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Autore: KH4    20/06/2016    1 recensioni
Estratto dal prologo:
"Io lo so…Tu non sei il tipo di persona che si lascia uccidere così facilmente. Non è nel tuo stile. Ti è sempre piaciuto essere teatrale in tutto ciò che fai, essere la svolta di una situazione prossima al fallimento. Ami essere egocentrico, vanitoso, arrogante, sai di esserlo, e non ti arrenderesti mai d’innanzi a una morte che non ti renderebbe il giusto onore. La sceglieresti solo dopo aver guardato a lungo una bella donna e averle sussurrato frasi che avrebbero fatto di te un ricordo prezioso e insostituibile. Soltanto allora, ne saresti soddisfatto." 
Genere: Avventura, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Allen Walker, Lenalee Lee, Marian Cross, Nuovo personaggio | Coppie: Allen/Lenalee
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I Santi Oscuri.'
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ricongiunzione

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Hell's Road.
26 / Ricongiunzione.

Al dì la della notte, il crepuscolo avanzava sfilacciandone il manto criptico e profondo con raggi di flebile visibilità. Che fosse lenta o incalzante, la danza che avvinghiava l’intera esistenza non poteva fare a meno dell’essere ripetitiva, disgustosamente costante nel ripiegare sulle ovvietà che scandivano il tempo in giorni, mesi e anni. Il concetto di vita racchiuso in un fatale connubio con la propria tediosità; il susseguirsi delle albe e dei tramonti produceva più conforto del spremerne l’essenza sino all’ultima goccia.
- Sembra che ce l’abbiano fatta. -
Road Kamelot flesse i piedi scalzi, fissando il soffitto col viso cenerino stretto nella consueta espressione indecifrabile che ne corazzava i pensieri; la malevole dipendenza dai dolci ne stava impegnando la lingua a consumare un leccalecca particolarmente zuccherato, attività scandita da intervalli irregolari dove mirava il dolce con fare guardingo, per poi riprendere il lappare fra i morbidi cuscini della poltrona rosata. Vegliare su Tyki Mikk e Jusdebi senza poter pizzicarne le guance ne faceva roteare le iridi cerulee in continuazione, annoiate per come la sua stessa pigrizia e il silenzio aleggiante fossero riusciti a imporsi su una qualunque altra possibile alternativa, ma a prescindere dalla tediosità che ne intorpidiva il corpo magro e scoperto quel tanto che bastava da indurre chiunque a domandarsi se in lei esistesse un minimo senso del pudore, Road avrebbe come e comunque scelto di rimpinzarsi di dolcetti piuttosto che mettere il naso fuori dalla porta.
L’Arca Bianca si era salvata. Dalle ceneri crepitanti il suo destino scritto si era levato un canto pregno di ricordi torbidi e sfregi mai completamente rimarginati. Avida, ingoiò un sostanzioso groppo di saliva. Il dispiegarsi delle sue ali al seguito della melodia le era giunto sottoforma di invocazione, un blando brivido in confronto al fremito che le aveva artigliato la spina dorsale con l’intento di spezzargliela. Il cuore ancora le batteva con ansito basito e nella quiete soffusa della stanza concedeva ai pensieri dilaganti una voce potente: al Conte del Millennio non rimanevano che l’antico rancore pronto a scorrere in fiotti aurici e l’affronto appena subito da condividere con il resto della Famiglia, ma neppure a lui, che affondava i piedi in quella terra da oltre settemila anni, era concesso immaginare cosa in Road Kamelot invece si era manifestato. Lo avevano percepito attecchire in entrambi, in tempi diversi, rimasti in attesa e con la coscienza pronta a riprendere quanto lasciato in sospeso. Eppure, anche se erano i soli rimasti della vecchia generazione, solo la mente del Sogno si era conservata illibata, nelle ferite; serbava la lucidità necessaria a sopportare la vista di quel volto senza che il proprio ego oscillasse fra fermento e pazzia, nascondendosi dietro un corpo di bambina immortale che altro non era che la perfetta incarnazione di quello che lei era diventata da oltre trent’anni. Un’illusione serafica, dal sorriso fanciullesco e malizioso, pieno di segreti.
Un nuovo sguardo sui fratelli la fece raddrizzare, chinandosi appena in avanti con le mani premute sui cuscini e la corta chioma appuntita a solleticarle le spalle nude. Jusdero e Debit dormivano insieme, malamente avvinghiati e con le coperte gonfie e bitorzolute; il primo era accoccolato al petto del secondo, che col braccio ne avvolgeva le spalle con fare protettivo. Non davano affatto l’impressione di essere due inguaribili casinisti buoni solo a spararsi a vicenda. Indubbiamente, era Tyki quello messo peggio. Il corpo cicatrizzato e avvolto da morbide bende riposava placido in un profondo sonno senza sogni. Avrebbero dormito a lungo, ma, una volta coscienti, avrebbero realizzato l’accaduto e i conseguenti sforzi attuati che ne avevano permesso la sopravvivenza. Noah non perdonava, nè si lasciava sopraffare: combatteva, emergeva, più iracondo se occorreva, ma non cedeva.

