Hell's Road.
26
/ Ricongiunzione.
Al
dì la della notte, il crepuscolo avanzava sfilacciandone il manto criptico e
profondo con raggi di flebile visibilità. Che fosse lenta o incalzante, la
danza che avvinghiava l’intera esistenza non poteva fare a meno dell’essere
ripetitiva, disgustosamente costante nel ripiegare sulle ovvietà che scandivano
il tempo in giorni, mesi e anni. Il concetto di vita racchiuso in un fatale connubio
con la propria tediosità; il susseguirsi delle albe e dei tramonti produceva
più conforto del spremerne l’essenza sino all’ultima goccia.
- Sembra che ce l’abbiano
fatta. -
Road
Kamelot flesse i piedi scalzi, fissando il soffitto col viso cenerino stretto
nella consueta espressione indecifrabile che ne corazzava i pensieri; la
malevole dipendenza dai dolci ne stava impegnando la lingua a consumare un
leccalecca particolarmente zuccherato, attività scandita da intervalli
irregolari dove mirava il dolce con fare guardingo, per poi riprendere il
lappare fra i morbidi cuscini della poltrona rosata. Vegliare su Tyki Mikk e Jusdebi
senza poter pizzicarne le guance ne faceva roteare le iridi cerulee in
continuazione, annoiate per come la sua stessa pigrizia e il silenzio
aleggiante fossero riusciti a imporsi su una qualunque altra possibile
alternativa, ma a prescindere dalla tediosità che ne intorpidiva il corpo magro
e scoperto quel tanto che bastava da indurre chiunque a domandarsi se in lei
esistesse un minimo senso del pudore, Road avrebbe come e comunque scelto di
rimpinzarsi di dolcetti piuttosto che mettere il naso fuori dalla porta.
L’Arca
Bianca si era salvata.
Dalle ceneri crepitanti il suo destino scritto si era levato un canto pregno di
ricordi torbidi e sfregi mai completamente rimarginati. Avida, ingoiò un
sostanzioso groppo di saliva. Il dispiegarsi delle sue ali al seguito della
melodia le era giunto sottoforma di invocazione, un blando brivido in confronto
al fremito che le aveva artigliato la spina dorsale con l’intento di
spezzargliela. Il
cuore ancora le batteva con ansito basito e nella quiete soffusa della stanza
concedeva ai pensieri dilaganti una voce potente: al Conte del Millennio non
rimanevano che l’antico rancore pronto a scorrere in fiotti aurici e l’affronto
appena subito da condividere con il resto della Famiglia, ma neppure a lui, che
affondava i piedi in quella terra da oltre settemila anni, era concesso
immaginare cosa in Road Kamelot invece si era manifestato. Lo avevano percepito
attecchire in entrambi, in tempi diversi, rimasti in attesa e con la coscienza
pronta a riprendere quanto lasciato in sospeso. Eppure, anche se erano i soli
rimasti della vecchia generazione, solo la mente del Sogno si era conservata
illibata, nelle ferite; serbava la lucidità necessaria a sopportare la vista di
quel volto senza che il proprio ego oscillasse fra fermento e pazzia,
nascondendosi dietro un corpo di bambina immortale che altro non era che la
perfetta incarnazione di quello che lei era diventata da oltre trent’anni. Un’illusione
serafica, dal sorriso fanciullesco e malizioso, pieno di segreti.
Un nuovo sguardo sui
fratelli la fece raddrizzare, chinandosi appena in avanti con le mani premute
sui cuscini e la corta chioma appuntita a solleticarle le spalle nude. Jusdero
e Debit dormivano insieme, malamente avvinghiati e con le coperte gonfie e bitorzolute;
il primo era accoccolato al petto del secondo, che col braccio ne avvolgeva le
spalle con fare protettivo. Non davano affatto l’impressione di essere due
inguaribili casinisti buoni solo a spararsi a vicenda. Indubbiamente, era Tyki
quello messo peggio. Il corpo cicatrizzato e avvolto da morbide bende riposava
placido in un profondo sonno senza sogni. Avrebbero dormito a lungo, ma, una
volta coscienti, avrebbero realizzato l’accaduto e i conseguenti sforzi attuati
che ne avevano permesso la sopravvivenza. Noah non perdonava, nè si lasciava
sopraffare: combatteva, emergeva, più iracondo se occorreva, ma non cedeva.
Sebbene
fosse uno spirito artificiale, nel corso dei secoli si era molto divertita ad
apprendere le abitudini umane e il sonno, fra questi, era un rituale di ozioso
piacere per quei dì che non aveva voglia di fare nulla al dì fuori del rimanere
nella sua personale dimensione. Giacché l’affrontare un Livello Tre le era
quasi costato la vita, nessuno – neppure quell’oca squinternata di Bak Chang
che tanto si divertiva a tirare matta -, si era permesso di infastidirla, ma il
vociare dell’intera Sede, impazzita di punto in bianco ad un’ora di inumana
indecenza, l’aveva obbligata a marciare con una falcata poco decorosa alle
fattezze femminili che gli striminziti abitini lilla coprivano miseramente. Il
pestare la regale testa dello sfaticato a capo di quella mandria di idioti passò
in ultimo piano non tanto per lo scoprire uno nugolo di Esorcisti comparsi dal
buco di luce bianca sopra cui l’equipe aveva tessuto trattati di fantomatiche
teorie senza mai arrivare a nulla di fatto, quanto l’arrivare giusto in tempo
per godersi il più spettacolare calcio volante che avesse mai sfondato la
faccia del Generale Cross, dopo che questi aveva schivato uno scaffale e una
falce saettati fuori dal portale luminoso.
- A…Amèlie-san! -
Four
vide quella che, dalle foto sbirciate, doveva essere Lenalee, portarsi le mani
alla bocca frastornata. Allen Walker invece rimase semplicemente incastrato fra
l’essere scioccato e l’inorridito, per come quel tizio fosse finito fra
scatoloni e trecce di fili elettrici lasciate scoperte.
- L’ha
preso…Ha preso in pieno il Maestro... -,
lo si sentì biascicare pietrificato.
La
donna ignorò il totale delle loro reazioni avanzando a falcate decise e
zoppicanti verso il malcapitato. Perfino la piccola scaricatrice di porto si
unì alla tensione condita di multiple espressioni e macchinari singhiozzanti segnali
elettrici, ma il suo silenzio era un parto esclusivo della propria curiosità
nel voler rimanere a crogiolare comoda mentre si godeva l’accavallarsi degli
eventi: seppur sprovvista di prove, giurò a sé stessa che sul viso di quella
tipa scarmigliata da capo a collo vi fosse dipinta la morte in persona.
- Vogliate
scusare l’irruenza, Maestro, ma ho
pensato che un’entrata ad effetto vi avrebbe fatto desistere dalla fuga -, rantolò
furente la corvina, tirando il suddetto su per il colletto - Tu. Io. Conti. Adesso! -
- Che
piacere rivederti, Chibi-chan -, la
salutò l’uomo gioviale, incurante del volo compiuto e sollevando una mano in
segno di saluto - Cominciavo a preoccuparmi, sai? -
- Davvero?
