarla con sguardo vuoto e accelerare il passo. Era quella strada, lei. Finché non erano iniziati quegli incubi. Fin quando quella voce non aveva iniziato a parlarle... e insieme a quei pensieri bui, cattivi – che popolavano la sua testa ventiquattro ore su ventiquattro – aveva notato di essere perennemente al centro dell'attenzione.
Sembrava che quel lato oscuro eccitasse gli uomini inconsciamente, attirandoli come api con il miele e cadendo in una trappola molto più letale di quello che in realtà pensavano.
“Sapevo che saresti venuta” mormorò una voce, portandola ad alzare gli occhi di scatto. Era appena arrivata al quarto piano e un lungo corridoio dalle infinite porte era appena illuminato da qualche lanterna, senza però impedirle di visualizzare un uomo sulla trentina poggiato mollemente contro lo stipite di una porta sulla sinistra – proprio al centro del lungo serpente dalle piastrelle bianche.
La quinta a sinistra, per la precisione. La più areata e spaziosa della City.
L'uomo sospirò, spostandosi appena per farla passare. “E non sono molto felice di questa cosa, Koroleva” continuò con il suo accento duro, passandosi una mano tra i capelli biondo ossigenati e storcendo la bocca sottile in una smorfia.
Koroleva. Moya Koroleva.
“L'amichetto nei tuoi pantaloni non è dello stesso parere, Smirnov” soffiò Lucy, passandogli affianco per entrare nella stanza e lasciandolo leggermente intontito per alcuni secondi per la scia di profumo che si trascinò dietro.
“Ma io perdono chi mi mente a fin di bene...” ridacchiò, accomodandosi sulla poltroncina rossa alle spalle della scrivania di mogano scuro e accavallando le gambe nude e pallide – togliendo il cappuccio dai capelli rossi e lanciando uno sguardo sfuggevole alle due immense finestre alle spalle di Boris, che si sedette proprio di fronte a lei.
Boris.
Archivio di ferro battuto proprio tra gli infissi, una biblioteca vuota a sinistra e un tappeto persiano sotto i suoi tacchi. Ventilatore acceso, puzza di nicotina imperniata ovunque e... e... e un vecchio sentore di magia. Una magia così debole, impalpabile, da lasciare addosso una sensazione di stordimento – come se fosse uno scherzo stupido dato dai riflessi troppo tesi.
“Non posso farlo, Koroleva! Se solo si viene a sapere che sono ancora in giro... non riesco nemmeno ad immaginare le conseguenze” alitò Boris, poggiando la fronte contro il palmo aperto e allentandosi di poco il colletto della divisa nera e bianca con le mani sudate.
“Ed io che credevo i Russi dei « cuor di leone »” disse Lucy, divertita, togliendo la giacca di pelle e tirandosi su le maniche del vestito corto. Troppo, in effetti.
Jackie avrebbe dato i numeri se l'avesse vista così, come tutte le volte che indossava qualcosa di troppo corto o appariscente e Lucy tirò la bocca in un sorriso sbilenco al solo pensiero; lui cominciava ad avere la paura folle di essere tradito o lasciarlo ed era diventato asfissiante. Dolcemente asfissiante, certo, ma la sostanza non cambiava.
“Certo. Fin quando non si ha a che fare con l'altro mondo” sputò Boris, furioso.
E a Lucy non era mai saltato nemmeno per l'anticamera del cervello di tradire Jackie. Mai. Finché non erano iniziati quegli incubi. Fin quando quella voce non aveva cominciato a parlarle.
“Beh, caro il mio bel Russo ripudiato, a me servono quelle informazioni... quindi cerca di rendere onore al sangue che ti scorre nelle vene e fa l'uomo” cinguettò perfida, sbattendo civettuola le ciglia scure.
Boris aveva divaricato le gambe e lasciato andare il capo all'indietro: alcuni ciuffi ora gli accarezzavano la mascella volitiva – mentre le spalle possenti s'indurivano per la tensione.
“Io non sono un tuo giocattolo, Koroleva e tu sei un pericolo. Un grande pericolo” sibilò, inghiottendo a vuoto quando lei si sporse oltre la scrivania.
Arrivò a soli due metri dal suo volto e la schiena era così inarcata che Boris poteva perfettamente indovinare quali slip indossasse dalla linea sottile che seguiva le natiche.
“Voglio solo sapere perché sono un pericolo, Smirnov” sussurrò sulla sua bocca, rilasciando veleno ad ogni respiro che esalava sulla sua bocca.
“Tu sai bene perché”
“No. Sei tu che sei stato attratto da questa cosa, Boris.
È stata il tuo sangue da ripudiato che ti ha portato da me e lui ora mi porterà a ciò che mi sta succedendo... che tu lo voglia o meno!” sbottò Lucy, decisa come non mai. Con le dita dalle unghia laccate di rosso gli accarezzò la cravatta nera, inclinando il capo e lasciando che alcuni riccioli le sfiorassero la spalla.
Sì. Boris poteva fare il Babbano quanto voleva, ma loro due sapevano bene qual'era la sua vera natura e se Lucy inizialmente era stata abbastanza suscettibile su quel punto, ora non aveva dubbi.
