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Autore: Kimmy_90    08/08/2016    3 recensioni
Mafé vive sulla nave, ancorata in mezzo al cielo di Canos, da che ha memoria. Quel pianeta, ufficialmente, appartiene alla sua famiglia – a suo padre, il Generale Morar: ma lei non ha mai messo piede su quel mondo, né può vederlo, a causa delle nuvole del nord ovest.
Mafé legge. E legge. E legge. E ascolta. E origlia.
E scopre. E ruba informazioni. E annaspa.
Finché decide di scendere su Canos, quella che, seppur lontana, è la sua terra.
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Genere: Avventura, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 5

 

 

“Perché i Canossesi amavano così tanto la notte?” chiedeva Mafé, facendo strada fra la nebbia.
Amar, dietro, con lo spirito di un bambino ma la mente di un adulto formato, rispondeva:
“Perché di giorno c’è qualcosa che li danneggia?”
“E cosa?” chiedeva Mafé.
“La Solaris?”
Mafé annuiva, e camminava. E continuavano:
“Se la Solaris faceva male ai Canossesi, come facevano a sopravvivere durante il giorno?”
“Se ne stavano al chiuso, direi.”
“Ma non sempre, non tutti.”
“Allora qualcosa li proteggeva, oltre alle pareti delle loro case?”
Mafé sorrideva, melanconica, e procedeva.
“E dimmi, Amar – se qualcosa non lo vedi, non può farti del male?”
“Non direi.”
“E così per la Solaris. Ma la notte perde potere, e qualcos’altro ne guadagna.”
“E cosa?”
“Quel che porti in spalla. Vieni, dammi la mano. Di notte, con la nebbia, è impossibile muoversi con solo i nostri occhi. Ti guido io, ci siamo quasi.”
La Solaris si spegneva, sparendo, lasciandoli nel buio più profondo. Mafé s’appoggiò sul naso un visore notturno, tipico oggetto da militari, e Amar, dietro, seguiva i suoi passi.
Man mano che avanzavano, il ragazzo sentiva il fianco sempre più caldo.
“Cosa – …?”
“Ci siamo quasi. Si sta scaldando, vero?”
Amar annuì.
“Attento alle scale.”
Salirono, e salirono: nulla cambiava, solo buio e nebbia. La sacca, per contro, andava facendosi incandescente.
Mafé si fermò. “Passamelo.”
Amar non vedeva: porse, alla cieca, la sacca, aspettando che l’altra la prendesse. Ma anziché levargliela di mano, la aprì, ed estrasse la sfera rovente: se ne poteva intuire la posizione solo dal caldo che irradiava.
Poi.
Poi accadde. Ed era vero: non si poteva vendere, né comprare. Né donare.
Nel buio più profondo, nel nero in cui nemmeno gli occhi abituati alla stiva erano riusciti ad individuare alcuna forma o profilo o sagoma che fossero, qualcosa comparve.
Prima come un rumore, poi, lento, divenne colore.
Il Talmarian di Mafé fu il primo a illuminarsi, giallo, sempre più vivido, illuminando i loro volti d’una luce dorata.
Poi fu la sfera a prendere vita: posata, in mezzo a loro, in una conca di pietra antica e levigata dall’usura. Bianca, della luce delle stelle lontane. Così Amar si accorse d’essere in cima a una torre, e di avere, sopra il capo, la volta celeste.
E il mare?
E la nebbia?
Sempre più precisi, sempre più netti, i contorni degli oggetti intorno a lui si definivano ogni istante di più. Mafé si allontanò dalla luce della sfera, che, nel frattempo, aveva cessato di emanare calore.
“Toccala, se vuoi.”
Amar, fidandosi, poggiò adagio il palmo sull’oggetto: era freddo. Ghiaccio.
“Il fuoco gelato.” capì allora.
E, mentre intorno a lui tutto s’accendeva, vide il dorso della sua mano colorarsi di viola, di turchese, di rosso. Colori vividi, che gli illuminavano la pelle, e i vestiti, gli stivali – persino il casco aveva iniziato a rilucere di sfumature che aveva visto solo una volta, su di un altro pianeta – da piccolo: le aurore.
Levò gli occhi su Mafé: il Talmarian era come un faro nella notte, ma anche il corpo della ragazza, e la sua tuta, illuminavano colori rimescolati in un disordinato, fluido arcobaleno. E più il tempo passava, più le vene dei due si facevano nette, e potevano vedere il sangue pulsare, sino ad indovinare la precisa posizione del cuore, a cui tutti i colori affluivano e defluivano.
E la luce, allora, prese a comparire anche dalla terra, e dai muri, dalle piante – e dalle luci del sistema d’illuminazione di Raden. La città, ora visibile sin quasi all’orizzonte, nitida, pareva viva.
Ma era morta.
Nessuno nelle strade, nessuno nelle case. Non un animale. Solo le piante erano rimaste, testarde, a ricoprire le opere degli uomini di Canos e mangiarsi, lentamente ma inesorabilmente, una città fantasma.
“Ma a noi serve la nebbia. E serve la terra.”
Amar, che s’era incantato a rimirare lo spettacolo attorno a lui e addosso a lui, venne scosso da quelle parole.
Il bambino pianse, l’adulto capì.
Con gelo e terrore, l’adulto capì.
“Sono le terre di Homs a proteggere i Canossesi dalla Solaris.”
“A proteggere Noi. Dei Canossesi non rimane più nessuno.”
“Gliele abbiamo rubate.”
“Mio padre ha rubato la luce, e li ha costretti alla nebbia. La nebbia ha mangiato le loro menti, scaldato il loro mondo, li ha uccisi. Noi, che per i nostri strumenti navighiamo meglio nella nebbia, siamo scesi a prendere le terre. Abbiamo salvato vite su vite, perché il potere delle terre di Homs è immenso. Oramai se ne trovano in ogni cibo che mangiamo.”
“E così noi non ci ammaliamo.”
“Né subiamo i danni della Solaris. Di questa, e delle altre stelle.”
“Così si può stare a leggere tranquillamente sulla terrazza, con i piedi immersi nel mare di nuvole.”
Mafé tacque.
Si avvicinò al fuoco gelato, e lo sollevò dalla conca. Le luci, lentamente, presero a spegnersi ovunque.
“Non esistono più le terre dei lampi e delle piogge o le terre degli uomini, su Canos. Ci sono solo le terre del Regno. C’è solo la nebbia, il mare di nuvole, e i canti dei miei libri. Siamo gli ultimi ad aver visto la notte di Canos, Amar.”
“Se è stato condannato un popolo, non c’è motivo per condannarne un altro.”
“Torniamo indietro. Sulla Hene se ne saranno già accorti da tempo che il mare si è aperto sopra Raden.”