L’illustrissimo Bak Chang amava molto il suo lavoro, tanto da marinarlo e andare a zonzo ogni qualvolta le scartoffie del suo ufficio superavano la soglia della consentita fattibilità. Impossibile rammentare quante volte si fosse perso nella sua stessa sede, imboscatosi in qualche scantinato a mangiucchiare dolcetti di riso o a contemplare le foto di Lenalee Lee che gli sarebbero costate il linciaggio istantaneo se un certo Supervisore ne fosse venuto a conoscenza, ma nessuno più della piccola Four fu tanto grato al lavoro arretrato come quella sera sul tardi. Il Guardiano Mistico sghignazzò maligna, ansiosa, e con giusto uno spuntino fra le mani per meglio godersi la ferocia dello spettacolo. Mal equipaggiata di freni che dessero un limite alla sua lingua irascibile, aveva sempre privilegiato liti di portata indeterminata, autentiche perle dove il furore umano esplodeva in tutte le sue forme più contorte e imprevedibili. La sede dell’Asia vantava una monotonia che lasciava crescere libere le ragnatele in ogni dove e una ventata d’aria sferzante come quella era paragonabile a un segno divino giunto per spezzare la noia.
Sebbene fosse uno spirito artificiale, nel corso dei secoli si era molto divertita ad apprendere le abitudini umane e il sonno, fra questi, era un rituale di ozioso piacere per quei dì che non aveva voglia di fare nulla al dì fuori del rimanere nella sua personale dimensione. Giacché l’affrontare un Livello Tre le era quasi costato la vita, nessuno – neppure quell’oca squinternata di Bak Chang che tanto si divertiva a tirare matta -, si era permesso di infastidirla, ma il vociare dell’intera Sede, impazzita di punto in bianco ad un’ora di inumana indecenza, l’aveva obbligata a marciare con una falcata poco decorosa alle fattezze femminili che gli striminziti abitini lilla coprivano miseramente. Il pestare la regale testa dello sfaticato a capo di quella mandria di idioti passò in ultimo piano non tanto per lo scoprire uno nugolo di Esorcisti comparsi dal buco di luce bianca sopra cui l’equipe aveva tessuto trattati di fantomatiche teorie senza mai arrivare a nulla di fatto, quanto l’arrivare giusto in tempo per godersi il più spettacolare calcio volante che avesse mai sfondato la faccia del Generale Cross, dopo che questi aveva schivato uno scaffale e una falce saettati fuori dal portale luminoso.
- A…Amèlie-san! -
Four vide quella che, dalle foto sbirciate, doveva essere Lenalee, portarsi le mani alla bocca frastornata. Allen Walker invece rimase semplicemente incastrato fra l’essere scioccato e l’inorridito, per come quel tizio fosse finito fra scatoloni e trecce di fili elettrici lasciate scoperte.
- L’ha preso…Ha preso in pieno il Maestro... -, lo si sentì biascicare pietrificato.
La donna ignorò il totale delle loro reazioni avanzando a falcate decise e zoppicanti verso il malcapitato. Perfino la piccola scaricatrice di porto si unì alla tensione condita di multiple espressioni e macchinari singhiozzanti segnali elettrici, ma il suo silenzio era un parto esclusivo della propria curiosità nel voler rimanere a crogiolare comoda mentre si godeva l’accavallarsi degli eventi: seppur sprovvista di prove, giurò a sé stessa che sul viso di quella tipa scarmigliata da capo a collo vi fosse dipinta la morte in persona.
- Vogliate scusare l’irruenza, Maestro, ma ho pensato che un’entrata ad effetto vi avrebbe fatto desistere dalla fuga -, rantolò furente la corvina, tirando il suddetto su per il colletto - Tu. Io. Conti. Adesso! -
- Che piacere rivederti, Chibi-chan -, la salutò l’uomo gioviale, incurante del volo compiuto e sollevando una mano in segno di saluto - Cominciavo a preoccuparmi, sai? -
- Davvero? Da come cercavi di allontanarti mi era parso che volessi dileguarti ancora. –
- E perdere così la possibilità di dirti che sei a dir poco stupenda? Così mi ferisci, Chibi-chan.
Il fragore del destro di Chibi-chan, abbattutosi sulla capoccia dell’uomo, fece tremare il pavimento del laboratorio fumando per l’incisività utilizzata. Il suo eco accartocciato si prolungò sino agli angoli impolverati dei piani superiori. Neppure le ferite riportare con lo scontro di Lulubell sortivano un qualche effetto narcotico sull’Esorcista, assuefatta da eccessivo dosaggio d’adrenalina che ne pompava a mille gli organi in funzione. Dal sangue essiccatosi sotto le fasciature di emergenza si intravvedevano appena delle striature che scemavano in chiazze scure.
- Sono perfettamente consapevole di essere sublime. – E ciò bastò per far ammutolire tutti i presenti, già sull’attenti per la mortale glacialità di quella lingua serpentina - Ma siccome Sua Altezza ha la zucca dura, vedrò di mettere le cose in chiaro: non ho alcun interesse su come sfrutti le persone e l’unica ragione valida per cui mi sono trascinata dietro quello scaffale è stato per ricordarti che io non sono una di quelle persone, ne tutte le altre. Se ho assecondato il tuo insulso senso di irresponsabilità è solo ed esclusivamente perché sei tu a essere in debito con me e dovresti solo prostrarti ai miei piedi per tutti i soldi che mi devi, per non parlare di come ti sono venuta magnanimamente incontro. Tralasciando gli Akuma, ho dovuto sorvolare un intero oceano sorbendomi le lagne della tua schifosa guida, vedermela con una stronza che ha avuto l’ardire di sfidarmi e questo prima di finire quasi soffocata da mezza tonnellata di libri dopo essere stata mollata di punto in bianco, ma quello che più mi fa ribollire dalla rabbia è la tua assoluta noncuranza per le conseguenze! Guarda com’è conciato il mio viso! E vogliamo parlare dei vestiti?!? Questi erano i miei stivali preferiti! Tutte queste cose sono indispensabili per la mia immagine e tu ci sei passato sopra infischiandotene! Hai almeno una vaga idea di quanto tutto questo ti costerà?!? –
- Posso dire in mia difesa che…? –
- SILENCE!* – Ancor prima di lasciarlo terminare, un secondo pugno risuonò nel laboratorio, incutendo nuovo terrore nei presenti, lungi dal mettere il dito in quella che a stento poteva definirsi una piacevole conversazione. Quando poi Amèlie fece schioccare l’ovale malconcio verso di loro, ogni singulto fu trattenuto spontaneamente per evitare un qualsivoglia attecchimento all’irascibilità che saettò gelida oltre la spalla di Allen, dove Timcampi la spiava impaurito. A te penserò più tardi, trasmetteva l’onice luccicante di vendetta e ciò bastò a far tremare il piccolo boccino.
- Mamma mia. E pensare che sa essere ancor più terrificante di così… – La testa rossa vicino a Lenalee pigolò inorridita, stentando a sostenere con i propri occhi un simile massacro.
- Il Maestro…Sta picchiando il Maestro...! – Allen sembrava aver perso la capacità di intendere e di volere nel constatare che esisteva qualcuno realmente capace di infierire sul Generale senza mostrare alcun tipo di remora.
Seppur le identità e i conseguenti legami le fossero ignoti, Four si dilettò nell’osservare il protrarsi della scenetta gongolando vispa, sorvolando tranquillamente sulle unghie di Bak Chang che, vigliaccamente accucciato dietro la sua schiena, affondavano nelle spalle nude. Se soltanto avesse avuto qualcosa da accompagnare al pacchetto di patatine che giusto aveva appena aperto…
- Suvvia, Chibi-chan –, la blandì il Generale, con quello sguardo impudico che si era conquistato favori e cuori di centinaia di donne, quasi non avesse risentito delle botte che invece ben sventolavano sulla sua testa - Non avrai davvero pensato che abbia richiesto i tuoi preziosi servigi senza una valida ragione? –
- Me ne sono fatta un’idea mentre strisciavo sotto un quintale di macerie, ma sono comunque ansiosa di ascoltare la tua versione -, sibilò – E piantala di chiamarmi in quel modo assurdo! –
Un barlume di maligna euforia animo gli occhi di Four - Ih ih! Adesso lo uccide!
- Oh, riflettici attentamente, Chibi-chan. – Con la parte superiore dei piedi, l’uomo si diede la spinta per sostenersi con le proprie gambe, rimanendo tuttavia ostaggio di Amèlie, che non accennava a lasciargli il colletto della divisa - Ero solo, in una terra popolata da Akuma e con scarsissime probabilità di successo: la mia condizione non mi consentiva certamente di fornirti il quadro completo della situazione, per questo ho confidato sul tuo spirito di prontezza. Pensi davvero che per un computo tanto delicato avrei potuto chiedere aiuto a quegli inetti laggiù? – E indicò con la testa i due ragazzi corrucciati, escludendo Lenalee, la cui intuizione su quale strategia il Generale stesse cercando di applicare si concretizzò con il chiudersi degli occhi mentre un profondo sospiro ne solleticava le labbra sottili.
Osservare Amèlie Chevalier, in quelle poche occasioni dove gli impegni le concedevano di sostare alla Home per un periodo vagamente più lungo dei consueti, le aveva insegnato che ciascuna persona nasceva con un quantitativo di pregi e difetti di proporzioni differenti a seconda del carattere. Che la Maitresse della Rosa Nera difettasse di modestia non era poi quel gran segreto per cui valesse la pena stupirsi, così come il compiacerne l’ego vanitoso o il tesserne le lodi anche a costo di farsi cadere la lingua per lo sforzo risultassero essere due maniere particolarmente efficaci per sollecitarne l’attenzione. Da che ricordava, Marian Cross doveva la sua lunga lista di amanti anche al suo saper usare le parole, dosandone il contenuto emotivo sulla base di una tempistica scandita da gesti altrettanto misurati a seconda delle vicissitudini, ma per Amèlie sarebbe stato impensabile cadere in una così stucchevole maglia di trame. Lei sapeva chi aveva davanti e cosa aspettarsi, e nel confrontarsi con un’immagine dalla consistenza simile alla sua, si ergeva in tutto il suo carattere per marcare la propria identità. Nessuno era mai in grado di contraddirla o, peggio ancora, di interromperla in ciò. Al cogliere le mani inguantate del Generale afferrare con rapida delicatezza quelle della francese – non azzardandosi a interrompere il contatto visivo che le sue iridi sanguigne detenevano con quelle della sua ex-allieva -, Lenalee inghiottì un sostanzioso groppo di saliva e rimase in attesa.
- Mi serviva qualcuno di eccezionale. Qualcuno di capace. – Il viso dai lineamenti marcati tagliò di qualche millimetro la distanza che divideva il suo pizzetto rosso dalle labbra scolorite della donna – Qualcuno con competenze e abilità simili alle mie, che agisse fuori dagli schemi. Imprevedibile, brillante, qualcuno di cui mi potessi di fidare ciecamente. E tu, mia cara…Tu eri esattamente la persona che faceva per me. A chi meglio della mia bellissima, indomita, e sottolineo preferita allieva, avrei potuto affidare la riuscita di un mio piano? –
Cadde il silenzio, la tensione spezzata giusto dal fluire elettrico che attraversava i grossi cavi dei computer e il croccante masticare di Four. Il minuto esserino se ne fregava se l’affondare della sua mano nel pacchetto di patatine fosse troppo rumoroso, un simile accartocciare di plastica non avrebbe impedito a quella stangona dalle prosperose forme di trasformare definitivamente l’accettabile massacro in una sanguinolenta carneficina. Cosa che il Guardino Mistico sperava ardentemente di vedere materializzato, a prescindere dal trauma psicologico che avrebbe incitato tutti i presenti a riflettere molto attentamente prima di far imbestialire quella tipa…
- MA FAMMI IL PIACEREEE! –
E che la fece squittire con le braccia al cielo all’udire il celestiale sinistro che quest’ultima sfoderò per far sprofondare l’uomo nel cemento armato.

