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Autore: tillmorninghighway    15/07/2016    2 recensioni
A Maragho, capitale del ducato di Roviza, è notte. Il cielo è arrossato dagli incendi e su ogni cosa grava un silenzio teso e innaturale. Non è una notte qualsiasi, lo avrete già capito: è la notte della disfatta della città. Le truppe di Nestria, guidate dal comandante Kleist, hanno fatto breccia nelle mura, hanno preso il controllo della capitale e hanno messo agli arresti Elyn Dasayad, sovrana del paese. Ma se Roviza è definitivamente caduta, perché Wenzel Kleist è di umore così tetro?
Storia scritta per il contest "Quietly into the night" indetto da Whiteney Black sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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II

All I want to do…
 
C’era caldo.

A Kleist bastò gettare un’occhiata oltre il profilo del caseggiato attorno al Palazzo Ducale per indovinare che, all’alba, del Quartiere dei Vetrai e del Sottomura Orientale non sarebbe rimasto nulla. Le fiamme vi ardevano ancora indomate, riscaldando l’aria notturna e generando quell’impressione di camminare in una fornace a cielo aperto che il comandante, nella sua quasi ventennale carriera, era stato abituato ad associare a sentimenti di trionfo orgasmico.

Abbassò sulle spalle l’ampio cappuccio del mantello grigio, e marciò nell’oscurità verso i portici. Era inquieto, ed era una novità prevista e detestata. Avrebbe voluto prendere quella vittoria e rovesciarla in pasto ai porci e alle vipere. Sarebbe voluto tornare a corte a sbalestrare spada e titoli in faccia a re Arion, e a dire a Zeischer di prendersi l’Armata e di vedere un po’ che farci. Oppure avrebbe voluto dire a Tiril Ferlen di riportare il grauma nella gabbia e di radunare gli ufficiali per quello che avrebbero potuto chiamare ‘un importante cambiamento di rotta’. Soprattutto, avrebbe voluto trovare Elyn e dirle che aveva vinto lei, che lui sarebbe stato quello che lei voleva e che insieme avrebbero reso eterna Roviza. Avrebbe voluto…

… tradire?

“Ma sentiti…” si disse, e percepì di nuovo l’urgenza di agire, l’impellenza dei fatti - quelli coi quali aveva messo a tacere la sua incertezza e quelli coi quali avrebbe spremuto via dalla sua mente i pensieri inauditi che l’avevano stretta d’assedio negli ultimi mesi. “Sentiti, Comandante, a invocare il tradimento della tua patria e dei tuoi Dei, per una donna poi… Che vergogna”.

Tiril era stata puntuale. La sua figura solida e slanciata, coronata dall’aureola di ricci ingrigiti, saltò al suo occhio non appena mise piede sotto le volte ogivali che dal colonnato tortile si protendevano ad arrampicarsi sulla parete della reggia. Nella penombra dell’unica torcia del posto, il profilo massiccio e pallido del grauma era altrettanto visibile. Kleist strinse le labbra, e d’istinto sfiorò con le dita l’elsa del pugnale di malachite.

«Rilassati, Comandante». Il sussurro di Tiril echeggiò sotto il porticato, rimbombando in maniera spettrale nell’anomalo silenzio che gravava sulla notte della caduta di Maragho. «Rol non mangia nessuno se non glielo dico io». Ridacchiò, e a Kleist sembrò di udire il peggior demone dell’Hakke.

Allontanò la mano dall’arma e la raggiunse, distogliendo gli occhi dallo sguardo nero della belva. «Diglielo, dunque» intimò. La creatura ansimò piano, e inframmezzò al suo respiro rapido una serie di bassi ringhi sbavanti. Le sue aguzze orecchie cremisi erano ritte, segno che si aspettava di partire per una Caccia da un momento all’altro.

Tiril lo fissò. «Wenzel». Silenzio. Un sospiro. «Se gli dò la traccia la segue fino alla fine».

«Lo so».

«Guarda che la trova. Non ti credere che un po’ di puzzo di bruciato o di tanfo per qualche centinaio di mort’ammazzati può confonderlo».

