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Autore: Captain Willard    18/07/2016    1 recensioni
Gabriel Gracelyn ha quarantadue anni e si accontenta di lasciarsi passare la vita accanto: l'amore per la sua fidanzata è ormai appassito, la musica non gli dà più soddisfazioni ed è stanco delle solite facce, della solita ipocrisia, di un'esistenza apatica che lo tiene avvinto.
È quando meno se lo aspetta che le fondamenta delle sue abitudini vengono scosse nel profondo: una ragazza a una festa dove entrambi si sentono estranei, un incontro atteso e inaspettato che lo costringe ad affrontare i fallimenti di una vita piena di successi; occhi verdi come i prati d'Irlanda, a guidarlo verso qualcosa di diverso. Sbagliando e cadendo, ma sempre rialzandosi.
“E pensò che forse si era perso più di quanto voleva credere, in tutti quegli anni.”
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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- broken thoughts I cannot repair -

 

 

 

 

 

Non appena furono lontani dall'ufficio di Norman, Fabio gli mollò una sonora pacca sulla spalla. «E bravo il mio stronzetto! Ma ti rendi conto? Schegge d'inverno ha vinto il Disco d'Oro a solo tre settimane dal rilascio! Ah, stai andando alla grande Gabe. Visto quant'era felice il boss?»

«Mh.»

«Per non parlare di Sirena. Oddio, è la canzone migliore che tu abbia mai scritto! Meglio dei tuoi sette dischi tutti insieme.»

«Mh» ripeté il pianista, fermandosi al distributore automatico del caffè. Fabio incrociò le braccia e sospirò, il suo buonumore sgonfiatosi di colpo come un palloncino bucato.

«Gabe...»

L'uomo non diede segno d'aver sentito; restò in silenzio per tutta la preparazione del caffè, mani in tasca e spalle basse, ma quando la macchinetta annunciò la bevanda con un sonoro ding lui prese il bicchiere, sospirò e si girò verso l'agente. «Sì...?» domandò stancamente.

Il biondo gli passò una mano sul viso, scansandogli i capelli dalla fronte: si accigliò mentre il suo sguardo indugiava sulle occhiaie, il viso pallido, gli occhi spenti, le labbra segnate di morsi nervosi.

«Cazzo, Gabe. Sei un disastro» commentò con un ghigno amaro. «Come va la terapia di Alissa?»

L'amico distolse lo sguardo, si irrigidì sotto il suo tocco e a Fabio occorse un momento per notare, stupefatto, lo sguardo bagnarglisi di lacrime mal trattenute.

«Ehi, stai piangendo?» gli domandò l'ovvio, ma c'era così tanta preoccupazione nel suo tono che il pianista poté solo stringersi a lui, cedendo al pianto. Fabio lo condusse nella toilette e chiuse la porta, per poi dedicarsi a strappare salviette di carta con cui tamponargli il viso.

«È tutto uno schifo» mormorò Gabriel. «Natale è stato un disastro. Alissa non fa altro che insultarmi, mi accusa di tutto, dice che questo figlio l'ha perso per colpa mia! Non riesce ad accettare che non ci sia mai stato nessun bambino, mi rinfaccia tutti i momenti in cui l'ho trascurata, tutti i litigi, le discussioni, le assenze... e io non so che dirle, perché penso al fatto che avrei potuto avere un figlio e invece sono esistito solo per me stesso, sempre. Mi sento... È stato il mio egoismo a farci questo, Fabio. A rovinare me e Alissa, quello che avremmo potuto essere. E io vorrei starle vicino ma non so come si fa, capisci? Non so come fare, lei è così fragile e io ho paura di spezzarla con una parola, un gesto di troppo. Non si fida delle mie premure e non posso darle torto, neanche io mi fiderei... È solo... vorrei solo farla stare meglio, ma non sono capace!»

Fece per proseguire, ma i singhiozzi gli mozzarono il respiro; si nascose il viso tra le mani, vergognandosi di quel pianto, sentendosi debole e inutile. Fabio sospirò ma non disse niente: semplicemente si bagnò le mani con acqua fredda e le posò sulla fronte dell'amico, sulle tempie. Dopo qualche minuto, il pianto di Gabriel si fece meno violento, le lacrime cessarono.