Da come cercavi di allontanarti mi era parso che volessi dileguarti ancora. –
- E
perdere così la possibilità di dirti che sei a dir poco stupenda? Così mi
ferisci, Chibi-chan. –
Il
fragore del destro di Chibi-chan, abbattutosi sulla capoccia dell’uomo, fece
tremare il pavimento del laboratorio fumando per l’incisività utilizzata. Il
suo eco accartocciato si prolungò sino agli angoli impolverati dei piani
superiori. Neppure le ferite riportare con lo scontro di Lulubell sortivano un
qualche effetto narcotico sull’Esorcista, assuefatta da eccessivo dosaggio
d’adrenalina che ne pompava a mille gli organi in funzione. Dal sangue
essiccatosi sotto le fasciature di emergenza si intravvedevano appena delle
striature che scemavano in chiazze scure.
- Sono
perfettamente consapevole di essere sublime.
– E ciò bastò per far ammutolire tutti i presenti, già sull’attenti per la
mortale glacialità di quella lingua serpentina - Ma siccome Sua Altezza
ha la zucca dura, vedrò di mettere le cose in chiaro: non ho alcun interesse su
come sfrutti le persone e l’unica ragione valida per cui mi sono trascinata
dietro quello scaffale è stato per ricordarti che io non sono una di quelle
persone, ne tutte le altre. Se ho
assecondato il tuo insulso senso di irresponsabilità è solo ed esclusivamente
perché sei tu a essere in debito con me e dovresti solo prostrarti ai miei
piedi per tutti i soldi che mi devi, per non parlare di come ti sono venuta
magnanimamente incontro. Tralasciando gli Akuma, ho dovuto sorvolare un intero
oceano sorbendomi le lagne della tua schifosa guida, vedermela con una stronza
che ha avuto l’ardire di sfidarmi e questo prima di finire quasi soffocata da
mezza tonnellata di libri dopo essere stata mollata di punto in bianco, ma quello
che più mi fa ribollire dalla rabbia è la tua assoluta noncuranza per le
conseguenze! Guarda com’è conciato il mio viso! E vogliamo parlare dei
vestiti?!? Questi erano i miei stivali preferiti! Tutte queste cose sono
indispensabili per la mia immagine e tu ci sei passato sopra infischiandotene! Hai
almeno una vaga idea di quanto tutto questo ti costerà?!? –
- Posso
dire in mia difesa che…? –
- SILENCE!* – Ancor prima di lasciarlo
terminare, un secondo pugno risuonò nel laboratorio, incutendo nuovo terrore
nei presenti, lungi dal mettere il dito in quella che a stento poteva definirsi
una piacevole conversazione. Quando poi Amèlie fece schioccare l’ovale
malconcio verso di loro, ogni singulto fu trattenuto spontaneamente per evitare
un qualsivoglia attecchimento all’irascibilità che saettò gelida oltre la
spalla di Allen, dove Timcampi la spiava impaurito. A te penserò più tardi, trasmetteva l’onice luccicante di vendetta
e ciò bastò a far tremare il piccolo boccino.
- Mamma
mia. E pensare che sa essere ancor più terrificante di così… – La testa rossa
vicino a Lenalee pigolò inorridita, stentando a sostenere con i propri occhi un
simile massacro.
- Il
Maestro…Sta picchiando il Maestro...! – Allen sembrava aver perso la
capacità di intendere e di volere nel constatare che esisteva qualcuno realmente
capace di infierire sul Generale senza mostrare alcun tipo di remora.
Seppur
le identità e i conseguenti legami le fossero ignoti, Four si dilettò
nell’osservare il protrarsi della scenetta gongolando vispa, sorvolando
tranquillamente sulle unghie di Bak Chang che, vigliaccamente accucciato dietro
la sua schiena, affondavano nelle spalle nude. Se soltanto avesse avuto
qualcosa da accompagnare al pacchetto di patatine che giusto aveva appena
aperto…
- Suvvia,
Chibi-chan –, la blandì il Generale,
con quello sguardo impudico che si era conquistato favori e cuori di centinaia
di donne, quasi non avesse risentito delle botte che invece ben sventolavano
sulla sua testa - Non avrai davvero pensato che abbia richiesto i tuoi preziosi
servigi senza una valida ragione? –
- Me
ne sono fatta un’idea mentre strisciavo sotto un quintale di macerie, ma sono
comunque ansiosa di ascoltare la tua versione -, sibilò – E piantala di
chiamarmi in quel modo assurdo! –
Un
barlume di maligna euforia animo gli occhi di Four - Ih ih! Adesso lo uccide! –
- Oh,
riflettici attentamente, Chibi-chan.
– Con la parte superiore dei piedi, l’uomo si diede la spinta per sostenersi
con le proprie gambe, rimanendo tuttavia ostaggio di Amèlie, che non accennava
a lasciargli il colletto della divisa - Ero solo, in una terra popolata da
Akuma e con scarsissime probabilità di successo: la mia condizione non mi
consentiva certamente di fornirti il quadro completo della situazione, per questo
ho confidato sul tuo spirito di prontezza. Pensi davvero che per un computo
tanto delicato avrei potuto chiedere aiuto a quegli inetti laggiù? – E indicò
con la testa i due ragazzi corrucciati, escludendo Lenalee, la cui intuizione
su quale strategia il Generale stesse cercando di applicare si concretizzò con
il chiudersi degli occhi mentre un profondo sospiro ne solleticava le labbra
sottili.
Osservare
Amèlie Chevalier, in quelle poche occasioni dove gli impegni le concedevano di
sostare alla Home per un periodo vagamente più lungo dei consueti, le aveva
insegnato che ciascuna persona nasceva con un quantitativo di pregi e difetti
di proporzioni differenti a seconda del carattere. Che la Maitresse della Rosa
Nera difettasse di modestia non era poi quel gran segreto per cui valesse la
pena stupirsi, così come il compiacerne l’ego vanitoso o il tesserne le lodi
anche a costo di farsi cadere la lingua per lo sforzo risultassero essere due maniere
particolarmente efficaci per sollecitarne l’attenzione. Da che ricordava,
Marian Cross doveva la sua lunga lista di amanti anche al suo saper usare le
parole, dosandone il contenuto emotivo sulla base di una tempistica scandita da
gesti altrettanto misurati a seconda delle vicissitudini, ma per Amèlie sarebbe
stato impensabile cadere in una così stucchevole maglia di trame. Lei sapeva
chi aveva davanti e cosa aspettarsi, e nel confrontarsi con un’immagine dalla
consistenza simile alla sua, si ergeva in tutto il suo carattere per marcare la
propria identità. Nessuno era mai in grado di contraddirla o, peggio ancora, di
interromperla in ciò. Al
cogliere le mani inguantate del Generale afferrare con rapida delicatezza
quelle della francese – non azzardandosi a interrompere il contatto visivo che
le sue iridi sanguigne detenevano con quelle della sua ex-allieva -, Lenalee
inghiottì un sostanzioso groppo di saliva e rimase in attesa.