Lui era attratto da ciò che la stava divorando giorno dopo giorno. Era addirittura deliziato da quel buio che oramai aveva messo radici dentro lei... e Lucy era stanca. Voleva – doveva – scoprire cosa fosse – chi fosse – prima di soccombere definitivamente a quella pressione incessante.
“Koroleva...” gemette Boris, quasi sconfitto da quella bocca a pochi centimetri dalla sua. Quasi sopraffatto dalla puzza di zolfo che emanava lei. Dai suoi occhi ora neri. Da quell'aura che ora la circondava come una nuvola – succhiando via la vita. Il raziocinio. La coscienza.
“E tu lo vuoi, Boris. Non è vero?” bisbigliò Lucy, sfiorandogli le labbra con le proprie.
E c'era un motivo per cui Boris la chiamasse « Koroleva » ed era qualcosa che travalicava il senso di appartenenza o il misero sesso. Lucy era una regina, ma non la sua, poteva convincere chiunque a fare qualsiasi cosa d la ragione era molto più oscura di quello che gli altri solitamente immaginavano.
Travalicava la logica e il terreno.
“Sì” rispose, prima che lei lo baciasse con una ferocia tale da strappargli il respiro. Penetrò con la lingua nella sua bocca e il sangue di Boris ribollì.
Oh sì. Era quello il richiamo di cui le aveva parlato all'inizio: lo stesso che mesi prima lo avevano portato dritto da lei – seduta con le gambe oltre il parapetto del Tower bridge, invisibile agli occhi di tutti tranne che ai suoi.
Le macchine sfrecciavano, la canna che lei teneva tra le dita bruciava lenta e la luna era così piena da sembrare immensa da quella posizione.
Lei era così bella e non era normale. Né come Babbana né come strega e nemmeno come essere umano. Lei apparteneva ad un mondo che lui conosceva bene... un mondo da cui era scappato, ma che continuava a perseguitarlo come una condanna.
“Bravo il mio bambino” rise Lucy e Boris sentì perfettamente il cuore accelerare per poi fermarsi di nuovo – come duecento anni a quella parte.
E poche erano le ragioni che potevano scombussolare il suo vero « io », la sua parte infernale. Le stesse ragioni per cui lui la chiamava Koroleva.
Regina. Imperatrice.
“Cazzo”
Lucy si scostò di scatto, come se si fosse scottata e tirò velocemente fuori dalle tasche un cellulare di ultima generazione. Gli diede le spalle, arcuando la schiena e si affrettò a rispondere quasi come se ne dipendesse la sua stessa vita.
« Cosa? Ti avevo detto che non potevo! » la sentì dire subito dopo il solito pronto, spostando il peso del corpo da un piede all'altro.
Emanava nervosismo, ansia e Boris sentì l'aria appesantirsi come se si fosse alzata precipitosamente la temperatura.
Si stava arrabbiando.
« Quella testa di cazzo ha fatto cosa? » urlò Lucy, infuocandosi.
Guardò il termostato e portava ventinove gradi centigradi.
Si stava arrabbiando. Cazzo, se si stava arrabbiando e lì dentro cominciava a squagliarsi.
« Vengo subito » sputò velenosa, staccando velocemente la chiamata e afferrando il giubbettino di volata.
Boris inghiottì a vuoto: ora la stanza era letteralmente un forno e nuovamente quel richiamo che li univa si fece sentire – facendogli tremare le ossa e liquefare la carne.
“Devo andare. Ci vediamo tra una settimana esatta” sibilò Lucy, ora rivolgendosi a lui. Rimise il cappuccio sul capo e lo guardò con gli occhi scuri gelidi e furiosi.
“E mi aspetto qualcosa di meglio” lo avvertì, sporgendosi giusto per sfiorargli le labbra con le proprie. Si allontanò appena – godendo nel vedere la sua bocca tumefarsi – e gli diede le spalle imboccando quella quinta porta a sinistra del lungo corridoio, andandosene spedita com'era arrivata.
Sapeva che Boris le avrebbe portato quello che voleva: quel lato buio, che stava imparando piano a gestire, veniva freneticamente a galla quando lui si trovava a poca distanza da lei e Lucy sapeva, sapeva che c'era un perché.
Il mostro che aveva dentro apprezzava Boris e lo voleva con tutte le sue forze. Lui l'alimentava, dando fuoco alla miccia e dandogli forma, forza, identità. Quello che Lucy non riusciva a fare.
Una volta arrivata nuovamente a High Street si smaterializzò all'entrata di un vicoletto desolato e sperò vivamente che Jackie avesse una buona scusa, quella volta, o niente l'avrebbe bloccata dal fatturarlo pesantemente.
Si era cacciato di nuovo nei guai e oramai lei ne aveva fin sopra le tasche di quel suo atteggiamento suicida; aveva ben altro da fare che rincorrerlo nelle sue stupide e « rocambolesche » avventure da medico improvvisato.
Cosa credeva? Che non si fosse accorta dei stupidi giochi che faceva con quell'incosciente della Smith?
Quando tornava a casa sentiva la puzza di marcio a metri di distanza.