«Meglio?» chiese l'agente con dolcezza, il moro annuì e lui sorrise. «Lo faccio sempre con Kaneda e Tetsuo. Solo così si calmano.»

«È un buon metodo» convenne l'altro, esibendo a sua volta un sorrisetto mogio. Fabio rise sommessamente e bagnò di nuovo le mani, riportandole alla sua fronte più fresche.

«E Maebh? Lei che dice?»

«Oh, lei è un tesoro, come sempre. È un mese che non la vedo, ma ogni tanto mi scrive, ci sentiamo per telefono. Mi sta vicina, è preoccupata per me e anche per Alissa... A volte mi chiedo cosa abbia fatto per meritare il suo affetto.»

«Avrei tante battute da fare su questo, ma per stavolta avrò pietà di te» ridacchiò Fabio guadagnandosi un'occhiataccia dell'amico, tuttavia tornò presto serio. «Lo so come ti senti, Gabe. Ma non lasciare che la corrente ti sbatta a riva. Quando hai il vento contro, tu prendi il mare per obliquo. È difficile e ci vuole più tempo, ma alla fine ci arrivi, al largo.»

«Da quando in qua ti intendi di navigazione?»

Fabio si fece paonazzo e arretrò di scatto. «Le mie perle di saggezza date ai porci!» brontolò, alzando le braccia al cielo come per invocare l'aiuto divino. Gabe emise un piccolo sbuffo divertito, passandosi le mani sul viso. Sospirò e si avvicinò all'amico, stringendogli una spalla con affetto.

«Grazie, shorty. Non so che farei senza te a risollevarmi. Come posso ringraziarti?»

Fabio alzò gli occhi al cielo, mollandogli una gomitata. «Smetterla di chiamarmi shorty già sarebbe apprezzato. Dai bastardo, andiamo a farci una birretta che te la sei meritata, dopo il successo del disco.»

«Sì, ho bisogno di staccare per un paio d'ore.»

«Ovviamente offri tu.»

«Cosa? Ma... già ti pago uno stipendio da favola, devo pure pagarti una cazzo di birra? Certo che sei proprio un pezzente.»

Fabio ammiccò e sporse il petto verso di lui assumendo quella che avrebbe dovuto essere una posa sensuale. Fallendo miseramente. «Preferisco la definizione: mantenuto

«Che sgualdrina. Piantala di fare il gay con me, non attacca.»

«Oh, e dai! Offrimi una birra. Non ho più contanti dietro, oggi.»

Gabriel lo scrutò sospettoso. «Aspetta... non era oggi che usciva in edicola quella collezione speciale di Topolino

Fabio si fece tutto rosso e distolse lo sguardo, avviandosi alla porta. «Ho capito, visto che sei più tirchio di Paperon de' Paperoni, dovrò pagare la mia birra in natura...»

Il pianista scoppiò a ridere, seguendolo. Il suo migliore amico poteva anche essere un vero coglione certe volte, ma era comunque un coglione coraggioso, leale e con un cuore inversamente proporzionale alla sua altezza. Finché l'avesse avuto accanto, nessuna onda l'avrebbe annegato.

 

 

***

 

 

Aveva smesso di piovere.

Alissa sedeva nel terrazzo, stretta in uno scialle. I capelli biondi erano sciolti sulle spalle, spettinati; il viso privo di trucco, le occhiaie marcate, le labbra strette. Aveva sempre amato quei momenti, quando smetteva di piovere e il sole del tardo pomeriggio bagnava la terra, riflettendo le pozzanghere e le nuvole violacee di bagliori scarlatti e arancioni. Era come carezzare la città, confortarla tiepido dopo la tempesta.

La donna si portò le mani al ventre, un gesto che si era fatto dolorosamente familiare; sospirò, cercando di ricacciare indietro le lacrime. Le sarebbe piaciuto far vedere al suo bambino quel cielo, fargli vedere la bellezza... e invece quel bambino non c'era. Non ci sarebbe stato.

 

«Ali?» la chiamò Gabriel da dentro l'appartamento, facendola sobbalzare. Non rispose, non si mosse finché lui non la trovò in balconata.

«Ehi, tesoro. Non hai freddo?» le chiese dolcemente, inginocchiandosi al suo fianco. Lei scosse appena il capo, guardandolo. L'uomo le rivolse un sorriso, le porse la mano.