- Mi
serviva qualcuno di eccezionale. Qualcuno di capace. – Il viso dai lineamenti
marcati tagliò di qualche millimetro la distanza che divideva il suo pizzetto
rosso dalle labbra scolorite della donna – Qualcuno con competenze e abilità
simili alle mie, che agisse fuori dagli schemi. Imprevedibile, brillante, qualcuno
di cui mi potessi di fidare ciecamente. E tu, mia cara…Tu eri esattamente la
persona che faceva per me. A chi meglio della mia bellissima, indomita, e
sottolineo preferita allieva, avrei
potuto affidare la riuscita di un mio piano? –
Cadde
il silenzio, la tensione spezzata giusto dal fluire elettrico che attraversava
i grossi cavi dei computer e il croccante masticare di Four. Il minuto esserino
se ne fregava se l’affondare della sua mano nel pacchetto di patatine fosse
troppo rumoroso, un simile accartocciare di plastica non avrebbe impedito a
quella stangona dalle prosperose forme di trasformare definitivamente
l’accettabile massacro in una sanguinolenta carneficina. Cosa che il Guardino
Mistico sperava ardentemente di vedere materializzato, a prescindere dal trauma
psicologico che avrebbe incitato tutti i presenti a riflettere molto
attentamente prima di far imbestialire quella tipa…
- MA
FAMMI IL PIACEREEE! –
E
che la fece squittire con le braccia al cielo all’udire il celestiale sinistro
che quest’ultima sfoderò per far sprofondare l’uomo nel cemento armato.
Tornare
alla Home dopo tanto tempo fu come riappropriarsi di sensazioni e movenze
annichilitesi per mancanza di pratica. La familiarità delle mura scure, con gli
immensi saloni e le guglie spettrali, dall’esercitare un’iniziale inquietudine
era passata a esprimere un calore rassomigliante quello che si provava
stendendo le mani davanti al focolare di una casa accogliente. Era recente,
quell’aria aleggiante di rassicurante morbidezza, un toccasana alla fredda
indifferenza ancora percepibile in certi angoli, da bocche che a volte non
riuscivano a tenere freno la propria lingua, ma nella deliziosa speranza che
essa si protraesse più a lungo, il Supervisore Komui già era consapevole che
l’idillio altro non era che un limbo antecedente i futuri tempi nefasti. Lo
studio sommerso dal consueto disordine di materiale generico denotava il suo
essere un po’ trasandato e pigro che ben si confaceva al volto sciupato e
solcato da profonde occhiaie che gli occhiali squadrati minimizzavano
blandamente. Dal ritorno delle Unità erano trascorse appena tre settimane – che
per una serie di vicissitudini legate all’inoperosità del tempo, riunioni e
scartoffie varie, equivalevano a molto di più -; con il mento appoggiato al
dorso della mano e il ciuffo inchiostrato di riflessi elettrici a sfiorargli la
guancia pallida, il cinese aveva già somministrato più di un centinaio di
direttive a ciascun reparto che potesse fornire un utile sostegno all’analisi
dell’Uovo recuperato e all’Arca Bianca ora sospesa sopra la cima della Home. Le
dita della mano libera sfogliavano un plico di fogli il cui leggero frusciare
si alternava al respiro pressoché inesistente, con gli occhi blu carichi di
attenzione per ogni singola parola scritta sopra. Coglierlo nel profondo della
concentrazione contribuiva a plasmare una versione inconsueta di quell’uomo
tanto eccentrico, ma nessuno della Sezione Scientifica avrebbe mai smentito
l’esistenza della professionalità di Komui Lee. Vibrava di un’umanità forte del
desiderio di non lasciar cadere gli Esorcisti nel baratro dell’oggettività.
- Allora,
Supervisore? – Dal divanetto stante di fronte alla scrivania, Amèlie fece
oscillare il bicchiere di tequila che teneva fra le punta delle dita prima a
destra e poi a sinistra, in un sinuoso movimento a cui concesse un paio di
secondi prima di portarsi il calice alle labbra.
- E’
un rapporto notevole, non potevo aspettarmi niente di meglio da te. – Komui
sollevò la testa sorridendole amichevolmente, mentre appoggiava sul tavolo il
resoconto ricevuto prima che la donna si unisse al gruppo di sua sorella. Con la
mole arretrata di scartoffie non era stato in grado di leggerlo accuratamente,
vedendolo così approfittare della momentanea presenza dell’Esorcista francese
per ottenere una versione più diretta delle sue attività – Ma mi domando se tu
non ti stia calando un po’ troppo nei panni dell’assassina. –
- Se
preferivi che quei Broker continuassero a inscenare la morte dei loro pazienti
solo per rivenderli al mercato nero, non avevi che da chiedere: mi sarei
limitata a riferirgli che ciò andava contro la morale di Nostro Signore -, ironizzò lei, crudele, sorseggiando il liquore
con le guance imporporate di un vago rossore – Anziché preoccuparti di come
gestisco la feccia, non vedo una valida ragione per cui tu debba trattenerti
nel fare pressione ai piani superiori affinché mi diano una percentuale degna
del mio operato: la paga d’Esorcista è una vera miseria. –
- Perché?
Hai problemi con il tuo locale? – Domandò incuriosito l’uomo.