«Credi che non lo sappia?» sbottò, alzando la voce suo malgrado. La bestia gli rispose con un latrato impaziente. «Dagli la traccia, Dei onnipotenti! Facciamola finita prima che…». Batté due volte il pugno chiuso sul petto, la faccia contorta in una maschera di esasperazione. Tiril lo guardò sconcertata. Kleist imprecò pesantemente. «Obbedisci» le ingiunse con rauca ferocia, e lasciò ricadere la mano che aveva lasciata artigliata sul cuore.

Tiril richiuse la bocca. Esitò, ma non ebbe l’ardire di andare contro un ordine diretto. Scosse la testa e tirò fuori da una tasca la leggiadra calza di seta nera. «Non sai quello che fai, Wenzel. Sei fuori di testa. Ma sei il Comandante, perciò…»

“Dei immortali, non farlo davvero”, pensò Kleist. Ma riguadagnò l’impassibilità, e osservò rigido il bianco grauma protendersi ad annusare l’indumento che gli veniva messo sotto le enormi narici scarlatte. “Dei immortali, Dei immortali…”. Il grauma alzò la testa di scatto e fissò le iridi di tenebra sui fumi rossi che ammorbavano il cielo. Kleist sentì le ginocchia cedergli, e capì che il puzzo di bruciato e l’odore dei cadaveri non sarebbero serviti davvero a un bel nulla. Non che avesse creduto il contrario, però… “Oh, Llaw… non ucciderò mai più un uomo, tornerò a Donaet e coltiverò le terre dei miei padri, crescerò Ireen in seno al Tempio, Llaw. Fa che non trovi la traccia, ti prego”.

Il grauma ululò mostruosamente, riabbassò il capo e fece scattare i suoi possenti fasci di muscoli. Corse, scagliato nella notte muta come un colpo di mortaio indemoniato. In pochi attimi si lasciò dietro i contorni maiolicati di Largo del Palazzo.

Kleist si mise le mani fra i capelli. «Dei, avrei dovuto sgozzarlo un attimo fa!» ruggì, e si slanciò all’inseguimento della belva. «Dei, quanto sei deficiente!» soffiò furente Tiril Ferlen, e gli venne dietro a rotta di collo.

I loro passi rimbombarono sull’acciottolato, coprendo il suono delle zampe acuminate dell’animale. Se lo avessero perso di vista, era certo che lo avrebbero incontrato di nuovo solo quando fosse tornato a consegnare la testa mozza della duchessa come pegno di fedeltà e affetto. Kleist aveva il cranio a pezzi e un bulbo oculare che gemeva come ferro battuto sopra un’incudine, ma correva. Accantonò la stanchezza dello scontro combattuto fino a quel pomeriggio, ignorò la fitta alla milza e il fremito lattico del polpaccio, e corse. Sapeva che il grauma era molto più veloce di un qualsiasi essere umano, ma non ammettere l’eventualità di un miracolo era per lui inammissibile.

Quando il segugio svoltò a destra fra due file di edifici allampanati e cadenti, Kleist lo seguì senza esitazione, e alle sue spalle sentì Tiril fare altrettanto. Il vicolo era incassato e completamente buio e, nonostante il candore lebbroso della sua pelliccia, il grauma svanì nel nulla in poche falcate. Il generale si arrestò di botto e trattenne respiro e ansito, prestando orecchio al galoppare metallico che si allontanava nel reticolo delle strade. Avvertì la presenza di Tiril al suo fianco, anche lei immobile e in ascolto.

«A sinistra, e poi ha continuato ad allontanarsi» gli sussurrò. Lui non si mosse né parlò, ancora concentrato sui suoni di quella notte immota e sul battito assordante che gli pulsava nei timpani. Il ritmo delle zampe adunche, che si era fatto sempre più impercettibile, si tramutò d’improvviso in un raspare folle, quasi che la bestia avesse scambiato un pezzo di legno per la duchessa di Roviza e si fosse catapultata a sbrindellarlo. Delle grida spaventate si trascinarono fino a loro attraverso le stradette.

Tiril gli afferrò il braccio. «L’ha trovata» mormorò in fretta.