Tornare alla Home dopo tanto tempo fu come riappropriarsi di sensazioni e movenze annichilitesi per mancanza di pratica. La familiarità delle mura scure, con gli immensi saloni e le guglie spettrali, dall’esercitare un’iniziale inquietudine era passata a esprimere un calore rassomigliante quello che si provava stendendo le mani davanti al focolare di una casa accogliente. Era recente, quell’aria aleggiante di rassicurante morbidezza, un toccasana alla fredda indifferenza ancora percepibile in certi angoli, da bocche che a volte non riuscivano a tenere freno la propria lingua, ma nella deliziosa speranza che essa si protraesse più a lungo, il Supervisore Komui già era consapevole che l’idillio altro non era che un limbo antecedente i futuri tempi nefasti. Lo studio sommerso dal consueto disordine di materiale generico denotava il suo essere un po’ trasandato e pigro che ben si confaceva al volto sciupato e solcato da profonde occhiaie che gli occhiali squadrati minimizzavano blandamente. Dal ritorno delle Unità erano trascorse appena tre settimane – che per una serie di vicissitudini legate all’inoperosità del tempo, riunioni e scartoffie varie, equivalevano a molto di più -; con il mento appoggiato al dorso della mano e il ciuffo inchiostrato di riflessi elettrici a sfiorargli la guancia pallida, il cinese aveva già somministrato più di un centinaio di direttive a ciascun reparto che potesse fornire un utile sostegno all’analisi dell’Uovo recuperato e all’Arca Bianca ora sospesa sopra la cima della Home. Le dita della mano libera sfogliavano un plico di fogli il cui leggero frusciare si alternava al respiro pressoché inesistente, con gli occhi blu carichi di attenzione per ogni singola parola scritta sopra. Coglierlo nel profondo della concentrazione contribuiva a plasmare una versione inconsueta di quell’uomo tanto eccentrico, ma nessuno della Sezione Scientifica avrebbe mai smentito l’esistenza della professionalità di Komui Lee. Vibrava di un’umanità forte del desiderio di non lasciar cadere gli Esorcisti nel baratro dell’oggettività.
- Allora, Supervisore? – Dal divanetto stante di fronte alla scrivania, Amèlie fece oscillare il bicchiere di tequila che teneva fra le punta delle dita prima a destra e poi a sinistra, in un sinuoso movimento a cui concesse un paio di secondi prima di portarsi il calice alle labbra.
- E’ un rapporto notevole, non potevo aspettarmi niente di meglio da te. – Komui sollevò la testa sorridendole amichevolmente, mentre appoggiava sul tavolo il resoconto ricevuto prima che la donna si unisse al gruppo di sua sorella. Con la mole arretrata di scartoffie non era stato in grado di leggerlo accuratamente, vedendolo così approfittare della momentanea presenza dell’Esorcista francese per ottenere una versione più diretta delle sue attività – Ma mi domando se tu non ti stia calando un po’ troppo nei panni dell’assassina. –
- Se preferivi che quei Broker continuassero a inscenare la morte dei loro pazienti solo per rivenderli al mercato nero, non avevi che da chiedere: mi sarei limitata a riferirgli che ciò andava contro la morale di Nostro Signore -, ironizzò lei, crudele, sorseggiando il liquore con le guance imporporate di un vago rossore – Anziché preoccuparti di come gestisco la feccia, non vedo una valida ragione per cui tu debba trattenerti nel fare pressione ai piani superiori affinché mi diano una percentuale degna del mio operato: la paga d’Esorcista è una vera miseria. –
- Perché? Hai problemi con il tuo locale? – Domandò incuriosito l’uomo.
- No, ma si dia il caso che sia una donna con parecchie esigenze -, gli rammentò – E amo i soldi, quindi ne voglio di più. -
Sospirare profondamente non avrebbe attecchito in alcun modo alla cocciutaggine che la donna vestiva e non c’era modo per la coscienza di Komui di interferire con le convinzioni forgiate da una vita che lui non poteva permettersi il lusso di conoscere. La schietta incontentabilità di Amèlie lasciava intendere che fosse una donna incapricciata, di vanità egocentrica che rinnegava le comuni pulsazioni emotive per cingerne una manciata contorta di forma astratta, ma di sostanza pregna a sufficienza della sua irremovibilità perché la consistenza ne calcasse i gesti le parole; era quel suo tener conto unicamente sé stessa – affinato o ereditato che fosse – ad acuirne l’arroganza che pungeva nel profondo chi non sopportava giudizi colpevoli, il tagliente cinismo che si ritagliava la propria indipendenza come la flessuosa nuvola di fumo acre che assaporava la libertà nell’essere espirata, ma a ben pensare, quale uomo non avrebbe sorvolato su tali difetti pur di avvicinarsi? La sua era una bellezza terrificante. La mirò accavallare le gambe, scrutando con le palpebre socchiuse il bicchiere di tequila, dove i cubetti di ghiaccio grattavano con gli angoli contro il vetro spesso. Il pizzo nero – leggero da rasentare la trasparenza - aderiva al corpo come una seconda pelle, scoprendo una scollatura alle spalle e al seno superate soltanto dagli spacchi laterali che le arrivavano quasi ai fianchi. Anche nella Home, la maschera rimaneva una costante improrogabile. Era quel tipo di persona che non offriva l’occasione di farsi capire, forse perché quello che c’era da capire non era affare di nessuno al di fuori di lei. Ciò che mostrava senza veli e ingente presunzione si intrecciava nei gambi spinosi del suo carattere, salvo poi usarlo spregiudicatamente per distanziare chiunque provasse a domandarsi cosa realmente si celasse dietro l’astrusità del suo ovale perfetto, di pelle chiara come la luna virginea. A nulla erano valsi gli sbraiti della Capo Infermiera quando aveva abbandonato il letto benché sotto le bende si celassero ruvide abrasioni ora di un liscio rosea in procinto di svanire senza lasciare segni controproducenti. Eppure, Komui Lee non ce la faceva proprio a non preoccuparsi, anche se si trattava di lei, un demonio adulto e vaccinato dalle mani sporche di sangue il cui unico interesse era la propria persona; perché, nel profondo, il cuore colmo di magnanima indulgenza le riconosceva meriti sinceri, una severità nell’affrontare la sua vita di Esorcista da far trapelare ugualmente il proprio desiderio di seguirla secondo le sue regole.
- Potresti approfittare della sospensione delle missioni per riposarti qui alla Home -, buttò lì il Supervisore – Giusto il tempo di verificare se la tua Innocence abbia bisogno di riparazioni. –
- Il che richiederebbe giorni, se non mesi, considerando il fatto che siete tutti occupati ad analizzare l’Arca e l’Uovo in vista dell’arrivo di Lvellie -, replicò con altrettanta casualità volontaria Amèlie, lo sguardo annoiato, rivolto al soffitto - Hai un modo curioso di esternare la tua preoccupazione nei miei confronti: pensavo l’avessi capito che sia per me che per lui è meglio non condividere lo stesso tetto. –
- La mia era solo una gentile offerta e poi non puoi avere la certezza che verrà lui e non qualcun altro a discutere della faccenda -, intese chiarire il cinese.
- Oh, ti prego, Komui! Sappiamo entrambi che l’Ufficio Centrale non spedirà qui un investigatore fresco di promozione per presidiare il meeting. – Sbuffando languidamente, si sollevò in piedi. Le sue gambe nude svettarono allo scoperto per qualche millisecondo - Abbiamo fra le mani la matrice con cui il Conte del Millennio crea i corpi magici degli Akuma e il vascello che ha utilizzato per spostarsi in ogni dove, senza contare il coinvolgimento dell’adorabile Allen-kun nel recupero di quest’ultimo. –
- Ragione in più per averti qui. - Komui si chinò in avanti, intrecciando le dita con i gomiti appoggiati sulla scrivania, la consueta posizione con cui affrontava ogni sfida odierna – Avendo lavorato sotto specifiche direttive impartite da Marian Cross sei coinvolta nel recupero dell’Arca Bianca, pertanto c’è la forte possibilità che tu venga convocata davanti a una commissione per esporre i fatti avvenuti. –
- E tu, oltre alla scarpinata fino a Roma, vorresti evitare che questa commissione  -, e fece il segno delle virgolette – Non si trasformi in plotone giudiziario pronto a farmi la pelle. - 
- Ti prego, Amèlie. – L’uomo si impuntò, non preoccupandosi di nascondere l’apprensione segretamente covata – In questa faccenda ci sono troppi interrogativi perché l’incontro verta soltanto sul futuro utilizzo dell’Arca e dell’Uovo, e il Sovraintendente Lvellie non è certo un uomo che sappia accontentarsi delle generalità. –
- Insinui forse che stia nascondendo qualcosa? – Indagò la donna, soave.
- Sto solo dicendo che ti conosco e vorrei evitarti dei guai -, obbiettò il cinese - Se sei in possesso di qualche informazione che non è stata stilata nel rapporto, sarebbe saggio rendermene partecipe. La questione è seria. –
- Ovvio che lo sia, altrimenti non saremmo qui a discuterne -, concordò lei, ancheggiando in direzione della porta - Ma per quanto riguarda me, vanto una situazione nettamente diversa da quella di Allen-kun e se anche così non fosse, ho già dimostrato alle autorità che è meglio per tutti avermi come amica invece che come nemica, e non mi riferisco soltanto alla mia indispensabilità. –
Avvolse la mano attorno la maniglia d’ottone della porta, voltandosi un’ultima volta verso il Supervisore, visibilmente sconfitto e al tempo stesso frustrato dall’idea che in qualche maniera lei, ancora una volta, fosse riuscita a spuntarla.
- Pensa a intercedere per Allen-kun anziché per me. Mammina sa badare a se stessa. –