- No,
ma si dia il caso che sia una donna con parecchie esigenze -, gli rammentò – E
amo i soldi, quindi ne voglio di più. -
Sospirare
profondamente non avrebbe attecchito in alcun modo alla cocciutaggine che la
donna vestiva e non c’era modo per la coscienza di Komui di interferire con le
convinzioni forgiate da una vita che lui non poteva permettersi il lusso di
conoscere. La schietta incontentabilità di Amèlie lasciava intendere che fosse
una donna incapricciata, di vanità egocentrica che rinnegava le comuni
pulsazioni emotive per cingerne una manciata contorta di forma astratta, ma di
sostanza pregna a sufficienza della sua irremovibilità perché la consistenza ne
calcasse i gesti le parole; era quel suo tener conto unicamente sé stessa –
affinato o ereditato che fosse – ad acuirne l’arroganza che pungeva nel
profondo chi non sopportava giudizi colpevoli, il tagliente cinismo che si
ritagliava la propria indipendenza come la flessuosa nuvola di fumo acre che
assaporava la libertà nell’essere espirata, ma a ben pensare, quale uomo non avrebbe
sorvolato su tali difetti pur di avvicinarsi? La sua era una bellezza terrificante. La mirò accavallare le
gambe, scrutando con le palpebre socchiuse il bicchiere di tequila, dove i
cubetti di ghiaccio grattavano con gli angoli contro il vetro spesso. Il pizzo
nero – leggero da rasentare la trasparenza - aderiva al corpo come una seconda
pelle, scoprendo una scollatura alle spalle e al seno superate soltanto dagli
spacchi laterali che le arrivavano quasi ai fianchi. Anche nella Home, la maschera rimaneva una costante improrogabile. Era
quel tipo di persona che non offriva l’occasione di farsi capire, forse perché
quello che c’era da capire non era affare di nessuno al di fuori di lei. Ciò
che mostrava senza veli e ingente presunzione si intrecciava nei gambi spinosi
del suo carattere, salvo poi usarlo spregiudicatamente per distanziare chiunque
provasse a domandarsi cosa realmente si celasse dietro l’astrusità del suo
ovale perfetto, di pelle chiara come la luna virginea. A nulla erano valsi gli
sbraiti della Capo Infermiera quando aveva abbandonato il letto benché sotto le
bende si celassero ruvide abrasioni ora di un liscio rosea in procinto di
svanire senza lasciare segni controproducenti. Eppure, Komui Lee non ce la
faceva proprio a non preoccuparsi, anche se si trattava di lei, un demonio
adulto e vaccinato dalle mani sporche di sangue il cui unico interesse era la
propria persona; perché, nel profondo, il cuore colmo di magnanima indulgenza
le riconosceva meriti sinceri, una severità nell’affrontare la sua vita di
Esorcista da far trapelare ugualmente il proprio desiderio di seguirla secondo
le sue regole.
- Potresti
approfittare della sospensione delle missioni per riposarti qui alla Home -, buttò
lì il Supervisore – Giusto il tempo di verificare se la tua Innocence abbia
bisogno di riparazioni. –
- Il
che richiederebbe giorni, se non mesi, considerando il fatto che siete tutti
occupati ad analizzare l’Arca e l’Uovo in vista dell’arrivo di Lvellie -,
replicò con altrettanta casualità volontaria Amèlie, lo sguardo annoiato,
rivolto al soffitto - Hai un modo curioso di esternare la tua preoccupazione
nei miei confronti: pensavo l’avessi capito che sia per me che per lui è meglio
non condividere lo stesso tetto. –
- La
mia era solo una gentile offerta e poi non puoi avere la certezza che verrà lui
e non qualcun altro a discutere della faccenda -, intese chiarire il cinese.
- Oh,
ti prego, Komui! Sappiamo entrambi che l’Ufficio Centrale non spedirà qui un
investigatore fresco di promozione per presidiare il meeting. – Sbuffando
languidamente, si sollevò in piedi. Le sue gambe nude svettarono allo scoperto
per qualche millisecondo - Abbiamo fra le mani la matrice con cui il Conte del
Millennio crea i corpi magici degli Akuma e il vascello che ha utilizzato per spostarsi
in ogni dove, senza contare il coinvolgimento dell’adorabile Allen-kun nel
recupero di quest’ultimo. –
- Ragione
in più per averti qui. - Komui si chinò in avanti, intrecciando le dita con i gomiti
appoggiati sulla scrivania, la consueta posizione con cui affrontava ogni sfida
odierna – Avendo lavorato sotto specifiche direttive impartite da Marian Cross
sei coinvolta nel recupero dell’Arca Bianca, pertanto c’è la forte possibilità
che tu venga convocata davanti a una commissione per esporre i fatti avvenuti. –
- E
tu, oltre alla scarpinata fino a Roma, vorresti evitare che questa commissione -, e fece il segno delle virgolette – Non si
trasformi in plotone giudiziario pronto a farmi la pelle. -
- Ti
prego, Amèlie. – L’uomo si impuntò, non preoccupandosi di nascondere l’apprensione
segretamente covata – In questa faccenda ci sono troppi interrogativi perché l’incontro
verta soltanto sul futuro utilizzo dell’Arca e dell’Uovo, e il Sovraintendente Lvellie
non è certo un uomo che sappia accontentarsi delle generalità. –
- Insinui
forse che stia nascondendo qualcosa? – Indagò la donna, soave.
- Sto
solo dicendo che ti conosco e vorrei evitarti dei guai -, obbiettò il cinese -
Se sei in possesso di qualche informazione che non è stata stilata nel rapporto,
sarebbe saggio rendermene partecipe. La questione è seria. –
- Ovvio
che lo sia, altrimenti non saremmo qui a discuterne -, concordò lei,
ancheggiando in direzione della porta - Ma per quanto riguarda me, vanto una
situazione nettamente diversa da quella di Allen-kun e se anche così non fosse,
ho già dimostrato alle autorità che è meglio per tutti avermi come amica invece
che come nemica, e non mi riferisco soltanto alla mia indispensabilità. –
Avvolse
la mano attorno la maniglia d’ottone della porta, voltandosi un’ultima volta
verso il Supervisore, visibilmente sconfitto e al tempo stesso frustrato
dall’idea che in qualche maniera lei, ancora una volta, fosse riuscita a
spuntarla.
- Pensa
a intercedere per Allen-kun anziché per me. Mammina sa badare a se stessa. –
- Un’atmosfera da brivido.
- Bak Chang storse il naso, infastidito, voltandosi verso il suo pasto con la
forchetta a giocherellare fra le dita – A saperlo sarei rimasto in sede... –
- Nessuno ti trattiene,
signor Direttore di filiale -, lo
punzecchiò Lavi, con la guancia premuta al dorso della mano – Se non sbaglio,
Komui ha detto che potevi tornartene a casa, vista la tua inutilità. –
- Bada come parli,
moccioso: dovreste ringraziarmi in ginocchio che io sia qua a offrirvi il mio
contributo -, replicò altezzoso il biondo.
- Parlano tutti di
Allen-kun… -, pigolò Miranda, espirando con la mano stretta in petto. Il
suddetto si trovava al loro stesso tavolo, poco più distante, con Lenalee a
fargli compagnia e un centinaio di piatti che continuavano ad accumularsi
ininterrottamente.
- Sono solo voci di
corridoio, niente che sia stato ufficialmente confermato -, cercò di
rassicurarla Marie – E’ la presenza dell’Uovo del Conte del Millennio a renderli
così irrequieti. –
- Me lo auguro. Allen-kun
n-non è certo un nemico… - Affermò titubante la donna.
Eppure nessuno, al
momento, si sentiva in grado di redigere giudizi sull’accaduto. La frenesia da
ricollegarsi agli artefatti sopra cui la Sezione Scientifica stava lavorando
ininterrottamente giorno e notte bastava a rendere noti future problematiche.