Kleist non reagì, se non prendendole la mano e staccandosela di dosso. Avrebbe potuto strozzarla e avrebbe potuto strozzarsi da solo, ma non era il momento. Messo alle strette, si scoprì freddo e razionale per la prima volta in ore. Seppe dove andare. «Vieni» ordinò. Affondò nella tenebra senza guardarsi indietro. Poteva essere l’eco sollevata dai suoi stivali sulle pietre, ma sapeva che era Tiril Ferlen che lo seguiva. La guidò in quell’universo cieco con la sicurezza del lampo che s’illumina la via da sé, spavaldo, fulmineo e inarrestabile.

Le grida non erano cessate ma si erano fatte più controllate, e vi si erano anzi uniti suoni metallici che stridevano sotto il cielo granata proclamando resistenza. Il luogo non era distante, della qual cosa Kleist non poté che confortarsi. Più tardi avrebbe avuto tempo per scoprire se la milza si era spappolata per sempre, se il fegato gli si era squarciato nella corsa o se l’adduttore che si era fatto pietra nella sua gamba lo avrebbe azzoppato per sei lunazioni o più. Al momento, però, l’unica cosa che contava era potersi dire che sarebbe riuscito a fare più in fretta solo se avesse avuto un purosangue di Betavia sotto mano.

I campanili slanciati della Cattedrale della Dea irruppero finalmente nel suo campo visivo, stranamente aranciati contro il cielo di Maragho. Non li guardò, né guardò i rosoni adombrati dal fumo o le pose tristi delle statue abbarbicate sugli archi rampanti. La sua attenzione fu tutta per quello che stava accadendo davanti alla Porta Maggiore del tempio.

Le zampe anteriori piegate in preparazione di un assalto, il muso e il manto bianco striati di rosso, gli occhi vuoti luccicanti di buio, il grauma stava studiando i suoi avversari, due armigeri nestriani che brandivano lance e scudi e che erano più pallidi della bestia stessa. Al suolo, disseminati in forme sparse, Kleist contò almeno tre dei suoi uomini squartati e uccisi. Quanto al portone, era pressoché integralmente divelto e lasciava scorgere i movimenti frenetici di più braccia che lo puntellavano febbrilmente dall’interno dell’edificio.

Si concesse due secondi per riprendere fiato. Tiril lo raggiunse e si fermò a rifiatare al suo fianco, il braccio fasciato stretto contro il petto da quello sinistro. In quel momento il grauma fece la sua scelta, e si avventò sul soldato dai capelli rossi che un istante prima il generale aveva giudicato essere sull’orlo delle lacrime. «Alle spalle, a sorpresa» consigliò la Custode del Serraglio Militare. «Alle spalle e a sorpresa o dì a quelli di fare largo e salvarsi la pelle». Kleist annuì. Sguainò il pugnale di malachite e si fiondò attraverso il sagrato.

Rosso aveva tirato su lo scudo e aveva resistito al primo attacco del grauma. L’animale riatterrò al suolo con eleganza e sputò fra i ciottoli le schegge di legno spaccato rimastegli fra le fauci. L’altro soldato, un giovanotto dalle spalle larghe e con l’elmo ancora in testa, affondò un colpo di lancia al suo fianco. L’animale schivò il tentativo con uno scarto laterale e si slanciò di nuovo su Rosso. L’armigero si riparò ancora dietro lo scudo, e la sua espressione sgomenta sparì dal campo visivo di Kleist quando il grauma si artigliò alla protezione con tutte e quattro le zampe, schiacciando col suo peso il braccio del malcapitato. Con un morso strappò via metà del legno. Rosso gridò, e lasciò andare l’oggetto ormai inutile. Il grauma ricadde al suolo, perfettamente ritto sui suoi arti ferrei. Elmo provò nuovamente a colpirlo, ma la bestia fu molto più rapida. La punta della lancia si scalfì sulla pietra del sagrato nello stesso momento in cui Rosso lanciò un acutissimo grido. Le zampe posteriori affondate nel ventre del giovane, il grauma spinse quelle anteriori sulle sue spalle e lo azzannò brutalmente alla gola. Kleist gli fu addosso proprio mentre il gorgoglio dell’effimera fontana di sangue si univa a quello più lontano della sempiterna Fonte Sacra della Cattedrale.