La calca che attraversava la mensa scalpicciava irrequieta, districandosi in un via vai continuo e mal assortito di gente indaffarata. Con l’accumularsi di mattine e sere talvolta pieni di vuoti monotoni, quel luogo solitamente popolato da poche teste era stato costretto ad accantonare il profondo conforto che sapeva regalare per venire incontro a una trazione in larga espansione, riverbero agitato da sfaccettature coltivate dall’incessante suono del sospetto, occludente il piacere dei cibi di Jerry a lungo mendicato mentre ci si accontentava di spiluccare razioni stantie. Il cattivo tempo che corrodeva le forti mura del castello contribuiva a ingozzare gli spifferi polverosi di un’ombra cupa e lugubre che arricciava la sua chioma in ogni dove nel maniero, saltellando da una bocca all’altra con solo un nome a punzecchiarne le lingue. L’improvvisa notorietà di Allen Walker diramava viticci avvelenati dal dubbio che, fra le loro fin troppe esigue file, si fosse impiantato un seme scomodo, se non inquietante. Il trapelare della riservatezza aveva concesso il privilegio di infarcire informazioni la cui assurdità non era poi così impensabile come i meno informati sostenevano. Per ragioni oscure, l’Arca Bianca si era lasciata manovrare dai suoi desideri senza che l’operato della Sezione Scientifica riuscisse a replicare la meccanica del comando o a comprendere l’artificio insito alla base di quel legame che non sarebbe mai dovuto esistere. Doveva esserci sicuramente una spiegazione, ma la natura stessa di quel potere – da ritenersi spaventoso nelle mani di un bambino di appena quindici anni -, si limitava a far filtrare nell’atmosfera circostante una sottile inquietudine che fendeva l’aria, così satura di tensione da poter essere tagliata con un coltello.
- Un’atmosfera da brivido. - Bak Chang storse il naso, infastidito, voltandosi verso il suo pasto con la forchetta a giocherellare fra le dita – A saperlo sarei rimasto in sede... –
- Nessuno ti trattiene, signor Direttore di filiale -, lo punzecchiò Lavi, con la guancia premuta al dorso della mano – Se non sbaglio, Komui ha detto che potevi tornartene a casa, vista la tua inutilità. –
- Bada come parli, moccioso: dovreste ringraziarmi in ginocchio che io sia qua a offrirvi il mio contributo -, replicò altezzoso il biondo.
- Parlano tutti di Allen-kun… -, pigolò Miranda, espirando con la mano stretta in petto. Il suddetto si trovava al loro stesso tavolo, poco più distante, con Lenalee a fargli compagnia e un centinaio di piatti che continuavano ad accumularsi ininterrottamente.
- Sono solo voci di corridoio, niente che sia stato ufficialmente confermato -, cercò di rassicurarla Marie – E’ la presenza dell’Uovo del Conte del Millennio a renderli così irrequieti. –
- Me lo auguro. Allen-kun n-non è certo un nemico… - Affermò titubante la donna.
Eppure nessuno, al momento, si sentiva in grado di redigere giudizi sull’accaduto. La frenesia da ricollegarsi agli artefatti sopra cui la Sezione Scientifica stava lavorando ininterrottamente giorno e notte bastava a rendere noti future problematiche. L’Uovo, in particolare, suscitava il fascino dell’ignoto, con la sua luce bianca pulsante di battiti sordi. L’atteggiamento dei presenti era incline al tenere basse le proprie opinioni, ma non abbastanza perché rimanessero silenti e non contribuissero a ingigantire i grattacapi che pressavano l’accoglienza della Home. Lo stesso Marie non poteva dirsi completamente sicuro sull’avvenire che li attendeva, specie su quello di Amèlie, ma ricamare una parentesi sulla sua amica di infanzia lo costrinse quasi immediatamente a richiuderla con sbuffo divertito: lo avrebbe linciato vivo, se le avesse rivolto una qualche critica sul suo operato o un’eventuale preoccupazione per qualunque fantomatica confabulazione da lei ordita. Era molto meglio confidare nel fatto che sapesse sempre cosa fare e quando agire piuttosto che incorrere nel suo caratteraccio.
Anche Bookman non aveva mancato di cogliere i dettagli essenziali della trama in atto: gli occhi scuri valutavano tutt’ora la spigolosità e le precauzioni adottate, che giusto individuò scivolare fra la calca con movenze serpentine; l’andatura decisa e cadenzata grazie alle quali si mischiavano ai civili li avrebbero traditi soltanto se nel loro portamento fosse mancata l’impronta di un rigore ligio al totale rinnegamento della propria vita. La presenza dei Corvi non era un segno da cui si potessero trarre positività, significava soltanto che l’Ufficio Centrale era organizzato in modo tale che ogni evenienza venisse misurata con le giuste precauzioni. Seguendo l’ormai istintivo osservarsi attorno, Lavi, insieme al mentore, ne aveva contati circa una decina aggirarsi per l’Ordine, non mancando di sondarli col pensiero che le cose stessero mutando rapidamente. Ma mai grande fu la sua sorpresa nello scorgere un’ulteriore anomalia in mezzo a tanti camici bianchi e divise impeccabili.
- Pierre? –
- Come dici, Lavi? – Domandò Miranda.
- Il pupillo di Amèlie-san -, rispose frettolosamente lui, alzandosi in piedi per adocchiarlo nuovamente.
Stavolta lo vide per intero. La chioma castana fluttuava fra onde di morbidi boccoli, vantando una riconoscibilità unicamente superata dai lineamenti ambigui e la lingua affilata come la lama di una spada. Ricadeva lungo la schiena, schioccando a destra e sinistra fra riflessi caramellati, con le ciocche più corte a ricadergli sulle guance rosee. Gli occhi, diamanti d’acquamarina dai riverberi smeraldini, tingevano la sua espressione della medesima freddezza con cui gli aveva rivelato di essere un maschio. A ben guardarlo, il rosso ritenne una fortuna averlo notato per puro caso: la semplice camicia a maniche lunghe – bordata di merletti sopra ogni dire - e i calzoncini neri muniti di bretelle scure costituivano un abbigliamento insolitamente sobrio, normale, per un bambino abituato a portare capi molto più eccentrici. Lo seguì finché non svanì inghiottito dal crocevia di gente che affollava le entrate della mensa.
- E’ lui, non posso sbagliarmi -, affermò, tornandosi a sedere – Amèlie-san deve averlo fatto venire dalla Rosa Nera. Chissà per quale motivo… –
- Ci hai mai parlato? – Gli domandò a bruciapelo Bookman.
- Soltanto una volta e per poco. Perché ti interessa? –
Carpire le emozioni dell’anziano Esorcista, dietro le innumerevole pieghe rugose accumulatesi negli anni passati, era un’impresa che soltanto uno spirito predisposto alla completa abnegazione poteva adempiere; la spessa pittura nera che copriva la pelle raggrinzita acuiva l’intenso scrutare, dalle palpebre discinte e permeate dal bisogno di creare un evento e incorniciarlo con sotto un nome per identificarlo. Lavi conosceva bene quel puntare un obiettivo e sviscerarne le informazioni più nascoste e intuì l’interesse dell’anziano nel coglierne il perenne cruccio stampato sul viso, impegnato a cercare qualcosa nei meandri della mente e che stava sfuggendo dalle sue dita appuntite.