L’Uovo, in particolare, suscitava il fascino dell’ignoto, con la sua luce
bianca pulsante di battiti sordi. L’atteggiamento dei presenti era incline al
tenere basse le proprie opinioni, ma non abbastanza perché rimanessero silenti
e non contribuissero a ingigantire i grattacapi che pressavano l’accoglienza
della Home. Lo stesso Marie non poteva dirsi completamente sicuro sull’avvenire
che li attendeva, specie su quello di Amèlie, ma ricamare una parentesi sulla
sua amica di infanzia lo costrinse quasi immediatamente a richiuderla con
sbuffo divertito: lo avrebbe linciato vivo, se le avesse rivolto una qualche critica
sul suo operato o un’eventuale preoccupazione per qualunque fantomatica
confabulazione da lei ordita. Era molto meglio confidare nel fatto che sapesse
sempre cosa fare e quando agire piuttosto che incorrere nel suo caratteraccio.
Anche Bookman non aveva
mancato di cogliere i dettagli essenziali della trama in atto: gli occhi scuri
valutavano tutt’ora la spigolosità e le precauzioni adottate, che giusto
individuò scivolare fra la calca con movenze serpentine; l’andatura decisa e
cadenzata grazie alle quali si mischiavano ai civili li avrebbero traditi
soltanto se nel loro portamento fosse mancata l’impronta di un rigore ligio al
totale rinnegamento della propria vita. La presenza dei Corvi non era un segno da cui si potessero trarre positività,
significava soltanto che l’Ufficio Centrale
era organizzato in modo tale che ogni evenienza venisse misurata con le giuste
precauzioni. Seguendo l’ormai istintivo osservarsi attorno, Lavi, insieme al
mentore, ne aveva contati circa una decina aggirarsi per l’Ordine, non mancando
di sondarli col pensiero che le cose stessero mutando rapidamente. Ma mai
grande fu la sua sorpresa nello scorgere un’ulteriore anomalia in mezzo a tanti
camici bianchi e divise impeccabili.
- Pierre? –
- Come dici, Lavi? –
Domandò Miranda.
- Il pupillo di
Amèlie-san -, rispose frettolosamente lui, alzandosi in piedi per adocchiarlo
nuovamente.
Stavolta lo vide per
intero. La chioma castana fluttuava fra onde di morbidi boccoli, vantando una
riconoscibilità unicamente superata dai lineamenti ambigui e la lingua affilata
come la lama di una spada. Ricadeva lungo la schiena, schioccando a destra e
sinistra fra riflessi caramellati, con le ciocche più corte a ricadergli sulle
guance rosee. Gli occhi, diamanti d’acquamarina dai riverberi smeraldini, tingevano
la sua espressione della medesima freddezza con cui gli aveva rivelato di
essere un maschio. A ben guardarlo, il rosso ritenne una fortuna averlo notato
per puro caso: la semplice camicia a maniche lunghe – bordata di merletti sopra
ogni dire - e i calzoncini neri muniti di bretelle scure costituivano un
abbigliamento insolitamente sobrio, normale,
per un bambino abituato a portare capi molto più eccentrici. Lo seguì finché non
svanì inghiottito dal crocevia di gente che affollava le entrate della mensa.
- E’ lui, non posso
sbagliarmi -, affermò, tornandosi a sedere – Amèlie-san deve averlo fatto
venire dalla Rosa Nera. Chissà per quale motivo… –
- Ci hai mai parlato? –
Gli domandò a bruciapelo Bookman.
- Soltanto una volta e
per poco. Perché ti interessa? –
Carpire le emozioni
dell’anziano Esorcista, dietro le innumerevole pieghe rugose accumulatesi negli
anni passati, era un’impresa che soltanto uno spirito predisposto alla completa
abnegazione poteva adempiere; la spessa pittura nera che copriva la pelle
raggrinzita acuiva l’intenso scrutare, dalle palpebre discinte e permeate dal
bisogno di creare un evento e incorniciarlo con sotto un nome per identificarlo.
Lavi conosceva bene quel puntare un obiettivo e sviscerarne le informazioni più
nascoste e intuì l’interesse dell’anziano nel coglierne il perenne cruccio
stampato sul viso, impegnato a cercare qualcosa nei meandri della mente e che
stava sfuggendo dalle sue dita appuntite.
- Quel
moccioso nasconde qualcosa. –
Ne
aveva la certezza come se avesse potuto stringerla forte fra le proprie dita e con
in gioco l’onore della Maitresse della Rosa Nera e la propria reputazione, il
bambino si era sin da subito astenuto dal lesinare sulle proprie abilità che, a
conti fatti, gli avevano fatto guadagnare un grosso anticipo sui tempi d’arrivo
all’Ordine Oscuro e – maggiormente più importante - un cenno d’approvazione da
parte della donna a cui rispondeva incondizionatamente; ma, sempre per amore di
quella figura per cui nutriva una morbosa devozione, doveva perseverare nella
rinnegazione di qualsiasi palpito velenifero ed evitare ogni sorta di comportamento
deplorevole che potesse svantaggiare entrambi. Cosa di per sé facile, se gli
impiccioni si tenevano bene a distanza.
Allontanatosi
dalla mensa, l’odore di Chiesa si scatenò in un vomitevole olezzo che ne
solleticò gli anfratti reconditi dell’animo. Quel tipo non aveva fatto altro
che puntargli gli occhi contro la nuca, curandosi appena di mantenere una
distanza che, disgraziatamente, non compensava a sufficienza la sua mancanza di
discrezione.
- Che
cosa vuoi? – Fermatosi in mezzo al corridoio, Pierre si voltò.
La
nuca rasata, gli occhiali a fascia e l’abito preciso nelle pieghe si
insinuavano in veste di dettagli insignificanti. Se ne stava lì, a fissarlo
impietrito, e nel subire passivamente quel fastidio, il pupillo di Amèlie
Chevalier non intravide il tremolare dell’inesperienza, ma di un vissuto gli
riconosceva un crimine imperdonabile nei confronti della vita umana. Bastò quel
sussurro sconnesso e la pistola stretta nella mano destra dell’ufficiale perché
lo strappo si ingigantisse in una voragine e il tempo si riavvolgesse
precipitosamente.
- Tu…Eri
alla villa…Sei la Bestia di Erkenwald*.
-
- E’
un mondo così buio e cattivo da far paura a chi lo guarda troppo a lungo. –
Allungò la mano aperta sotto
la pioggia, stringendo la stoffa del palmo aperto in un pugno stretto.