Entrò all'ospedale St.Smith a passo di marcia e nel lungo corridoio antecedente la Sala informazioni – che aveva sorpassato senza degnare di uno sguardo Lara, l'infermiera di turno – incontrò proprio chi sperava in effetti di incontrare.
“Che cosa stracazzo è successo?” sbottò infastidita verso Eric, il tirocinante leccapiedi di Joe. Anzi, il secondo tirocinante leccapiedi di Joe.
Il primo era il suo fidanzato.
“Non lo sappiamo. Lo abbiamo trovato per caso mezzo morto vicino all'ascensore del terzo piano” rispose il ragazzo dai capelli biondi, guardandola serioso attraverso la montatura leggera degli occhiali da vista – scivolate appena sul naso aquilino.
“È uno scherzo?” sibilò Lucy, alzando gli occhi azzurri gelidi e glaciali su di lui. Eric si fermò prima di raggiungere l'ascensore, sbattendo ripetutamente le ciglia chiare.
“Io... no, certo che no! Perché me lo chiedi?” mormorò, inghiottendo a vuoto e cercando di evitare il suo sguardo. Tossì, preoccupato.
“Cosa vuol dire che lo avete trovato per caso mezzo morto? Dov'è Jakie? E soprattutto come diavolo sta?” urlò quasi, bloccando però improvvisamente la sua corsa quando pronunciò le ultime due parole.
Diavolo... diavolo.
Sì, sì. Diavolo, Lucifero, Belzebù, Ahreman. Poteva cambiare nome, ma non la sostanza.
« Sono così vicino » le sussurrò quella solita voce roca nella testa – strappandole uno spasmo al cuore.
Sì, sì. Diavolo, Lucifero, Belzebù, Ahreman. Cambiava nome, ma non il significato profondo di ogni singola sillaba.
“Ehi, Lucy, mi stai ascoltando?”
Sì, sì. Lui aveva ragione: era maledettamente vicino e anche lei lo sentiva. E la chiamava. E cercava di trarla a sé.
« Sì, mia piccola regina, sì. Brilla per me » e Lucy non capì lui cosa intendesse per « brillare » ma la sua anima s'incendiò. Sentiva le ossa e le membra bruciare come vicino al fuoco e le gambe quasi le cedettero.
“Lucy?”
« Continua. Continua » urlò, mentre il tono della sua voce si alzava sempre di più – facendole accelerare il battito cardiaco così tanto da costringerla in ginocchio.
Solitamente lei sveniva quando sentiva quella voce: dopo un minuto secco cadeva a terra come una pera cotta con tabula rasa nel cervello... ma ora stava durando troppo. Era sveglia e sentiva come se dell'acido la stesse corrodendo dall'interno, lasciando solo polvere al proprio passaggio. Quella volta era diverso. Era come se ora riuscisse a supportarlo. Come se fosse cresciuta e riuscisse a contenerlo.
“Mon Dieu!” sussurrò Eric, affiancandola scosso.
“Ti senti bien, Lucì?” continuò – facendo confusione con l'Inglese e il Francese, la sua lingua madre, come tutte le volte che era particolarmente agitato o nervoso.
“Lucì!” sbottò, schiaffeggiandola con forza e costringendola a ricambiare il suo sguardo.
Aveva gli occhi di un intenso color rubino e lo fissavano come se fossero pronti ad ucciderlo. Lucy scoprì i denti e lui, che fino a quel momento era stato piegato sulle ginocchia, cadde all'indietro con un tonfo.
“Mon Dieu!” ripeté, questa volta, però, con tono agghiacciato.
Lucy respirò faticosamente, afferrandosi con disperazione la testa e scuotendola ripetutamente – come se cercasse di ritornare in sé. Come se stesse lottando contro qualcosa. O qualcuno.
“Potevi dirlo che eri francese... almeno avrei messo in conto che sei un gran cazzaro come tutti quelli della tua razza” sussurrò la ragazza con voce arrochita. Eric sobbalzò, indietreggiando.
“Stai bene?” disse, recitando mentalmente il « Padre Nostro. »
Eric non era mai stato particolarmente religioso; i suoi genitori non erano praticanti e automaticamente neanche lui si era ritrovato tutte le domeniche in chiesa, ma credeva in Dio. Sì, Eric si era sempre rivolto a Dio nei suoi momenti più difficili o più felici e credeva in un'entità superiore... come credeva che esistesse qualcuno che lo contrastasse.
Eric credeva nella parte oscura, cattiva di Dio. Colui che aveva creato il male – e che si nutriva, come i Dissennatori, della parte buia delle persone.
Ed era quello che aveva visto negli occhi di Lucì, quando aveva alzato lo sguardo per fissarlo nel suo.
“Sì, sto bene. Soffrivo di epilessia da piccola e ogni tanto si presentano degli attacchi” mentì spudoratamente la ragazza, alzando il volto e mostrando gli occhi ora limpidi e azzurri.
Ma Eric riusciva ancora a vedere quell'ombra vagare, inquieta, palpitando come se volesse riprendere il sopravvento.
“L'epilessia non cambia il colore degli occhi in azzurro a rosso, Weasley” disse serio, cercando ancora di farsi indietro con l'aiuto delle gambe – completamente attaccato al pavimento freddo.