«Vieni, ti porto in un posto.»

«Non mi va...» mormorò lei, stringendosi le braccia intorno al corpo come a proteggersi. Gabriel sospirò appena, le prese la mano con delicatezza e la esortò ad alzarsi.

«Non c'è bisogno che ti cambi, non importa. Dai, vieni. Fidati di me, per una volta.»

E lei avrebbe voluto scuotere la testa, dire no, lasciami stare, non voglio fidarmi di te. Ma non disse niente e si lasciò portare fuori.

Non scambiarono una parola per tutto il tragitto, ma quando parcheggiarono e lui la guidò alla Galleria degli Uffizi, Alissa puntò i piedi. «Perché mi hai portato qui?»

Gabriel le indicò una locandina a cui lei non aveva fatto caso. «Ospitano una piccola mostra di Frida Kahlo, per un paio di mesi. Pensavo... ecco, credevo ti sarebbe piaciuto andarci. Volevo farti una sorpresa.»

La bionda si fece ancora più pallida, sgranò gli occhi incredula. «Una... sorpresa?» sussurrò, come se la parola le fosse sconosciuta. Gabriel arrossì appena, grattandosi la testa imbarazzato.

«Be', sì. Insomma, mi pareva di ricordare che amassi la Kahlo, no? Forse mi sono sbagliato...»

«No!» rispose lei con uno slancio che sorprese entrambi. Si schiarì la voce e aggiustò una ciocca ribelle. «Voglio dire, no. Non ti sei sbagliato. Solo, non credevo che te lo ricordassi.»

Le uscì più acido di quanto avrebbe voluto. Gabriel sussultò come se gli avesse dato uno schiaffo, ma poi annuì, abbozzando un sorrisetto misero. «Non ti biasimo. Ma vieni, dai. Mi hanno dato un pass, non dobbiamo fare neanche la fila.»

Alissa non rispose, ma ricambiò il sorriso, seguendolo nel museo. Preferì ignorare il desiderio di raggiungere Gabriel e prenderlo per mano, fingere di non sentire come il cuore avesse preso a batterle più forte. Ancora non riusciva a fidarsi del tutto.

 

 

***

 

 

Non gliel'aveva detto. Nemmeno lei sapeva spiegarsi il perché. Aveva preso Gabriel per un braccio e l'aveva trascinato fuori del museo, fingendo d'accusare la stanchezza, un mal di testa. Era scappata come una ladra, non gliel'aveva detto di quel quadro.

Forse perché sentiva, in fondo, che lui non poteva saperlo, che non l'aveva fatto apposta. Era stata una gentilezza, l'idea della mostra. Non voleva ferirla e paradossalmente questo le faceva ancora più male, perché poi era fuggita di nuovo, stavolta sola, stavolta a Milano, con la scusa di una sfilata a cui avrebbe potuto sottrarsi, avesse chiesto un permesso in agenzia. Ma la dolcezza di Gabriel la nauseava, e lei aveva preferito cambiare aria. Rassicurandolo, fingendo di stare meglio.

 

E ora quella città dormiva, così diversa dalla belva grigia e nervosa che era alla luce del giorno, mentre Alissa non riusciva a tenere gli occhi chiusi. Non appena posava il capo sul cuscino, subito l'immagine dell'Henry Ford Hospital le tornava alla mente con la violenza d'una pugnalata allo stomaco, e allora si portava le mani al ventre e stringeva, abbracciando un grembo dove niente palpitava se non il dolore.

Ritrovarsi davanti a quel quadro era stato come cancellare il mese in cui la sua pena s'era attenuata un poco: osservare Frida stesa su quel letto d'ospedale, tra lenzuola pregne di sangue, era stato come avere il cuore lacerato; vederne le lacrime dipinte e il feto rossastro era stato come essere accusata, il dito puntato: non sei stata capace di far germogliare niente di reale. Il tuo ventre ha stretto soltanto una patetica illusione.

Non aveva trovato conforto nella pittura che tanto amava, ma solo strazio.

 

Guardò l'orologio sul comodino, le una di notte. Avrebbe voluto chiamare Gabriel, ascoltare le sue parole, i suoi incerti tentativi di consolarla quando non era capace nemmeno di consolare se stesso. Non fosse stato patetico le avrebbe fatto persino tenerezza, ma Alissa iniziava a dubitare di essere capace di buoni sentimenti.