- Quel moccioso nasconde qualcosa. –

L’opinione fattasi di primo acchito su quel posto si orientò su una delle poche sicurezze immutate lungo quei sei anni di nuova vita: lui odiava gli esseri umani. Per Pierre rimaneva una costante che soprassedeva la sua appartenenza alla medesima razza, preferendo ritenersi un ramo più isolato dagli altri, e dopo quattro giorni di permanenza presso la Home aveva preferito le proprie elucubrazioni allo sperimentare inutili interazioni sociali.  Dacché aveva ricevuto l’ordine, si era messo in viaggio con il solo scopo di arrivare all’Ordine Oscuro secondo i tempi stabiliti: le direttive della signorina Amèlie erano state concise e sebbene la ragione della sua presenza gli fosse ancora sconosciuta, il clima di cocente apprensione aveva favorito il delinearsi di una situazione semplice da comprendere. Stava per accadere qualcosa e la sua padrona lo aveva chiamato per impostare una macchinazione pronta a entrare in funzione al momento propizio. I documenti sondati assieme a lei a discapito delle ore di sonno li avevano sospinti gradualmente alla ricostruzione di una vicenda la cui natura – ai suoi occhi incomprensibile - si era manifestata a quelli della donna sotto una luce totalmente diversa. Cosa fosse riuscita a estrapolare da quei documenti rimaneva un’incognita di cui preferiva non venire a conoscenza per motivi legati alla presenza dei Corvi, ma per un singolo istante aveva colto lo sconcerto balenare sul suo viso di porcellana mentre chiudeva il diario e lo faceva sparire dalla sua visuale; nel suo silenzioso pensare, Pierre ipotizzò che fosse qualcosa con cui la sua padrona aveva già avuto a che fare.
Ne aveva la certezza come se avesse potuto stringerla forte fra le proprie dita e con in gioco l’onore della Maitresse della Rosa Nera e la propria reputazione, il bambino si era sin da subito astenuto dal lesinare sulle proprie abilità che, a conti fatti, gli avevano fatto guadagnare un grosso anticipo sui tempi d’arrivo all’Ordine Oscuro e – maggiormente più importante - un cenno d’approvazione da parte della donna a cui rispondeva incondizionatamente; ma, sempre per amore di quella figura per cui nutriva una morbosa devozione, doveva perseverare nella rinnegazione di qualsiasi palpito velenifero ed evitare ogni sorta di comportamento deplorevole che potesse svantaggiare entrambi. Cosa di per sé facile, se gli impiccioni si tenevano bene a distanza.
Allontanatosi dalla mensa, l’odore di Chiesa si scatenò in un vomitevole olezzo che ne solleticò gli anfratti reconditi dell’animo. Quel tipo non aveva fatto altro che puntargli gli occhi contro la nuca, curandosi appena di mantenere una distanza che, disgraziatamente, non compensava a sufficienza la sua mancanza di discrezione.
- Che cosa vuoi? – Fermatosi in mezzo al corridoio, Pierre si voltò.
La nuca rasata, gli occhiali a fascia e l’abito preciso nelle pieghe si insinuavano in veste di dettagli insignificanti. Se ne stava lì, a fissarlo impietrito, e nel subire passivamente quel fastidio, il pupillo di Amèlie Chevalier non intravide il tremolare dell’inesperienza, ma di un vissuto gli riconosceva un crimine imperdonabile nei confronti della vita umana. Bastò quel sussurro sconnesso e la pistola stretta nella mano destra dell’ufficiale perché lo strappo si ingigantisse in una voragine e il tempo si riavvolgesse precipitosamente.
- Tu…Eri alla villa…Sei la Bestia di Erkenwald*. -