Eric credeva nell'esistenza di un'entità superiore buona, pura, perfetta... come credeva che esistesse qualcuno che la contrastasse. Eric credeva nell'antagonista di Dio quanto Dio stesso: la cattiveria, il corrotto, il buio in cui si identificava. E Lucì, quando aveva alzato lo sguardo per fissarlo nel suo, aveva il Diavolo in corpo.
“Hai le allucinazioni” lo sbeffeggiò la ragazza, alzandosi dal pavimento e spazzolandosi con un colpo di mani il retro della gonna. Doveva andare via da lì.
“Io conosco qualcuno che può aiutarti, Lucì” mormorò il ragazzo.
Lo guardò, impietosita.
“Non ho niente!” ringhiò rabbiosa – riprendendo la corsa interrotta verso Jackie. Non aveva niente. Nada. Rien.
“Un'esorcista. Uno di quelli magici, però” e Lucy non lo lasciò nemmeno finire che con la telecinesi lo alzò da tre metri da terra.
Assottigliò lo sguardo opaco ed Eric quasi temette di vederla con la schiuma alla bocca – come i cani affetti dalla rabbia.
“Non osare, piccolo bastardello francese...” ansimò, mentre attorno cominciò a condensarsi una nube nera e tossica.
Eric tossì, portandosi le mani alla gola.
“Non osare immischiarti in affari che non ti riguardano” continuò, digrignando i denti. E nuovamente nelle sue iridi ricomparve quella patina color rubino – che sembrava offuscarle i sensi e la mente.
Lei. Non. Aveva. Assolutamente. Bisogno. Di. Un. Esorcista.
La testa cominciò a scoppiarle e cominciò a risentire le vertigini; quegli attacchi erano sempre più continui e pesanti, come se ogni giorno lui diventasse più forte.
“Lucy? Lucy, che cazzo fai?”
Harry James Potter afferrò con forza la spalla di sua nipote, sconvolto da quello che aveva visto appena messo piede al St. Smith. Era andato lì per parlare con Joe dell'ultima visitina della famiglia e sperava anche di trovarci quel maledetto di suo figlio – scappato dalle sue grinfie appena quell'uomo aveva messo piede lì.
Che le prendeva? Cosa stava facendo?
Eric cadde a peso morto sul pavimento, con le mani alla gola, e Lucy strattonò la sua presa – liberandosene facilmente ed evitando apposta il suo sguardo, allontanandosi.
“Non riprovarci, francesino. In tutti i sensi” ansimò, minacciandolo un'ultima volta prima di andare via.
Harry lo aiutò ad alzarsi dal pavimento ed Eric si massaggiò la parte lesa, sorridendo mesto.
“Non so proprio cosa le sia preso! Di cosa stava parlando, cos'è successo?” lo bombardò l'uomo, cercando di ripristinare l'equilibrio dell'altro con aria preoccupata.
Il tirocinante guardò verso il corridoio deserto – dove era appena sparita Lucy – con gli occhi leggermente persi nel vuoto; cosa poteva dire? Non era compito suo quello. Ma proprio non voleva lasciare qualcuno nelle condizioni in cui si trovava la ragazza.
Eric non era pazzo, no. Sapeva di aver visto qualcosa, qualcosa che aveva dato di matto quando aveva proposto una soluzione per eliminarla.
“Nulla di importante. Lei sa' quanto le donne Weasley siano sempre un vulcano in eruzione” sussurrò, scuotendosi dallo stato catatonico in cui l'aveva lasciato Lucy e cercando di mostrare il suo sorriso migliore al signor Potter.
Invano, naturalmente.
“Se lo dici tu...”
Non poteva parlarne con lui, ma Eric non avrebbe lasciato Lucy nelle fauci di qualcosa di così maligno e grande. Immensamente grande.
Avrebbe fatto qualcosa e, suo malgrado, nonostante avesse promesso di non averci più nulla a che fare, sapeva anche a chi rivolgersi.
Pregando, nel frattempo, di non essere in ritardo. O sarebbero stati guai per tutti.

 

✞ ✞ ✞

 

 

 

“Sei distrutto”
Dalton sorrise appena, con il volto sprofondato nelle mani e la schiena completamente curvata. Un ciuffo di capelli gli solleticò appena la fronte e sospirò – godendosi il suono di quella voce.
“Dalton... dobbiamo parlare”
Erano passati anni da quando per la prima volta aveva capito che senza di lei non sarebbe andato da nessuna parte, ma invece di stancarsene lui ne era sempre più ossessionato; gli faceva male quando lei non gli rivolgeva la parola e impazziva al pensiero che qualcun altro la sentisse come lui.
Che scandisse il suono di ogni singola sillaba e ne rimanesse rapito – avvolto – bruciato.
“Tra di noi...tra di noi non c'è più dialogo” sussurrò ancora Joe e Dalton chiuse gli occhi, trattenendosi dal strapparsi i bulbi oculari con le dita artigliate.
Erano passati anni da quando per la prima volta aveva capito che senza di lei non sarebbe andato da nessuna parte e Joe aveva ancora il potere di ferirlo – ucciderlo – massacrarlo dentro.