Si alzò dal letto e si tolse la camicia da notte, andò nella toilette e aprì il rubinetto della vasca. Magari un bagno caldo l'avrebbe aiutata a dormire, magari le avrebbe cancellato quella stanchezza dalla carne e i nervi. Mentre la vasca si riempiva, prese dal frigobar una bottiglia di vino, se la portò in bagno e la posò sul pavimento; si tolse gli slip e scivolò nell'acqua tiepida ancora a metà. Aprì il vino e ne bevve un lungo sorso, non le piaceva molto ma si costrinse a berlo. Allungò una mano sul portaoggetti lì accanto, prese la propria sacca da bagno e ne trasse una scatolina: se la rigirò dubbiosa tra le mani, ma in fondo non era la prima volta che usava i sonniferi.

Voleva solo sopravvivere alla nottata, senza incubi, senza piangere.

 

Chiuse gli occhi e si portò alla bocca una pillola.

 

 

***

[https://www.youtube.com/watch?v=PaI1sLqFOuE]

 

«Gabe, che ci fai qui? È mezzanotte passata, pensavo stessi dormendo...» mugugnò Maebh, strofinandosi gli occhi. Il pianista sospirò, entrando nel bilocale; la ragazza chiuse la porta e si stravaccò accanto a lui sul divano, sbadigliando.

«Scusa se ti ho svegliato.»

«Dai, fa niente. Avrai le tue buone ragioni, immagino» lo rassicurò lei con dolcezza, arruffandogli con affetto i capelli. Gabriel le rivolse un sorriso da spezzare il cuore; lei smise di giocare e gli prese le mani tra le proprie.

«Che succede?» gli chiese, la presa ferma ma la voce velata di preoccupazione. L'uomo scosse la testa, incerto.

«È una stronzata, scusa...»

«Gabriel. Sputa il rospo.»

«È solo... ecco, Alissa è partita stamattina.»

Maebh sbiancò. «Partita?! Ma... per dove? Perché?!»

«Niente, una sfilata a Milano. Il solito.»

«E tu l'hai lasciata partire da sola?» balbettò lei, incredula. «Cazzo Gabe, è passato soltanto un mese...»

«Lo so!» sbottò lui, stringendosi la testa tra le mani. «Ma che potevo fare, me l'ha detto appena prima di andare in aeroporto! E poi sembrava così contenta di tornare al lavoro, non smetteva di sorridere. A quanto pare la mostra è stata davvero una buona idea...» sospirò e raddrizzò la schiena, guardò Maebh. «Scusa se sono piombato qui così tardi, ma avevo bisogno di vederti. E anche di camminare un po', se...» lasciò cadere il discorso, ma lei annuì.

«Ho capito. Un attimo che mi infilo qualcosa e usciamo.»

 

Dieci minuti dopo erano fuori nel freddo di gennaio, la neve a scricchiolare sotto le scarpe.

«Dove si va?» chiese allegra Maebh, saltellando. Gabriel la prese per mano, attirandola a sé.

«Non lo so. Idee?»

«Uh, ce l'ho!» esclamò lei, trascinandolo di corsa tra vicoli e viuzze; quasi caddero sul selciato ghiacciato un paio di volte, ma alla fine giunsero a destinazione con le ossa tutte intere.

«Dove siamo?» domandò lui, osservando il cancello malandato davanti a sé. Più oltre riusciva a intravedere un lungo viale nel mezzo d'un grande giardino incolto: conduceva a una villa che una volta era stata sicuramente proprietà d'aristocratici, ma ora l'intonaco era scrostato e le statue che un tempo abbellivano il cortile giacevano a terra mutilate, nell'erba alta.

Si riscosse quando Maebh si arrampicò rapida sul cancello e saltò dall'altra parte. «Muovi il culo?»

«Maebh!» sibilò Gabriel, guardandosi intorno per vedere se ci fossero testimoni alla follia della ragazza. «Che stai facendo? Se ci beccano ci arrestano!»

Lei ridacchiò, aggiustandosi il cappello. «Ma ti pare! Anche se sarebbe divertente. Già mi immagino i titoli: noto musicista arrestato con la sua amante per effrazione e atti osceni in luogo pubblico!»