Un lampo. Le nubi tuonarono bagliori rombanti, rami scintillanti che dilatavano un tessuto d’aria carico di litri d’acqua delineanti contorni indefiniti. La torre ovest della Home svettava senza bandiere o effigi a decorarla; il pavimento esagonale, lastricato di nero, con i soli quattro pilastri appuntiti e nessuna ringhiera a recintarlo, era tutto quel vi si poteva trovare sulla sua cima, solcata dal vibrare dell’Arca Bianca che giaceva dormiente fra i flutti del maltempo. Il pianto del cielo tartassava le piastrelle lucide della piattaforma scivolando lungo le guglie consumate, dando l’impressione che il vuoto sottostante fosse veramente senza fine, un abisso buio dove anche quella sinfonia che aumentava e diminuiva d’intensità cadeva in un muto pentimento. Quel suono gutturale, Amèlie lo odiava. E non si trattava di un odio lanciato alla rinfusa, una grossa parola incautamente mal utilizzata per enfatizzare un minuscolo fastidio. La forma malleabile e l’aspetto incolore che esplodeva in miliardi di schegge al momento dello schianto scarnavano il sentimento nascosto sotto l’epidermide con l’astrusa abilità di impiastricciare il presente con il passato e, al suo insistente grattare, la donna rispondeva con un chiudersi impenetrabile che lasciava spazio a un silenzio irragionevole. Troppo profondo, troppo intenso, troppo freddo da toccare, eppure vivo e presente da lasciarne trasparire la lucidità da cui era stato generato. La sensibilità di dubbia appartenenza era solita rimanere isolata nel gelo delle proprie convinzioni, sciogliendosi appena in sospiri frustrati e schiocchi di lingua stizziti; niente di dirompente, semplici frammenti che davano prova che sotto il suo crudele giocare, Amèlie Chevalier viveva di battiti umani. Contati, controllati, addirittura velati d’irriverenza per nascondere qualcosa di maledettamente vulnerabile, ma pur sempre umani. Il profumo dell’umidità soleva preannunciare l’arrivo di giorni impetuosi, ogni barlume di ragionevolezza si annullava nell’apatia del suo viso; la vista e il contatto schiudevano intimità violate dalla maschera più beffarda del destino, il concatenarsi di incidenze fattesi disdicevoli che tornavano a punzecchiarla all’incalzare delle nuvole cupe sopra il cielo azzurro. In quei giorni l’insolenza diveniva più spinosa, intoccabile, blindata in un mondo dove lo sprezzo delle sue labbra e dei suoi gesti sapeva come e dove ferire chi ingenuamente le mostrava confidenza. Autenticamente intrattabile da qualsiasi angolatura si cercasse di inquadrarla, per implicito desiderio bramava una solitudine maggiore e nell’isolarsi aveva trovato il massiccio torrione rifuggente dall’essere un luogo signorile e asciutto.
- E’ un mondo così buio e cattivo da far paura a chi lo guarda troppo a lungo. –
Allungò la mano aperta sotto la pioggia, stringendo la stoffa del palmo aperto in un pugno stretto.
Non aveva senso attribuire a tanta liquidità incolore un significato opposto, il suo cuore era riluttante a considerare quel requiem malinconico con sentimento diverso dal disprezzo, mentre suonava con voce ritmica dolori passati, concentrandoli nell’unico rabbioso rimpianto che si portava dentro, quasi fosse da sempre stato scritto che lei e la pioggia dovessero vivere un eterno rapporto conflittuale. Non lavava via ferite o sciacquava le mani dal sangue incrostato fra i polpastrelli; anneriva l’umore portando a galla qualcosa che aveva accettato perché non vi poteva essere ulteriore soluzione e non si trattava di prezzi pagati con fredda indifferenza per un'altra briciola di potere da conquistare. Forse un avvertimento o, ancor più calzante, una maledizione. Sul ciglio della torre, il volto abbassato, le braccia conserte e le palpebre dalle lunghe ciglia scure calate sul mondo intero, erano permeati di una solennità che avrebbero portato chiunque a credere nell’esistenza di un legame inscindibile fra lei e quel Dio che l’aveva designata come sua ancella in quella battaglia, ma come l’acqua che scorreva libera giù dal cielo, l’impressione era temporanea. L’abito nero aderiva al corpo bagnato e lucido, la pelle candida solcata da scie fredde che tracciavano archi fra le curve e gli angoli scoperti del corpo, dove i capelli, sfilacciati, erano adornati di perline trasparenti. Ricadevano lungo la schiena disegnando lucenti arabeschi d’onice. Odiava la pioggia, sì, ogni parte congestionata dal liquido gelo respingeva tutte le sfumature attribuite dall’uomo, ma capitava che, a volte, Amèlie cercasse di coglierne l’anima, fra veli oscuri che adombravano la notte; partiva col picchiettare frenetico che si abbatteva sulla sua pelle, inspirando nei polmoni l’umidità che s’innalzava dal basso e saggiando il muro invisibile che il suono in sé elevava tutt’intorno, per poi tornare al punto di partenza, con l’orgoglio smussato d’angoscia per le persone a lei care che l’avevano lasciata in giorni come quelli. Anita si era aggiunta ad esse senza che lei, nell’istante in cui Lenalee le aveva consegnato la lettera, ne rimanesse particolarmente sorpresa. La lettera che stringeva fra le dita ingioiellate di gocce era un lascito dagli angoli svolazzanti e l’inchiostro sbavato.

Cara Amèlie.
Mi dispiace. So che scusarsi non è il modo migliore per cominciare una lettera, ma nella mia attuale posizione sento di doverti molte cose, le stesse che non ti ho detto prima che ci separassimo, e che in queste poche righe sono sicura non riuscirò a riferirti. Perché abbia preso in mano la penna proprio ora, lo devo al fatto che tu, come me, conosci l’importanza di vivere per se stessi: anche quando tutto ci rema contro, è in noi che dobbiamo confidare per continuare a guardare avanti come abbiamo sempre fatto. Arriva un momento nella vita dove si è costretti a dimostrare la forza delle proprie scelte ed è ciò che ho fatto. Ho lasciato un marchio. Tu hai sempre saputo cosa rappresentasse Cross-sama per me, ma incontrarti un’ultima volta mi ha fatto capire quanto in realtà non fossi sincera con me stessa. Te lo dissi anche allora, ricordi? Che ero un pochino gelosa di te…
Mi sarebbe piaciuto provare, comprendere, almeno un po’, l’intima profondità che vi unisce. Anche senza vedervi insieme, la presenza di Cross-sama al mio fianco è stata sufficiente affinché anche tu fossi lì con noi; il tuo volto si accompagnava ai miei dubbi, pensarti quando l’uomo di cui mi ero ripromessa di non innamorarmi mai si chiudeva nella sua imperscrutabilità, diveniva così automatico da indurmi ad odiarti e di questo ti chiedo ancora una volta perdono. La verità è che per tutto questo tempo non ho fatto altro che auto-ingannarmi, perché sapevo di non essere la persona più adatta a interpretare il suo carattere enigmatico. No. Credo sia più saggio affermare che non sono mai stata designata a essere la persona più idonea a scoprire chi egli realmente sia e forse, da qualche dentro di te, nutri il mio stesso timore: l’ho capito guardandoti negli occhi, da come ti difendi strenuamente dalla sua immagine quando ti si avvicina troppo seppur in te viga il desiderio di spingerti più in là, eppure nessun altro potrebbe convivere con questo sentimento nato per distruggere l’anima. Diversamente da me, tu, Amelìe, vuoi fronteggiarlo, puoi: sei un soldato, combatti e splendi con lo stesso vigore di un fulmine che taglia l’oscurità.
Ora, so di averlo già chiesto a Lenalee-chan, e francamente ancora mi domando perché quel giorno non lo chiesi a te; può darsi che mi odierai quando questa lettera ti verrà recapitata – conoscendoti, mi maledirai più per le scuse che per altro! -, eppure, Amèlie, io… Adesso sono felice. Ho scelto e ho lasciato il mio marchio su questo tratto di strada, trovando la Felicità che credevo ormai perduta. Ed è con questa stessa Felicità, che ti chiedo di prenderti cura di Cross-sama anche per me. Magari le parole di una morta non ti saranno di alcuna utilità per quel che ti riserberà il futuro, ma lui confida in te più al pari di se stesso. E come tu hai bisogno di lui, lui ha bisogno di te. Io non potrò più farlo, ma non me ne rammarico: se a vegliare sulla sua sorte ci sarà una persona folle quanto lui, posso anche sprofondare serenamente in questo grande oceano che ho deciso di solcare insieme ai tuoi compagni Esorcisti. E chissà, forse…Anzi, no: sono certa che un giorno, troverai la Felicità che tanto silenziosamente brami con tutto il cuore, con o senza l’uomo che entrambe abbiamo deciso di seguire per tutta la vita. Quindi non ti arrendere, Amèlie: vai avanti, fino alla fine.