Non aveva senso
attribuire a tanta liquidità incolore un significato opposto, il suo cuore era
riluttante a considerare quel requiem malinconico con sentimento diverso dal disprezzo,
mentre suonava con voce ritmica dolori passati, concentrandoli nell’unico
rabbioso rimpianto che si portava dentro, quasi fosse da sempre stato scritto
che lei e la pioggia dovessero vivere un eterno rapporto conflittuale. Non
lavava via ferite o sciacquava le mani dal sangue incrostato fra i polpastrelli;
anneriva l’umore portando a galla qualcosa che aveva accettato perché non vi
poteva essere ulteriore soluzione e non si trattava di prezzi pagati con fredda
indifferenza per un'altra briciola di potere da conquistare. Forse un avvertimento o, ancor più calzante,
una maledizione. Sul ciglio della torre, il volto abbassato, le braccia
conserte e le palpebre dalle lunghe ciglia scure calate sul mondo intero, erano
permeati di una solennità che avrebbero portato chiunque a credere
nell’esistenza di un legame inscindibile fra lei e quel Dio che l’aveva
designata come sua ancella in quella battaglia, ma come l’acqua che scorreva
libera giù dal cielo, l’impressione era temporanea. L’abito nero aderiva al
corpo bagnato e lucido, la pelle candida solcata da scie fredde che tracciavano
archi fra le curve e gli angoli scoperti del corpo, dove i capelli,
sfilacciati, erano adornati di perline trasparenti. Ricadevano lungo la schiena
disegnando lucenti arabeschi d’onice. Odiava la pioggia, sì, ogni parte
congestionata dal liquido gelo respingeva tutte le sfumature attribuite dall’uomo,
ma capitava che, a volte, Amèlie cercasse di coglierne l’anima, fra veli oscuri
che adombravano la notte; partiva col picchiettare frenetico che si abbatteva
sulla sua pelle, inspirando nei polmoni l’umidità che s’innalzava dal basso e
saggiando il muro invisibile che il suono in sé elevava tutt’intorno, per poi
tornare al punto di partenza, con l’orgoglio smussato d’angoscia per le persone
a lei care che l’avevano lasciata in giorni come quelli. Anita si era aggiunta
ad esse senza che lei, nell’istante in cui Lenalee le aveva consegnato la
lettera, ne rimanesse particolarmente sorpresa. La lettera che stringeva fra le
dita ingioiellate di gocce era un lascito dagli angoli svolazzanti e
l’inchiostro sbavato.
Mi dispiace. So che scusarsi non è il modo
migliore per cominciare una lettera, ma nella mia attuale posizione sento di
doverti molte cose, le stesse che non ti ho detto prima che ci separassimo, e
che in queste poche righe sono sicura non riuscirò a riferirti. Perché abbia
preso in mano la penna proprio ora, lo devo al fatto che tu, come me, conosci
l’importanza di vivere per se stessi: anche quando tutto ci rema contro, è in
noi che dobbiamo confidare per continuare a guardare avanti come abbiamo sempre
fatto. Arriva un momento nella vita dove si è costretti a dimostrare la forza
delle proprie scelte ed è ciò che ho fatto. Ho lasciato un marchio. Tu hai
sempre saputo cosa rappresentasse Cross-sama per me, ma incontrarti un’ultima
volta mi ha fatto capire quanto in realtà non fossi sincera con me stessa. Te
lo dissi anche allora, ricordi? Che ero un pochino gelosa di te…
Mi sarebbe piaciuto provare, comprendere,
almeno un po’, l’intima profondità che vi unisce. Anche senza vedervi insieme,
la presenza di Cross-sama al mio fianco è stata sufficiente affinché anche tu
fossi lì con noi; il tuo volto si accompagnava ai miei dubbi, pensarti quando
l’uomo di cui mi ero ripromessa di non innamorarmi mai si chiudeva nella sua
imperscrutabilità, diveniva così automatico da indurmi ad odiarti e di questo ti
chiedo ancora una volta perdono. La verità è che per tutto questo tempo non ho
fatto altro che auto-ingannarmi, perché sapevo di non essere la persona più
adatta a interpretare il suo carattere enigmatico. No. Credo sia più saggio
affermare che non sono mai stata designata a essere la persona più idonea a scoprire
chi egli realmente sia e forse, da qualche dentro di te, nutri il mio stesso
timore: l’ho capito guardandoti negli occhi, da come ti difendi strenuamente
dalla sua immagine quando ti si avvicina troppo seppur in te viga il desiderio
di spingerti più in là, eppure nessun altro potrebbe convivere con questo
sentimento nato per distruggere l’anima. Diversamente da me, tu, Amelìe, vuoi fronteggiarlo,
puoi: sei un soldato, combatti e splendi con lo stesso vigore di un fulmine che
taglia l’oscurità.
Ora, so di averlo già chiesto a Lenalee-chan,
e francamente ancora mi domando perché quel giorno non lo chiesi a te; può darsi
che mi odierai quando questa lettera ti verrà recapitata – conoscendoti, mi
maledirai più per le scuse che per altro! -, eppure, Amèlie, io… Adesso sono
felice. Ho scelto e ho lasciato il mio marchio su questo tratto di strada,
trovando la Felicità che credevo ormai perduta. Ed è con questa stessa Felicità,
che ti chiedo di prenderti cura di Cross-sama anche per me. Magari le parole di
una morta non ti saranno di alcuna utilità per quel che ti riserberà il futuro,
ma lui confida in te più al pari di se stesso. E come tu hai bisogno di lui,
lui ha bisogno di te. Io non potrò più farlo, ma non me ne rammarico: se a
vegliare sulla sua sorte ci sarà una persona folle quanto lui, posso anche
sprofondare serenamente in questo grande oceano che ho deciso di solcare
insieme ai tuoi compagni Esorcisti. E chissà, forse…Anzi, no: sono certa che un
giorno, troverai la Felicità che tanto silenziosamente brami con tutto il cuore,
con o senza l’uomo che entrambe abbiamo deciso di seguire per tutta la vita. Quindi
non ti arrendere, Amèlie: vai avanti, fino alla fine.
Anita.
- Almeno
una di noi è riuscita a ottenere quella che voleva, eh, Anita-chan? – Un
sorriso d’amaro sollievo le piegò le labbra, ma nessuna lacrima si infranse al
suolo - Repose en paix, mon ami.* –
La
fiammella bluastra dell’accendino si allargò con piccole lingue guizzanti
d’arancione schiusesi in petali roventi che avvolsero la carta bagnata. I
riverberi illuminarono l’ovale niveo congestionato, immobile d’innanzi ai
fugaci schiocchi ambrati: il cuore di Anita, in tutto il suo ingenuo splendore,
racchiuso in parole che avevano finito per essere inghiottite dall’acqua come
era successo a lei, planò dolcemente a terra in caldi pezzetti sparpagliati
sottoforma di cenere luminosa.
- Ti prenderai un malanno
con tutta questa pioggia. –
Il suo non era mai stato
un amore sciocco o puerile, l’infantile sogno di un’adolescente di trovare il
principe azzurro. Il suo non era amore e
basta. Che qualcosa avesse finito per crearsi fra loro era un fatto finito
per essere accettato, ma nulla da cui trarre una positività in grado di celare
la disgustosa immorale con la quale aveva saputo scavare tanto in profondità.