Si gettò sulla schiena della belva e l’afferrò con la sinistra sotto il garrese umidiccio. Colpì al collo con la destra, affidando alla malachite aguzza il compito di sfracellare muscoli, vasi e ossa. La testa del grauma avrebbe dovuto staccarsi e fargli l’enorme piacere di rotolare al suolo in uno sprizzo ematico, ma le cose andarono diversamente, e Kleist si ritrovò con la schiena sbattuta sull’acciottolato e con la doppia fila di coltelli dentali del segugio a mezza spanna dalla faccia. Il petto e le cosce gli bruciavano là dove gli artigli del grauma erano affondati nella sua carne, la bava dell’animale imbestialito gli gocciolò sugli occhi e sulla fasciatura che teneva insieme il trogolo di dolore che era il suo cranio. Era finita.

“Poteva andare peggio”, pensò Kleist. Almeno non sarebbe diventato un traditore. Almeno non avrebbe visto ammazzare Elyn. Almeno, se davvero esisteva il Giardino delle Mele, l’avrebbe rivista lì molto presto. E, almeno, lui sarebbe comunque morto da vincitore mai battuto, il che non era cosa da sottovalutare.

«Rol!». La voce di Tiril rimbombò adirata nella piazza. «La missione, Rol! Non perdere tempo in sciocchezze!». Kleist batté più volte le palpebre. La saliva gli ostacolava la vista ma fu comunque certo di percepire un tentennamento nel grauma. Un attimo dopo, lo scoppio di quattro focolai spastici nel suo corpo e la contemporanea sparizione del peso dell’animale dal suo petto gli dissero che Tiril gli aveva appena salvato la vita.

“Allora si continua”. Strinse i denti e si mise a sedere. Sentì di nuovo il raspare che gli aveva suggerito di venire da quella parte, stavolta però molto più violento e prossimo. Si pulì gli occhi sulla manica e barcollò in piedi. Elmo era accanto a lui e lo aiutò a reggersi sulle gambe mentre la testa gli girava e gli arti rifiutavano di rispondergli.

«Signore, state bene?»

«Sì…»

«L’ospedale è roviziano, forse potremmo…»

Kleist lo spinse via. «Chiama rinforzi» ringhiò, e allontanò dall’occhio sinistro la colata ferrosa che aveva zuppato e oltrepassato la fasciatura di Ciullagambe. Arrancò verso il portone, e per due volte le ginocchia gli cedettero, ma si impose di restare in piedi e in piedi dunque restò.

«Smettila di fare il codardo». Tiril gli si parò davanti con occhi brucianti, bloccandogli il cammino. Kleist non capì, ma capì cos’era lo schianto che era risuonato in quell’istante. Qualcuno gridò, il grauma latrò. Molte più voci gridarono concitatamente.
La porta della cattedrale aveva ceduto.

Si raddrizzò, e dall’alto della sua statura guardò coi suoi occhi di acciaio gelido la custode. «Levati di mezzo, sergente». Tiril strinse più forte il braccio ferito contro il petto, e non si mosse. «Se vuoi farti ammazzare devi prima ammazzare me», ribatté. Il generale s’incupì. E, senza pensare, attaccò.

Tiril Ferlen non doveva esserselo aspettato, Kleist era certo che in caso contrario avrebbe opposto molta più resistenza. Invece, tutto iniziò e finì con un banale moto di sorpresa che le attraversò il corpo prima e che si esaurì repentinamente in un crollo di membra afflosciate dopo. Kleist la oltrepassò, scosso da scariche di brividi incontrollati. Chinatosi appena, passò attraverso la lacerazione che il grauma aveva spalancato fra i bassorilievi lignei della Porta Maggiore, ed entrò nella Cattedrale della Dea.

Il caos era concentrato proprio all’ingresso della navata centrale, dove un gruppo di uomini rattoppati e armati di sedie e assi di legno stava tenendo a bada un ammasso di muscoli bianco che scattava a destra e a sinistra nel vano tentativo di liberarsi della doppia mezzaluna umana che gli si era serrata attorno. Il grauma ululava minaccioso e scrollava la testa, schioccando le zanne contro i suoi ostacoli. Perdeva sangue dal capo, e il comandante capì qual era l’origine del nero viscoso di cui era lordo il suo pugnale. L’aveva beccato, dopotutto. Cionondimeno… che quei feriti raffazzonati stessero lì ad affrontarlo aveva qualcosa di eroico, e Kleist si trovò suo malgrado ad ammirare una volta di più il coraggio dei roviziani.