Con amore,
Anita.

- Almeno una di noi è riuscita a ottenere quella che voleva, eh, Anita-chan? – Un sorriso d’amaro sollievo le piegò le labbra, ma nessuna lacrima si infranse al suolo - Repose en paix, mon ami.*
La fiammella bluastra dell’accendino si allargò con piccole lingue guizzanti d’arancione schiusesi in petali roventi che avvolsero la carta bagnata. I riverberi illuminarono l’ovale niveo congestionato, immobile d’innanzi ai fugaci schiocchi ambrati: il cuore di Anita, in tutto il suo ingenuo splendore, racchiuso in parole che avevano finito per essere inghiottite dall’acqua come era successo a lei, planò dolcemente a terra in caldi pezzetti sparpagliati sottoforma di cenere luminosa.
- Ti prenderai un malanno con tutta questa pioggia. –
Il suo non era mai stato un amore sciocco o puerile, l’infantile sogno di un’adolescente di trovare il principe azzurro. Il suo non era amore e basta. Che qualcosa avesse finito per crearsi fra loro era un fatto finito per essere accettato, ma nulla da cui trarre una positività in grado di celare la disgustosa immorale con la quale aveva saputo scavare tanto in profondità.

- E’ un mondo così buio e cattivo da far paura a chi lo guarda troppo a lungo. Ma è anche il mondo dove tu vivi e io inseguo la tua ombra. 
Nel doverlo affrontare, Amèlie lo reputava alla stregua di una dipendenza malata e contorta per il non riuscire a distaccarsene. Non poteva, non completamente, non senza motivazione, non senza scelta. Il suo non era amore, ma a ben guardare quella convinzione era un espediente per impedire a quell’uomo e alla sua voce sensuale di trasformarsi in un connotato con cui la si potesse identificare. Amore o non amore, a nessuno che non fosse lei stessa avrebbe concesso di interferire sul suo modo di vivere e sulla sua identità.
- Stavo solo cercando di capire cosa tu ci trovassi di così bello nell’acqua che cade dal cielo. –
- Curioso: avrei giurato che stessi piangendo. –
- E offendere la memoria di un’amica caduta? Tanto vale che mi sforzi di piangere la morte di persone che nemmeno conosco. 
Crescendo Amèlie aveva sviluppato la personale convinzione che le lacrime fossero motivo d’offesa anziché d’elogio per i propri amati. L’unica volta dove aveva ceduto, non le era rimasto null’altro da fare che ignorare il resto: allora piangere per sua nonna si era spiegato in un oceano di pulsazioni nervose culminate in singulti che avevano voluto essere la risposta fisica a un dolore già in circolo, ma con l’accumularsi degli anni e l’indurirsi del cinismo, era giunta a pensare che piangere fosse la maniera più infame per criticare la scelta di una persona e il cordoglio della perdita un’effige inviolabile, il cui delicato raffreddarsi del corpo doveva essere libero di consumare la propria ragione di esistere e infine perdere la propria concretezza. A dodici anni, l’ultimo viticcio che teneva insieme la sua piccola famiglia si era spezzato e il languore gradualmente apertosi man mano che i giorni scorrevano, l’avevano come avvertita. Una settimana prima della scomparsa, sua madre era partita per una missione insieme all’Esorcista assegnatole. Varcato il portone, l’aveva salutata sotto la prima pioggia di Novembre. Mirarne il materno sorriso trasformarsi in una chiazza indistinta aveva istantaneamente rafforzato il sentore che non sarebbe più tornata a casa.
Cross astenne la replica per prolungare il muto osservare rivolto alla donna che dava mostra della propria schiena; dritta e con le spalle puntellate dall’acqua, seppe per istinto cosa gli occhi d’ossidiana più bui dell’universo ingioiellato di stelle stessero penetrando e non avrebbe mostrato sorpresa qualora avesse colto la notte ritrarsi intimorita. L’abito scuro si fondeva con la bianca carnagione in un’unica pelle definita dagli elaborati arabeschi intarsiati assieme al pizzo. Nella fissità dei muscoli si intravvedeva unicamente l’impossibilità a criptarne l’animo, l’invito secco e scontroso a non avanzare in quel ristretto spazio dove le ombre traboccavano brillanti. Dacché la conosceva, il Generale aveva sempre avuto a sua disposizione la prova di quanto la risolutezza della francese fosse più di un mero velo dipinto sul suo viso, l’incostanza non era certamente il genere di difetto che le si potesse attribuire. Entrambi avevano la loro maniera di lottare contro il grigiore che li circondava, e seppur del diplomatico rapporto fra e Maestro ed ex-allieva fosse rimasto esclusivamente il nome, sussisteva ancora una simbiosi per quel sapersi intendere fra bestie inimitabili benché fossero passati degli anni dal loro ultimo incontro.
- Mi devi un mucchio di spiegazioni, Cross. – Amèlie non esitò a prenderlo di petto, senza concedere tergiversazioni mentre si voltava verso di lui con la goccia di rubino a schioccare un fugace scintillio.
- Come a tutti, Chibi-chan -, le disse – E, supponendo che tu non voglia metterti in coda insieme agli altri, salterei i convenevoli per passare direttamente ai fatti. –
- Questo tuo slancio di generosità nei miei confronti non ti farà ottenere uno sconto sui miei servizi -, lo avvisò - Costosi sono e costosi rimangono. Troppo perché uno squattrinato come te possa richiederli. –
- In vista della posta in gioco, sono sicuro che farai una piccola eccezione –, asserì l’uomo.
- Allora, mi auguro che la questione abbia a che fare con il Quattordicesimo o sul fatto che Allen-kun sia un Noah, altrimenti dubito che potrebbe interessarmi. -
Non fu necessario guardarsi negli occhi per capire se le loro parole nascondessero una qualche falsità o fossero il limpido specchio delle loro reciproche consapevolezze; fatto sta che nulla impedì al Generale di sollevare le sopracciglia e stupirsi almeno un poco. Che quell’argomento venisse a galla era prevedibile, l’Arca Bianca celava una storia ricca di oscuri segreti che avrebbe intrigato anche la mente più restia ad accarezzarne le perversità e mai Amèlie avrebbe ignorato qualcosa capace di stuzzicarne l’interesse. Soltanto, non si aspettava che giungesse a quella verità così presto, a una velocità che l’aveva sinceramente sorpreso, con gli occhi corallini intenti a tracciare le curve del suo corpo semi illuminato dalla pioggia. 
- Ho costretto Hatsue a informarmi sui fatti accaduti più di trentacinque anni fa –, proseguì la corvina, ancheggiando intorno all’uomo con la catenina ad attorcigliarsi lungo l’indice sinistro - L’Arca Bianca, il Noah traditore…Ogni cosa. Compresa la funzione delle Memory. Ciascuna di essa necessita di un corpo ospitante per poter rinascere a vita nuova, che, una volta compiuta, trasforma l’umano scelto in un nuovo Noah. La maledizione dell’Arca Bianca non poteva essere rotta che dallo stesso Noah che l’ha lanciata o da qualcuno che ne avesse ereditato i poteri, quindi un nuovo prescelto, e considerando che Allen-kun è riuscito dove perfino il Conte ha fallito, senza neppure sapere come ce l’abbia fatta… -