- E’
un mondo così buio e cattivo da far paura a chi lo guarda troppo a lungo. Ma è
anche il mondo dove tu vivi e io inseguo la tua ombra. –
Nel doverlo affrontare,
Amèlie lo reputava alla stregua di una dipendenza malata e contorta per il non
riuscire a distaccarsene. Non poteva, non completamente, non senza motivazione,
non senza scelta. Il suo non era amore, ma a ben guardare quella convinzione
era un espediente per impedire a quell’uomo e alla sua voce sensuale di trasformarsi
in un connotato con cui la si potesse identificare. Amore o non amore, a
nessuno che non fosse lei stessa avrebbe concesso di interferire sul suo modo
di vivere e sulla sua identità.
- Stavo solo cercando di
capire cosa tu ci trovassi di così bello nell’acqua che cade dal cielo. –
- Curioso: avrei giurato
che stessi piangendo. –
- E offendere la memoria
di un’amica caduta? Tanto vale che mi sforzi di piangere la morte di persone che
nemmeno conosco. –
Crescendo Amèlie aveva
sviluppato la personale convinzione che le lacrime fossero motivo d’offesa
anziché d’elogio per i propri amati. L’unica volta dove aveva ceduto, non le
era rimasto null’altro da fare che ignorare il resto: allora piangere per sua
nonna si era spiegato in un oceano di pulsazioni nervose culminate in singulti
che avevano voluto essere la risposta fisica a un dolore già in circolo, ma con
l’accumularsi degli anni e l’indurirsi del cinismo, era giunta a pensare che
piangere fosse la maniera più infame per criticare la scelta di una persona e
il cordoglio della perdita un’effige inviolabile, il cui delicato raffreddarsi
del corpo doveva essere libero di consumare la propria ragione di esistere e
infine perdere la propria concretezza. A dodici anni, l’ultimo viticcio che
teneva insieme la sua piccola famiglia si era spezzato e il languore
gradualmente apertosi man mano che i giorni scorrevano, l’avevano come
avvertita. Una settimana prima della scomparsa, sua madre era partita per una
missione insieme all’Esorcista assegnatole. Varcato il portone, l’aveva
salutata sotto la prima pioggia di Novembre. Mirarne il materno sorriso
trasformarsi in una chiazza indistinta aveva istantaneamente rafforzato il
sentore che non sarebbe più tornata a casa.
Cross astenne la replica
per prolungare il muto osservare rivolto alla donna che dava mostra della
propria schiena; dritta e con le spalle puntellate dall’acqua, seppe per
istinto cosa gli occhi d’ossidiana più bui dell’universo ingioiellato di stelle
stessero penetrando e non avrebbe mostrato sorpresa qualora avesse colto la
notte ritrarsi intimorita. L’abito scuro si fondeva con la bianca carnagione in
un’unica pelle definita dagli elaborati arabeschi intarsiati assieme al pizzo. Nella
fissità dei muscoli si intravvedeva unicamente l’impossibilità a criptarne
l’animo, l’invito secco e scontroso a non avanzare in quel ristretto spazio
dove le ombre traboccavano brillanti. Dacché la conosceva, il Generale aveva
sempre avuto a sua disposizione la prova di quanto la risolutezza della
francese fosse più di un mero velo dipinto sul suo viso, l’incostanza non era
certamente il genere di difetto che le si potesse attribuire. Entrambi avevano
la loro maniera di lottare contro il grigiore che li circondava, e seppur del
diplomatico rapporto fra e Maestro ed ex-allieva fosse rimasto esclusivamente
il nome, sussisteva ancora una simbiosi per quel sapersi intendere fra bestie
inimitabili benché fossero passati degli anni dal loro ultimo incontro.
- Mi devi un mucchio di
spiegazioni, Cross. – Amèlie non esitò a prenderlo di petto, senza concedere tergiversazioni
mentre si voltava verso di lui con la goccia di rubino a schioccare un fugace
scintillio.
- Come a tutti, Chibi-chan -, le disse – E, supponendo
che tu non voglia metterti in coda insieme agli altri, salterei i convenevoli
per passare direttamente ai fatti. –
- Questo tuo slancio di
generosità nei miei confronti non ti farà ottenere uno sconto sui miei servizi
-, lo avvisò - Costosi sono e costosi rimangono. Troppo perché uno squattrinato
come te possa richiederli. –
- In vista della posta in
gioco, sono sicuro che farai una piccola eccezione –, asserì l’uomo.
- Allora, mi auguro che
la questione abbia a che fare con il Quattordicesimo o sul fatto che Allen-kun
sia un Noah, altrimenti dubito che potrebbe interessarmi. -
Non fu necessario
guardarsi negli occhi per capire se le loro parole nascondessero una qualche
falsità o fossero il limpido specchio delle loro reciproche consapevolezze;
fatto sta che nulla impedì al Generale di sollevare le sopracciglia e stupirsi
almeno un poco. Che quell’argomento venisse a galla era prevedibile, l’Arca
Bianca celava una storia ricca di oscuri segreti che avrebbe intrigato anche la
mente più restia ad accarezzarne le perversità e mai Amèlie avrebbe ignorato
qualcosa capace di stuzzicarne l’interesse. Soltanto, non si aspettava che
giungesse a quella verità così presto, a una velocità che l’aveva sinceramente
sorpreso, con gli occhi corallini intenti a tracciare le curve del suo corpo
semi illuminato dalla pioggia.
- Ho costretto Hatsue a
informarmi sui fatti accaduti più di trentacinque anni fa –, proseguì la
corvina, ancheggiando intorno all’uomo con la catenina ad attorcigliarsi lungo l’indice
sinistro - L’Arca Bianca, il Noah traditore…Ogni cosa. Compresa la funzione
delle Memory. Ciascuna di essa necessita di un corpo ospitante per poter
rinascere a vita nuova, che, una volta compiuta, trasforma l’umano scelto in un
nuovo Noah. La maledizione dell’Arca Bianca non poteva essere rotta che dallo
stesso Noah che l’ha lanciata o da qualcuno che ne avesse ereditato i poteri,
quindi un nuovo prescelto, e considerando che Allen-kun è riuscito dove perfino
il Conte ha fallito, senza neppure sapere come ce l’abbia fatta… -
Dal tono di voce
traspariva una sicurezza sui fatti in possesso che dava molto a pensare su
quanto ella, in realtà, sapesse. Ma fra le righe e nella stessa spavalderia con
cui calcava i passi si poteva respirare la contrarietà per l’essere stata usata
come una pedina, un affronto al proprio orgoglio appena alleggerito dall’implicita
pretesa che mosse istantaneamente contro il Generale. Ciò che aveva fugacemente
scorto nella stanza del Quattordicesimo non faceva che alimentare il forte
sospetto che dietro a un tale alone denso di apparente inspiegabilità ci fosse
uno dei molti volti deturpati della Guerra Santa, forse uno dei più inverosimili.