Uno di loro incrociò il suo sguardo. Fu certo di essere stato riconosciuto ma non se ne diede pena. Claudicò verso il grauma e brandì il coltello di malachite, apparentemente l’unica arma reale rimasta nell’intero tempio-ospedale. I roviziani dovevano aver capito che era dalla loro parte, perché nessuno provò a fermarlo. Uno di loro, anzi, si fece avanti e assestò un fendente contro il grauma con quella che doveva essere la gamba di una sedia. Il segugio schivò e si preparò a contrattaccare. Kleist approfittò del momento che gli era stato fornito. Fece perno sulla gamba sinistra e balzò. “Stavolta ti ammazzo”, promise.

Ma ancora una volta sentì la lama del coltello non opporre la resistenza che si era aspettato. Dov’era la carotide di quell’essere abietto? Dov’erano le sue vertebre cervicali? Dove i suoi brani di muscoli e carne? Dove? Fece per rialzarsi ma il grauma gli si scagliò addosso, e solo un riflesso istintivo lo salvò dalle sue mandibole. Rotolò sulla schiena. La belva gli saltò addosso e i suoi artigli gli affondarono di nuovo dentro, facendolo mugghiare. Allargò il braccio destro, strinse convulsamente il pugnale e tentò un ultimo disperato affondo. Mancò il colpo.

Il grauma gli si era già afflosciato addosso, ed il coltello si limitò a battere sonoramente contro l’oro dell’asta che ne aveva trapassato la scatola cranica.

La carcassa fu spostata, ma lui scoprì di non avere più forze per rialzarsi. Un uomo si piegò su di lui e gli appioppò un paio ceffoni. «Sì, è ancora vivo» annunciò in roviziano, rimettendosi diritto. «Chiamate quel medico lì, il tizio di Nestria. Che se la vedesse lui con questo qui». Un ragazzo aggrappato a una gruccia si allontanò, probabilmente per andare a cercare il cerusico in questione. Qualcuno strappò l’asta d’oro dalla testa della fiera, e Kleist ebbe modo di riconoscervi il bastone cui la Sacerdotessa del culto si reggeva durante le processioni di primavera. La folla non si disperse. Qualcuno commentava l’attacco, altri esaminavano il cadavere del grauma, molti continuarono a ronzare attorno al generale come un nugolo di mosconi, dedicandogli occhiate malmostose e insulti biascicati nonostante il suo intervento.

Kleist non li ascoltava. Guardava gli affreschi del soffitto, i colorati personaggi della mitologia eretica di quel paese immortalati nelle loro gesta inesistenti. Guardava gli stucchi affastellati attorno alle finestre, ansiose orde di fauni e putti che rendevano lode alla loro fantasiosa Dea. Guardava la fiamma delle candele ardere in cerchio nell’aria immobile, illuminando quel tempio tramutato in lazzaretto dalla volontà del Re di Nestria. Non li ascoltava. E, in realtà, non guardava nemmeno, non davvero.

Aspettava.

«Neanche mezza giornata, conte Donaet» lo irrise finalmente una voce femminile.

Kleist sentì una morsa serrargli il petto. “Eccola”. Si volse lentamente e la vide: pallida, accigliata, i lunghi capelli corvini scomposti sulla fronte coronata. Incombeva su di lui e profumava di osmanto e papavero blu, e come ogni volta pensò di volerla e di non volerle né poterle resistere.

«Ed ecco che siete già dove vi spetta» continuò beffarda.

«Ai vostri piedi?» chiese sfibrato.

«Nella polvere» specificò.

«Elyn…»

«Duchessa» rettificò lei, un bagliore pericoloso nello sguardo azzurro.

Kleist aprì la bocca, ma Ciullagambe scelse proprio quel momento per fare la sua inaspettata comparsa.

«E come si fa a lavorare così? Le fasciature non durano mica se si fanno ‘ste cose, Comandante. Avanti, si togliesse quella giubba che mo’ vediamo che v’ha combinato Fido. E poi a letto, a letto a riposare, abbastanza minchionerie ci sono state per ‘sta giornata…»

 
Angolo autrice:
Domenica terzo e ultimo capitolo di questa mini-long! Grazie ancora a chi ha recensito, non esitate a farmi sapere che ne pensate di questa seconda parte! :)
   
 
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