Dal tono di voce traspariva una sicurezza sui fatti in possesso che dava molto a pensare su quanto ella, in realtà, sapesse. Ma fra le righe e nella stessa spavalderia con cui calcava i passi si poteva respirare la contrarietà per l’essere stata usata come una pedina, un affronto al proprio orgoglio appena alleggerito dall’implicita pretesa che mosse istantaneamente contro il Generale. Ciò che aveva fugacemente scorto nella stanza del Quattordicesimo non faceva che alimentare il forte sospetto che dietro a un tale alone denso di apparente inspiegabilità ci fosse uno dei molti volti deturpati della Guerra Santa, forse uno dei più inverosimili. Qualora glielo avesse domandato, Cross non si sarebbe sottratto dalla discussione; come non si era preoccupato di un eventuale fallimento del suo piano, non si lasciò toccare dal timore che eventuali ripercussioni a lui destinate finissero per essere indirizzate contro Amèlie. Lo aveva sorpreso, senz’ombra di dubbio, ma cos’altro avrebbe potuto aspettarsi da lei? L’aveva addestrata lui, era un’opera sua, lui l’aveva mandata là dentro e sarebbe stato a dir poco ridicolo tentare di liquidarla con risposte preconfezionate o discorsi lasciati a metà. Le Chevalier non erano donne che si potessero raggirare e da quel dato di fatto insorgeva l’unica nota dissonante sopra cui era stato costretto a chiudere gli occhi: quanto sapeva?
- Non ti si riesce a nascondere nulla, eh, Chibi-chan? – Ridacchiò lui.
- Ho subito sospettato delle tue sporche intenzioni sin da quando Allen-kun si è presentato come un tuo allievo. Tu non prendi allievi, maschi, oltretutto -, lo accusò gelidamente, appesantendo la mano sulla propria fermezza affinché il mittente attorno a cui camminava capisse la totale assenza di ironia - Se fosse stato un qualunque compatibile lo avresti spedito dritto all’Ordine Oscuro, mentre invece te ne se preso cura per quattro anni senza dire niente a nessuno. O, forse, sono di più, chi lo sa… - L’asprezza si sciolse in un sorriso morbido, languido e sensuale. A quel punto, Amèlie si fermò di fronte all’uomo. Le dita affusolate ne risalirono lentamente il torace, artigliando le preziose perle d’argento e rubino che componevano il rosario lasciatogli da Rosalie Chevalier in persona. La croce penzolava appena verso il basso - Certo, potrebbe esserci una spiegazione alternativa, ma il punto è che…Io so chi sei, mio caro e presuntuoso Generale Marian Cross –, soffiò la corvina suadente, carezzando le guance ruvide. Un movimento delicato e rapido fece sì che gli occhiali sottili dalla montatura squadrata finissero per essergli sfilati – E giacchè so che con te nulla è mai come appare, sono quasi sicura che tu sia vincolato a questa faccenda del Quattordicesimo più di quanto pensi di farmi credere e che voglia usufruire del mio aiuto senza rendermi completamente partecipe del tuo legame con il piccolo Noah bianco. –
- E’ forse gelosia quella che sento? – Roco, Cross fece scorrere il dito indice sulla schiena bagnata e scoperta della corvina – Mi sembra di aver già detto che sei tu la mia preferita. –
- Abbi la compiacenza di toglierti il rosario di mia madre quando elargisci simili scempiaggini -, borbottò stizzita, tornando a guardare l’orizzonte buio. Per la seconda volta la rotellina dell’accendino scattò e la microscopica fiammella accese la cartina portatasi alle labbra rosse. 
L’attenuarsi della pioggia ridimensionò il picchiettio incessante a una fredda carezza dal suono soffuso. Sull’onda dei brividi che ne impalarono la spina dorsale, Amèlie affiancò lo stringere dei suoi guanti alla microscopica parte di sé impregnata di una sensazione che combatté con il disgusto; anche col viso a esternare un’impassibilità radicatasi in terreno sincero, determinate emozioni finivano per scolpirsi nella memoria, tinte delle sfumature più irascibili che l’umore umano potesse far fiorire. Ciascun ricordo con inciso sopra il volto di quell’uomo si attorcigliava attorno al suo essere donna, sfidandone tutti i nervi e scoprendone i pochi destinati all’immortale vulnerabilità, ma quale fosse la molla che faceva sbocciare dal nulla l’orribile consapevolezza di non potergli essere completamente indifferente, aveva la faccia tosta di estromettere le peculiarità più fattibili, come gli occhi penetranti, il colore irriverente dei fili carmini che ardevano sospinti dal vento, le mani grandi o l’arcuarsi della bocca quando esibiva i suoi maliziosi sorrisi. L’insieme di tutto si era rivelato l’unica risposta fattibile: un tutto contorto, indefinito, all’apparenza squadrato e in realtà abile nel riempire vuoti col semplice porsi ovunque nei confronti di una persona, dentro e fuori. Un particolare ascendente impossibile da disperdere in più parti, fra loro pericolose da toccare, ancor più mortali se fuse in un’unica e infinita verità inossidabile elevatasi a ossessione insopprimibile, lenta, spietata per il riuscire a tenerla legata senza che potesse opporvisi con valide motivazioni; marcava sulla sua unica vulnerabilità, impegnandosi a spezzettare il controllo di cui aveva fottutamente bisogno, che doveva applicare, possedere per essere quella che era, per controbilanciare la distruzione psicologica che cresceva contraria al raziocinio, pur sapendo che sarebbe sempre esistita la possibilità che lui ribaltasse le carte in tavola e la lasciasse scoperta.
Quante volte, da bambina, il suo corpo aveva tradito i suoi intenti? Quante volte l’osservarlo era scivolato in un’ inconscio proliferare di domande inspiegabili? Chi diavolo era l’uomo entrato nella sua vita? La risposta non era altro che il congiungimento di fugaci momenti, tocchi, strascichi di parole e, talvolta, persino l’ombra che turbinava sotto il riflesso giallo del sole contro il muro; un dito che tracciava sulla sua pelle un arco rovente fomentandole una stretta al basso ventre, una banale carezza ai capelli di seta nera o un’occhiata intensa al seno che il bustino di pizzo decorato malcelava…
Ma come Marian Cross si era sempre dilettato a essere una fiamma danzante nella nebbia, Amèlie aveva imparato ad amare se stessa al di sopra di ogni altro e, sull’onda di quel acquifero addolcirsi, a sapersi destreggiare con l’inganno erano coloro che sapevano vestirlo rimembrando l’importanza primaria di salvaguardare esclusivamente la propria persona.

1*: Silenzio (Francese).
2*: Il nome è un collegamento al piccolo spin off di Hell’s Road che tratta di Pierre e di come si sia unito ad Amèlie: “Chimera”.
3*: Riposa in pace, amica mia (Francese).
E…Sono qui, di nuovo, dopo un’infinità di tempo che non sto qua a calcolare! Oramai non posso farci più nulla: scrivere mi manca, ma quando non hai tempo e ispirazione – seppur il desiderio ci sia -, non sai mai cosa può uscire oltre a una voglia che si consuma nel giro di due secondi. Questo è stato un capitolo lungo e rivisto in via di sviluppi futuri. So che alcune cose paiono non chiare, quindi dirò solo una cosa: Amèlie ha già letto i documenti che si è portata dall’Arca – lo scrivo anche nel capitolo, ma ci tengo a essere chiara – e ha scoperto altre novità. La sua fiducia in Cross e l’eventuale alleanza dipenderanno da come il caro Generale saprà gestire la situazione. Come sempre, mi auguro che non ci siano errori; mando un bacione a tutti coloro che mi seguono. Alla prossima!

 

  
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