«Certo, proprio quello di cui avrei bisogno ora» borbottò lui rosso di imbarazzo, scavalcando a sua volta.

«Agile come Alberto» commentò lei ghignando.

«Che c'entra Alberto ora?!» replicò stizzito il pianista, seguendola lungo il viale.

«Oh, Alberto è il criceto obeso di Loren.»

«...Loren ha chiamato il criceto come il suo fidanzato?»

«Sii clemente, l'ha comprato a tredici anni.»

«A questo punto non mi stupirebbe sapere che ha pure un altarino a lui dedicato, in cameretta...»

Maebh non rispose ma arrossì, accelerando il passo. Gabriel quasi si strozzò per le risate.

«Non dirmi che ce l'ha!»

«No, certo che no!» ribatté lei, alzando il bavero del cappotto a nascondere il viso. L'uomo ghignò sornione.

«Mh.»

«...ce l'aveva.»

«Oddio.»

«Senti, lasciamo perdere le manie adolescenziali della ragazzine, ok?» mugugnò lei, deviando dal viale in favore del giardino. Gabriel la seguì tra gli alberi, continuando a sghignazzare.

«Perché, hai qualcosa da confessare?»

«Ovviamente. Ma non ti darò tanto potere di ricatto su di me, sono informazioni top secret.»

«Scommetto che se frugassi tra le tue cose troverei come minimo un poster a grandezza naturale dei Tokio Hotel!»

«...»

«Gesù. Davvero?»

«...Erano i Cinema Bizarre» si difese Maebh. Gabriel fece per aggiungere qualcosa, ma lei si buttò di colpo a terra, facendolo trasalire. La rossa rise della sua espressione stupita e allargò braccia e gambe, muovendole a scavare la neve. «Che c'è, mai fatto un angelo della neve?»

L'uomo scosse appena la testa, sorrise. «Mai.»

Maebh saltò in piedi e lo affiancò per non rovinare la forma impressa sulla neve. «Deduco che tu non abbia mai fatto nemmeno a palle di neve.»

«Deduci bene» sospirò lui. Distratto, non si accorse che lei si era chinata a raccogliere un po' di quel biancore per appallottolarlo; cacciò un grido sorpreso quando lei gli tirò la palla addosso, dritto in faccia.

«Ahh...!» esalò mentre la neve gli si infilava giù dentro il colletto della giacca, ma la ragazza non esitò a tirargli un'altra palla che lui schivò per un pelo; corse a nascondersi dietro un albero e si pulì la faccia con una manica, ridendo sorpreso. «Vuoi la guerra? E guerra sia!»

 

La notte era ghiacciata ma loro sorridevano, le guance rosse, il respiro affannato, gli occhi brillanti di gioia. Gabriel sentiva i polmoni bruciare ma non si era mai sentito così vivo, così vero: Maebh gli aveva restituito il tempo perduto, le occasioni mancate, le parole non dette; le sue labbra avevano tracciato sentieri sul suo corpo, strade sconosciute da prendere, scelte nuove.

 

Maebh lo distolse dai suoi pensieri, lanciandoglisi addosso con un grosso mucchio di neve tra le braccia sollevate, ma lui reagì e la prese per i polsi; per lo slancio finì addosso a un albero, gemette per il dolore, la ragazza sbiancò.

«Oddio Gabe, ti sei fatto male? Fammi vedere, scusa se-»

«Lascia stare» tagliò lui, cingendole la vita con le braccia.

«Ma...»

«Va tutto bene» sorrise dolcemente, sollevando una mano a scostarle i capelli dagli occhi. «Va tutto bene.»

Maebh si sporse a baciarlo e quel contatto lo colse impreparato, sconvolto come la prima volta, le gambe tremanti, il respiro rarefatto. La strinse a sé con più forza, cercando sostegno sulle sue spalle forti, trovandosi a riscoprire il suo profumo dopo settimane di lontananza.

«Dio, quanto mi sei mancata» le ansimò sulle labbra, il respiro caldo si addensò nell'aria, annebbiò quella minima distanza tra i loro sguardi ma anche così Gabriel colse qualcosa negli occhi di Maebh, un'ombra languida nelle sue iridi verdi che conosceva, che lo spaventava e lo rendeva schiavo al contempo.