Qualora glielo avesse domandato, Cross non si sarebbe sottratto dalla
discussione; come non si era preoccupato di un eventuale fallimento del suo
piano, non si lasciò toccare dal timore che eventuali ripercussioni a lui
destinate finissero per essere indirizzate contro Amèlie. Lo aveva sorpreso,
senz’ombra di dubbio, ma cos’altro avrebbe potuto aspettarsi da lei? L’aveva
addestrata lui, era un’opera sua, lui l’aveva mandata là dentro e sarebbe stato
a dir poco ridicolo tentare di liquidarla con risposte preconfezionate o
discorsi lasciati a metà. Le Chevalier non erano donne che si potessero
raggirare e da quel dato di fatto insorgeva l’unica nota dissonante sopra cui
era stato costretto a chiudere gli occhi: quanto sapeva?
- Non ti si riesce a
nascondere nulla, eh, Chibi-chan? – Ridacchiò lui.
- Ho subito sospettato
delle tue sporche intenzioni sin da quando Allen-kun si è presentato come un
tuo allievo. Tu non prendi allievi, maschi,
oltretutto -, lo accusò gelidamente, appesantendo la mano sulla propria
fermezza affinché il mittente attorno a cui camminava capisse la totale assenza
di ironia - Se fosse stato un qualunque compatibile lo avresti spedito dritto
all’Ordine Oscuro, mentre invece te ne se preso cura per quattro anni senza
dire niente a nessuno. O, forse, sono di più, chi lo sa… - L’asprezza si
sciolse in un sorriso morbido, languido e sensuale. A quel punto, Amèlie si
fermò di fronte all’uomo. Le dita affusolate ne risalirono lentamente il
torace, artigliando le preziose perle d’argento e rubino che componevano il
rosario lasciatogli da Rosalie Chevalier in persona. La croce penzolava appena
verso il basso - Certo, potrebbe esserci una spiegazione alternativa, ma il
punto è che…Io so chi sei, mio caro e presuntuoso Generale Marian Cross –,
soffiò la corvina suadente, carezzando le guance ruvide. Un movimento delicato
e rapido fece sì che gli occhiali sottili dalla montatura squadrata finissero
per essergli sfilati – E giacchè so che con te nulla è mai come appare, sono
quasi sicura che tu sia vincolato a questa faccenda del Quattordicesimo più di
quanto pensi di farmi credere e che voglia usufruire del mio aiuto senza
rendermi completamente partecipe del tuo legame con il piccolo Noah bianco. –
- E’ forse gelosia quella
che sento? – Roco, Cross fece scorrere il dito indice sulla schiena bagnata e
scoperta della corvina – Mi sembra di aver già detto che sei tu la mia
preferita. –
- Abbi la compiacenza di
toglierti il rosario di mia madre quando elargisci simili scempiaggini -,
borbottò stizzita, tornando a guardare l’orizzonte buio. Per la seconda volta
la rotellina dell’accendino scattò e la microscopica fiammella accese la cartina
portatasi alle labbra rosse.
L’attenuarsi della
pioggia ridimensionò il picchiettio incessante a una fredda carezza dal suono
soffuso. Sull’onda dei brividi che ne impalarono la spina dorsale, Amèlie
affiancò lo stringere dei suoi guanti alla microscopica parte di sé impregnata
di una sensazione che combatté con il disgusto; anche col viso a esternare
un’impassibilità radicatasi in terreno sincero, determinate emozioni finivano
per scolpirsi nella memoria, tinte delle sfumature più irascibili che l’umore
umano potesse far fiorire. Ciascun ricordo con inciso sopra il volto di
quell’uomo si attorcigliava attorno al suo essere donna, sfidandone tutti i
nervi e scoprendone i pochi destinati all’immortale vulnerabilità, ma quale
fosse la molla che faceva sbocciare dal nulla l’orribile consapevolezza di non
potergli essere completamente indifferente, aveva la faccia tosta di
estromettere le peculiarità più fattibili, come gli occhi penetranti, il colore
irriverente dei fili carmini che ardevano sospinti dal vento, le mani grandi o
l’arcuarsi della bocca quando esibiva i suoi maliziosi sorrisi. L’insieme di
tutto si era rivelato l’unica risposta fattibile: un tutto contorto,
indefinito, all’apparenza squadrato e in realtà abile nel riempire vuoti col
semplice porsi ovunque nei confronti di una persona, dentro e fuori. Un particolare ascendente impossibile da disperdere
in più parti, fra loro pericolose da toccare, ancor più mortali se fuse in
un’unica e infinita verità inossidabile elevatasi a ossessione insopprimibile,
lenta, spietata per il riuscire a tenerla legata senza che potesse opporvisi
con valide motivazioni; marcava sulla sua unica vulnerabilità, impegnandosi a
spezzettare il controllo di cui aveva fottutamente bisogno, che doveva
applicare, possedere per essere quella che era, per controbilanciare la
distruzione psicologica che cresceva contraria al raziocinio, pur sapendo che
sarebbe sempre esistita la possibilità che lui ribaltasse le carte in tavola e
la lasciasse scoperta.
Quante volte, da
bambina, il suo corpo aveva tradito i suoi intenti? Quante volte l’osservarlo
era scivolato in un’ inconscio proliferare di domande inspiegabili? Chi diavolo
era l’uomo entrato nella sua vita? La risposta non era altro che il
congiungimento di fugaci momenti, tocchi, strascichi di parole e, talvolta,
persino l’ombra che turbinava sotto il riflesso giallo del sole contro il muro;
un dito che tracciava sulla sua pelle un arco rovente fomentandole una stretta
al basso ventre, una banale carezza ai capelli di seta nera o un’occhiata
intensa al seno che il bustino di pizzo decorato malcelava…
Ma come Marian Cross si
era sempre dilettato a essere una fiamma danzante nella nebbia, Amèlie aveva
imparato ad amare se stessa al di sopra di ogni altro e, sull’onda di quel
acquifero addolcirsi, a sapersi destreggiare con l’inganno erano coloro che
sapevano vestirlo rimembrando l’importanza primaria di salvaguardare
esclusivamente la propria persona.
2*:
Il nome è un collegamento al piccolo spin off di Hell’s Road che tratta di Pierre
e di come si sia unito ad Amèlie: “Chimera”.
3*:
Riposa in pace, amica mia (Francese).
E…Sono
qui, di nuovo, dopo un’infinità di tempo che non sto qua a
calcolare! Oramai
non posso farci più nulla: scrivere mi manca, ma quando non hai
tempo e ispirazione
– seppur il desiderio ci sia -, non sai mai cosa può
uscire oltre a una voglia
che si consuma nel giro di due secondi. Questo è stato un
capitolo lungo e
rivisto in via di sviluppi futuri. So che alcune cose paiono non
chiare, quindi
dirò solo una cosa: Amèlie ha già letto i
documenti che si è portata dall’Arca
– lo scrivo anche nel capitolo, ma ci tengo a essere chiara
– e ha scoperto
altre novità. La sua fiducia in Cross e l’eventuale
alleanza dipenderanno da
come il caro Generale saprà gestire la situazione. Come sempre,
mi auguro che non ci siano errori; mando un bacione a tutti coloro che
mi seguono. Alla prossima!