“Dialogo? DIALOGO?” strillò letteralmente, alzandosi di scatto e superandola di parecchi centimetri – mentre lei sobbalzava per quello scatto improvviso.
Come poteva anche solo osare di pensare alla parola « dialogo » dopo quello che gli aveva fatto? Dopo quella continua tortura che era la loro relazione?
La odiava. Si odiava.
E non riusciva a trattenersi in sua presenza.
“Tu mi hai mentito, tradito e vieni a parlarmi di dialogo?” disse a denti stretti, fulminandola con gli occhi chiari e chiedendosi quando, quando fossero arrivati a quel maledetto punto.
Dalton era pronto a morire per lei. Era pronto a distruggersi per lei ed invece era stato trattato come carta straccia. Ed invece continuava a trattarlo come una seconda scelta.
Perché lui era sempre stato quello. Una seconda e schifosissima seconda scelta.
“Io non ti ho tradito!” sbottò Joe, ora rossa in viso.
Come quando facevano l'amore per ore e lei affannava sulla sua spalla – stringendosi ancora di più con le gambe attorno a lui.
“Non ti ho tradito...” ripeté, questa volta a voce più bassa.
Come quando facevano l'amore e lei ripeteva il suo nome tra i gemiti, mordendosi le labbra fino a fargli sentire il sapore ferroso del sangue anche parecchi baci dopo.
“Io non ti tradirei mai, Dalton. Non mi interessano gli altri uomini” bisbigliò, avvicinandosi velocemente e afferrandolo per i lembi della maglia nera a maniche corte che indossava.
Come quando lui la prendeva per le natiche e la baciava prepotentemente, tirandosela contro.
Bugiarda. Joe era una bugiarda. Un'infima bugiarda. E lui un vigliacco infame che le credeva sempre, debole dentro.
Perché lui lo sapeva. Era una seconda scelta, ma l'avrebbe sempre perdonata... perché si odiava, la odiava, ma era sempre pronto a morire per lei. Solo per lei.
“Oh, ma allora state ancora insieme!”
Joe si staccò di scatto e Dalton si sentì perso – come durante quelle mattine si era svegliato da solo nel suo letto a Zabini Manor.
“E lei cosa ci fa qua?” sbottò Joe, nel suo tailleur da dirigente.
Chrysanta sorrise appena, appoggiandosi con i fianchi sottili contro lo stipite della porta dello studio di suo padre. Indossava una delle sue maglie, per lei fin troppo lunghe e larghe, e un paio di tacchi vertiginosi – che si guadagnarono la furia funesta di Joe.
“Sono tornata. Ti dispiace?”
Se le dispiaceva? Chrysanta Nott, con addosso una maglia del suo fidanzato, le stava chiedendo se le dispiaceva che era tornata?
Lei, che se l'era trombato e probabilmente aveva fatto pianta stabile a casa sua?
“Se mi dispiace?
Mi stai chiedendo se mi dispiace?” ripeté incredula ad alta voce, cercando di trovarvi un senso.
Chrys sorrise ancora, passandosi una mano tra i riccioli bruni con un'aria divertita che a Joe piacque ben poco.
“Sì. Ti ho chiesto proprio se ti dispiace” ripeté, come se Joe fosse una ritardata mentale e quest'ultima si cercò di controllare il tic nervoso all'occhio destro.
La uccideva. La. Uccideva.
“No, affatto” mormorò con tono affabile, aggiustandosi con espressione rilassata la giacca blu notte e la gonna dal taglio assolutamente perfetto.
Dalton la guardò e Joe stirò la bocca in un sorriso da iena che gli fece tremare le vene nei polsi.
Bella e cattiva. Bella e maledetta. E la odiava. E si odiava.
“Ma visto che tu ora sei tornato a casa e hai anche una coinquilina, credo proprio che dovrò mettermi a lavoro e cercarmi un coinquilino anche io.
Sai, le spese sono pesanti per una ragazza sola” continuò – mentre a lui quasi cadevano le braccia.
Coincosa?
“Ah e credo che questa proprio vi piacerà: questa sera festa grande a casa dei Potter per il ritorno di Albus. È tornato e la famiglia ringhia come un branco di cani affamati.
Siete tutti invitati per lo show” li informò prima di smaterializzarsi, non prima però di aver sogghignato.
Adorava le uscite di scena in gran stile e se tutto andava come doveva – o come quel lampo di genio le aveva suggerito che dovesse andare – di Chrysanta se ne sarebbe occupato il destino. Un destino chiamato comunemente « Albus Potter » e la fidanzata vampira che si era trascinata dietro.
Si materializzò ai piedi della Tana con ancora quell'espressione diabolica dipinta sul viso e Sirius, seduto proprio sui gradini antecedenti la porta giallo sole, la guardò curioso.
“Progetti l'omicidio del tuo fidanzato?” ridacchiò, tirando il fumo dal filtro di una delle sue sigarette Babbane.
Joe gli sorrise, scuotendo il capo e sedendosi con un sospiro al suo fianco.
“In questo momento non sono sicura nemmeno di essere ancora fidanzata” mugugnò con aria depressa – dato che in quell'ultimo periodo non ci capiva più niente.