 

 

Epilogo

 

Morar osservava il fuoco gelato, posato sulla sua scrivania: ad Amar non aveva rivolto un’occhiata, dall’inizio del colloquio.
Nell’ufficio del Generale, la sfera fungeva da poco più che un soprammobile. Morar l’aveva sempre lasciata in piena vista, e, a ripensarci, forse Amar l’aveva già vista, da piccolo, nelle rare occasioni in cui era passato per quella stanza. Non ci aveva mai fatto caso, sembrava un oggetto come un altro.
Come, d’altronde, era: fintanto che non veniva posato nella conca in cima alla torre, quel che faceva il fuoco gelato, al più, era scaldare.
“A mia figlia ho detto una sola menzogna in tutta la sua vita.” disse il Generale.
Amar non rispose, sentendosi a disagio per una confessione tanto profonda da un uomo tanto altero.
“Le ho raccontato del Canossese del nord-est, come se lì ci fosse ancora un popolo. Quando invece quel popolo, che non a est, ma qui, a ovest, viveva – quando invece quel popolo sono stato io a distruggerlo.”
Il disagio in Amar cresceva, e l’idea della fuga gli si faceva sempre più allettante.
“Non importa se ho perso una figlia. So che non tornerà.”
Amar abbassò gli occhi sul tavolo, sperando di non intercettare quelli dell’altro.
“Conosco il vostro legame, Amar. Comunque intendiate svilupparlo in futuro, so che è possente e capace di resistere al peggiore dei naufragi.”
Gli occhi di Morar.
Gli occhi di Mafé.
“Se mai vorrai raggiungerla, ovunque si trovi, vieni da me. Posso mandarti dove preferisci. Le mie raccomandazioni valgono molto.”
Gli occhi di Mafé.
Gli occhi di Morar.
“Puoi andare.”
“Prego..?”
“Spero non ti aspetti che io abbia da sprecare il tuo lavoro con qualche sciocca punizione per aver preso in prestito un soprammobile, Amar. Arrivederci.”
Arrivederci.

 

   
 
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