E la sirena non rispose ma gli premette le labbra alla gola, i denti contro la giugulare, e scese all'incavo della spalla strappandogli gemiti, mentre le sue mani scivolavano sotto i vestiti a graffiargli la schiena, slacciare la cintura, e la sirena cadde in ginocchio davanti a lui, e quando la sua bocca si chiuse intorno alla sua erezione Gabriel dovette afferrarsi alla ruvida corteccia dell'albero con una mano, le strinse i capelli con l'altra per non cadere, trovare la forza di sopprimere il grido che gli graffiava la gola per uscire.

Aveva sempre pensato a quello come un gesto di sottomissione, ma quando Maebh puntò gli occhi nei suoi Gabriel si ritrovò a rabbrividire e distolse per primo lo sguardo perché non ce la faceva a reggere quell'intensità, quel mare d'erba che pareva volerlo azzannare; quella lingua che pareva leccare inferno e paradiso sul suo sesso: era l'animo dell'uomo ad essere in ginocchio, ad attendere il verdetto, giungendo infine entrambe le mani sul capo della sirena, aggrappandosi alle ciocche scarlatte e alzando il viso al cielo, marinaio in preghiera.

 

 

***

 

«Grazie per la bella serata» le disse con un sorriso, posandole sulle labbra un dolce bacio.

«Grazie a te» rispose Maebh, accoccolandosi contro il suo petto. «Che dici, stavolta riusciremo a rivederci prima della fine del mese?»

«Non lo so, tutto dipende dalla terapia di Alissa ma penso-» lo squillo del cellulare li fece sobbalzare entrambi e Gabriel si interruppe, prendendolo di tasca. «Numero sconosciuto... Bah, vediamo.»

Maebh si sorprese nel sentirlo irrigidirsi, rispondere a monosillabi; alzò lo sguardo sul suo viso, si era fatto di colpo esangue.

«V-va bene, capisco. Prendo il primo volo» mormorò lui, chiudendo la chiamata. Guardò sconvolto la ragazza, arretrò di scatto come scottato.

«Gabe, che-»

«C'è stato... un incidente. Devo andare, devo andare subito

«Ma cosa è successo?» insistette Maebh, correndogli dietro fino alla macchina. Gabriel indugiò per un momento a baciarle la fronte, salì in auto.

«Alissa» rispose, girando la chiave.

La ragazza non fece in tempo ad aggiungere altro e lo guardò allontanarsi, il rombo del motore appassire come un pianto nella notte.

 

 

 

 

***

 

Zan zan zan zaaaaaaan!

 

Scusate, ho sempre desiderato farlo.

Allora, prima di tutto le mie scuse per avervi fatto aspettare così a lungo, ma questo capitolo proprio non voleva saperne di farsi concludere. Alla fine ce l'ho fatta però.

Per quanto riguarda la canzone che ho inserito nel testo, è un pezzo di Beck inserito nella soundtrack del mio film preferito, Eternal sunshine of the spotless mind (orribilmente tradotto in italiano come Se mi lasci ti cancello). Tre ottime ragioni per vedere questo film:

  1. ha una soundtrack perfetta

  2. i protagonisti sono Jim Carrey e Kate Winslet

  3. la storia è semplicemente bellissima, profonda e poetica, oltre che molto molto dolce
     

Comunque vi avviso che ormai non manca molto al finale di questa storia, penso un paio di capitoli. Quindi preparate i pomodori marci e i cavoli putridi, soprattutto per l'epilogo – vi assicuro, mi odierete!

Al prossimo capitolo, che vi giuro arriverà prima!

 

Captain Willard

 

P.S. Io sono un fierissimo fan dei Tokio Hotel e pure dei Cinema Bizarre che sono un po' i loro cugini, praticamente dei mangiacrauti con tendenze Weeaboo ù_ù

P.P.S. Quasi dimenticavo, il titolo del capitolo è tratto dalla canzone Hurt, l'originale è dei Nine Inch Nails ma la cover di Johnny Cash farebbe piangere persino gli angeli. [https://www.youtube.com/watch?v=vt1Pwfnh5pc]

P.P.P.S. Aggiunta last minute: l'Henry Ford Hospital è un dipinto di Frida Kahlo, in cui lei esprime il dolore per l'ennesimo dei tanti aborti spontanei di cui ha sofferto durante tutta la vita. Mi è sembrato terribilmente azzeccato per Alissa.

  
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