Il lavoro andava alla grande, gli affari e il suo « progetto » procedevano alla perfezione, la sua autostima era alle stelle... ma non riusciva più a capire la sua relazione con Dalton.
Non gli aveva parlato di quello che stava combinando nei sotterranei dell'ospedale e aveva preferito fargli credere che quella cena con quell'uomo fosse un malinteso. Tutto per non confessargli che era marcia dentro.
“Cos'è che non va con Zabini?” domandò Sirius, guardandola di sottecchi con gli occhi grigi grandi e tentatori.
“Ultimamente non viaggiamo sulla stessa onda”
Joe poggiò i gomiti contro il gradino alle sue spalle e fissò il cielo arricciando le labbra.
Perché l'amore non bastava più?
“Non è colpa tua” mormorò Sirius, schiacciando il filtro della sigaretta sotto la suola delle scarpe nere.
Con tocco leggero le sfiorò la spalla e Joe lo guardò appena attraverso le ciglia da bambola – quasi scoraggiata.
Perché l'amore non bastava più? E da quando era diventata così?
Si odiava.
Certo che era colpa sua. Lei lo evitava – oh, se lo evitava – e si comportava in modo stupido, quasi come se davvero volesse portarlo all'esasperazione; al suo fianco si sentiva ancora la ragazzina insicura e impaurita di Hogwarts e si odiava. Lo odiava.
“Credo proprio che questa volta lo sia” sospirò Joe, con le ginocchia portate al petto e quell'aria spaurita che la faceva rassomigliare più ad una bambina che alla donna che effettivamente era.
“Devi solo imparare a perdonarti”
Sirius Black era un uomo solitario e triste – vuoto – e questo Joe lo aveva capito solo standoci a stretto contatto; non aveva mai superato la morte del suo migliore amico, il suo averlo mandato al patibolo, e stare dietro il velo non aveva certo aiutato il suo spirito già piegato dagli eventi.
“Anche tu”
Già. Anche lui avrebbe dovuto imparare a perdonarsi e guardare avanti. Oltre.
“Salve” intervenne una terza voce, distraendoli e portandoli ad alzare lo sguardo verso la figura ferma proprio davanti a loro e che, troppo presi dai propri pensieri, non avevano nemmeno sentito arrivare.
“Ciao Lys” sospirò Joe, mentre il ragazzo in carrozzella avanzava con fare placido. Sulla difensiva – come sempre.
“Ho interrotto qualcosa di importante?” domandò angelico il ragazzo, rollando come sempre uno dei suoi soliti spinelli.
“Sì. La tua terapia” sorrise Joe, affabile, beccandosi un'occhiata storta.
“Dov'è Molly?
Ultimamente non mi da la caccia come un cane da tartufo”
Ecco perché era lì. Quando Joe aveva assunto Molly era assolutamente sicura delle sue capacità: da quando aveva perso il braccio, nell'ultima battaglia tenutasi ad Hogwarts, aveva sviluppato un'empatia e una dolcezza verso il prossimo unici. E persino i casi più difficili avevano imparato ad amarla.
Come Lysander.
“Quello stupido di Ed l'ha rifiutata e ha deciso di prendersi una breve vacanza. Qualche settimana e tornerà a prenderti per le orecchie ovunque tu ti trova” cinguettò la donna, alzandosi dagli scalini e guardandolo dall'alto con occhio clinico.
“Stewart ha fatto cosa?” borbottò Lysander, arrivando persino ad ignorare il suo sguardo per la sorpresa.
Già. Quel dispotico figlio di puttana aveva proprio intoppato quella volta e pure alla grande; nemmeno Molly era mai stata uno stinco di santo, ma quell'handicap l'aveva cambiata – affossata – ed era diventata fragile.
Così fragile da dover essere protetta come il più prezioso e delicato dei cristalli.
“Mi ha chiesto due settimane e non ho potuto rifiutare” sospirò Joe, ora affiancata da quel gran Marcantonio di Sirius.
Lysander li guardò con un sogghigno sulla bocca sottile.
“A guardarvi sembra che abbia davvero interrotto qualcosa” ridacchiò malevolo, beccandosi uno scappellotto da parte della donna.
“Va da lei...” mormorò, ora seria come non mai.
Lui era proprio come lei – stesso dolore, stessa mancanza, stessa diversità – e si completavano, amalgamavano, in un modo così perfetto da potersi capire anche senza parole.
“Vado a cercarla. Voi fate i bravi, che non ho voglia di subirmi i piagnistei di Zabini ogni volta che viene a rifornirsi a casa” sbuffò, afferrando le ruote della carrozzella e dando le spalle ad entrambi.
Si smaterializzò.
Non aveva mentito su Zabini; Lysander lo incontrava almeno quattro volte a settimana – per gli affari che avevano entrambi con la Colombia – e quello non faceva altro che piangere e piangere e piangere.
Ed era davvero un paradosso perché Lys non sapeva se Dalton se ne fosse accorto... ma lui era paralizzato dalla vita in giù ed era stato mollato dall'unica ragazza che avesse mai amato proprio quando era stato messo su quella sedia. Stessa ragazza che era passata allegramente al lato oscuro, trombandosi gli stessi uomini che avevano ucciso suo fratello e costretto lui in quelle condizioni.
Le ruote della carrozzina scricchiolarono sul parquet della stanza dov'era appena apparso e Lys socchiuse gli occhi azzurri – con un peso sullo stomaco che gli impediva sempre più frequentemente di respirare.
C'erano giorni in cui Alice gli mancava come l'aria ed era quasi impossibile non pensare a quando l'aveva avuta, a pensare a quando era così sua da non riuscire a capire quando iniziava lei e quando finiva lui.
Sorrise, perché sì – poteva gridarlo, metterci la mano sul fuoco – l'aveva avuta. E a lui poco importava che Tom Riddle, perché qui si parlava dell'uomo e non dell'essere oscuro che aveva piegato l'Inghilterra, se la sbattesse.
Lysander aveva avuto molto, ma molto di più.
“Ti ha mandato Joe, vero?” sussurrò una voce alle sue spalle e lui si girò, guardando il volto smunto di Molly ricambiare.
Erano così uguali. Così rotti da darsi la nausea da soli.
“Non mi davi più il tormento, così sono venuto a controllare di persona se fosse tutto apposto” rispose, facendo spallucce.
Il monolocale di Molly era piccolissimo, ma accogliente – caldo – e odorava sempre di biscotti e casa. La stessa dalla quale era fuggita. La stessa che la riteneva un'inetta.
Perché Molly lo sapeva... lei era un peso per tutti gli altri, proprio come lo era Lysander, che però aveva preferito un villino attorniato da una grande distesa d'erba.
“Mi sono presa una vacanza. Ero stanca” mentì, con i capelli ramati tenuti mollemente da un mollettone.
Erano così uguali. Così rotti da darsi la nausea da soli.
“Bugiarda” bisbigliò, mentre lei con il braccio buono abbassava la veste di raso rosa sulle gambe.
Erano uguali, rotti e inutilizzabili, ma Molly era bella come lo era l'estate dopo un inverno rigido e freddo e Lysander sospirò – bevendo la sua immagine. Beandosi del brivido che gli sciolse le ossa.
“Smettila con questa sceneggiata. Si vede benissimo che sai tutto” sibilò Molly a denti stretti, marciando verso la piccola cucina dipinta di giallo acceso.
Era ferita e Lys riusciva a vederlo dagli occhi gonfi e rossi. Ed era arrabbiata con se stessa – perché era sempre stata consapevole, perché sapeva di non essere all'altezza, ma si era incaponita lo stesso.
“Stewart è un idiota” sentenziò il ragazzo, vedendola affaccendarsi ai fornelli. Stava preparando un caffè all'italiana solo per non guardarlo in faccio e vergognarsi.
Perché provava vergogna per quel rifiuto. Perché lei aveva confermato quelle voci che la davano zitella a vita.
Perché allora era vero: un handicap non poteva essere cancellato con un sorriso.
Lei era difettata e lo sarebbe stata per sempre.
“Io non ce l'ho con lui” sussurrò Molly, poggiandosi contro il cotto sul ripiano della cucina.
Lei era difettata e lo sarebbe stata per sempre.
“Io ce l'ho con me” continuò, stringendo così tanto gli occhi da farsi venire il mal di testa.
“Molly... Molly, guardami
Ora era alle sue spalle e Lysander spostò la sedia di legno accostata al tavolo rotondo che gli impediva di raggiungerla.
Difettata. Rotta. Guasta.
“Guardami!” le ordinò con tono duro e lei si girò di scatto, con le guance rosse bagnate.
“Stewart è un idiota. E non è colpa tua se quello di donne non ci capisce un beato cazzo. In ospedale e al Ministero ti amano tutti, nessuno escluso e non è solo perché gli fai pena.
E il tuo braccio non ti impedisce di essere un medimago fantastico – anche se rompiballe e una donna bellissima” disse e la sua vocina interiore scoppiò in una fragorosa risata.
Ridicolo. Lui davvero credeva in quello che aveva detto, ma in un controsenso bastardo si odiava perché si sentiva ogni momento della propria giornata come si sentiva lei in quel momento.
Difettato. Rotto. Guasto.
“E allora perché ti odi così tanto da non volerti dare la possibilità di tornare a camminare?” gli rinfacciò la ragazza, quasi con aria trionfante.
“Perché penso davvero che tu sia bellissima”
Molly si bloccò nel girarsi verso la caffettiera che fischiava sul fuoco e lo guardò sbigottita. Bella come l'estate dopo un inverno rigido e freddo.
Triste e gelida come la neve che sotterra il verde gioioso della primavera.
“E tu non sei morta dentro come lo sono io. E non voglio, Molly, non voglio che tu diventa così” continuò – con la solita espressione vuota sul faccino d'angelo che ad Hogwarts era sempre perso in un mondo dove mai nessuno era entrato.
Nessuno, tranne Alice.
“Cosa te lo fa pensare? Cosa ti fa pensare che io non sia morta dentro dopo questo?” sibilò incattivita, indicando con il mento il braccio totalmente assente.
Già. Era Ridicolo. Cosa gli faceva credere che lei non si odiasse come si odiava lui? O che non fosse davvero rotta. Disintegrata.
“L'unica differenza tra me e te è che io non voglio essere infelice. Io non mi costringo ad evitare la felicità perché penso di non meritarlo, ma è l'infelicità che cerca me” urlò questa volta, con le lacrime che dal mento le stavano macchiando il pizzo fine della scollatura.
Lysander chiuse gli occhi, ferito, ma consapevole – come sempre.
Era vero. Era tutto maledettamente vero. E lui si odiava anche per quel motivo.
Da quando il suo mondo si era capovolto si era dato la colpa di ogni cosa ed evitava qualsiasi cosa che potesse rialzarlo. Qualsiasi cosa che potesse farlo risentire come quando ad Hogwarts la felicità era di casa.
Perché suo fratello non poteva. Perché si era fatto piegare durante la battaglia ed era diventato un essere totalmente inutile – così tanto da non poter stare nemmeno con la propria donna.
E con quale rimorso avrebbe vissuto sapendo che Alice non fosse stata felice al proprio fianco? Una vita fatta di sesso squallido su una sedia o sdraiato come un morto su uno schifoso materasso.
Una vita dove lui sarebbe stato per sempre un mezzo uomo. Qualcuno che non sarebbe stato in grado di proteggere la propria donna da qualsiasi cosa. Persino da un insetto.
“È differente. Non è la stessa cosa” bisbigliò con un magone alla gola, senza avere il coraggio di aprire gli occhi.
Quei demoni non lo lasciavano mai e certi giorni impazziva. Certi giorni la tentazione di farla finita era così forte da strappargli ansimi impauriti – sicuri della fine. Sicuri della spada di Damocle che gli pendeva sulla testa.
“È lo stesso dolore” disse Molly ed era così vicina che Lysander sentì il suo alito accarezzargli il volto. Sapeva di sandalo e miele. E lui spalancò gli occhi.
“La stessa ansia. Le stesse paure” continuò, ora inginocchiata ai suoi piedi e a pochi centimetri dalla propria bocca.
Aveva il cuore che batteva così velocemente nel petto da fargli temere un infarto, ma non si allontanò. Rimase lì, a contemplare il ghiaccio delle sue iridi e le efelidi che le sporcavano la pelle di porcellana.
Bella come l'estate dopo un inverno rigido e freddo. Triste e gelida come la neve che sotterra il verde gioioso della primavera.
La baciò. Si sporse quel tanto che bastava da appoggiare le proprie labbra sulle sue – abbeverandosi del suo respiro e beandosi del contatto con la lingua quando le chiese senza gentilezza l'accesso.
La sua bocca era morbida e dolce, sottomessa come lei. Insicura come lei.
Lysander affannò, afferrandola per la nuca e tenendola così stretta per i capelli da farle saltare il mollettone; con il pollice le incavò la guancia – consentendosi più accesso e le morse il labbro inferiore fino a sentire il sangue mischiarsi con la saliva.
Molly gemette e Lys quasi morì su quella sedia, senza fiato. Senza testa. Senza cuore.
Il caffè si era raffreddato nella macchinetta spenta più di cinque minuti prima e Molly si staccò da lui solo alzarsi con le ginocchia dal parquet e salire a cavalcioni sulle sue gambe; i piedi toccarono terra e Lysander non sentì alcun peso su di sé.
Non sentì la pelle delle sue gambe strusciare contro di lui e si odiò. E la odiò – baciandola con una tale furia da strapparle un ansimo sorpreso; con le mani le sfiorò il collo nudo e poi il braccio con cui si era aggrappata alle sue spalle, deliziato, arrabbiato. Confuso. Ammaliato.
E sì odiò. E la odiò, ma quando lei rovesciò il capo all'indietro le morse la spalla così forte da strapparle un urlo. Per rabbia. Per libidine. Perché era completamente impazzito per fare una cosa del genere. Perché sembrava una cosa così giusta da risultare fittizia.
Erano anni che non faceva l'amore con una donna, pensò quando Molly gli abbassò i pantaloni e i boxer – stringendo con dita tremanti la sua erezione.
Anni, che una donna non lo toccava così o che lo eccitasse al primo colpo.
“Guardami” lo supplicò Molly con voce tremante, cercando il suo sguardo disperatamente. 
« Guardami », sembrava gridare.
« Sono io, io. Non qualcun altro, ma io. »
“Ti sto guardando” la rassicurò Lysader roco – infilando due dita nelle mutandine di pizzo coordinate con la sottoveste. 
Ed era vero. La stava guardando. La stava osservando così tanto da imprimersela sulla pelle, nelle ossa, sul cuore, eliminando tutto il resto.
Perché la odiava. La voleva. E stava impazzendo.
“Ti sto guardando” ripeté ammaliato – mentre Molly affannava sulla sua bocca e le proprie dita aumentavano il ritmo.
Era lei, mezza nuda, sulle sue gambe, senza un braccio e con gli occhi rovesciati dall'eccitazione.
E la odiava. La voleva. Ed era assolutamente ed irrimediabilmente impazzito.

   
 
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