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Autore: _LilianRiddle_    19/09/2016    1 recensioni
Erica annuì, spostando lo sguardo sul campo di girasoli tutto intorno a loro.
Anche Vita si lasciò distrarre da fiori che raccontavano molto più di lei, di una bellezza che non le sarebbe mai appartenuta, che apparteneva solo alle cose fragili.
- Sono così belli – disse, una mano a sorreggerle il mento, proprio dove prima altre mani le scaldavano il viso.
- Quali ti piacciono di più?
- Quelli che si nascondono sotto i fiori gialli come il sole. Quelli che sembrano una goccia di sangue in un mare di luce.
- I papaveri?
- Si chiamano così?
- Sì. Ti sono sempre piaciuti.
- Davvero?
- Sì, a me piacciono i girasoli.
- Quali sono i girasoli?
- Quelli lì gialli. Quelli che si lanciano nel mare e sembra che lo abbraccino.
- Son più belli i papaveri.
- Questo discorso lo avremo affrontato mille volte.
- Non me ne ricordo neanche una.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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-Capitolo 2.2-




La guardava, mentre si lasciava riscaldare dal calore della tazza di the tra le sue mani.
La guardava muovere le labbra, rosse di un rossetto del colore dei papaveri.
La guardava, incantandosi sulle volute di fumo che come impalpabili mani disegnavano immagini sempre nuove.
- Vita.
Bastava quel nome – il suo nome – a trascinarla fuori dai mondi bellissimi che la sua mente inventava sempre nuovi per lei.
- Sì, scusa, dicevi?
- Che cosa ti ha distratta?
- Il fumo che esce dalla mia tazza di the.
Erica annuì, spostando lo sguardo sul campo di girasoli tutto intorno a loro.
Anche Vita si lasciò distrarre da fiori che raccontavano molto più di lei, di una bellezza che non le sarebbe mai appartenuta, che apparteneva solo alle cose fragili.
- Sono così belli – disse, una mano a sorreggerle il mento, proprio dove prima altre mani le scaldavano il viso.
- Quali ti piacciono di più?
- Quelli che si nascondono sotto i fiori gialli come il sole. Quelli che sembrano una goccia di sangue in un mare di luce.
- I papaveri?
- Si chiamano così?
- Sì. Ti sono sempre piaciuti.
- Davvero?
- Sì, a me piacciono i girasoli.
- Quali sono i girasoli?
- Quelli lì gialli. Quelli che si lanciano nel mare e sembra che lo abbraccino.
- Son più belli i papaveri.
- Questo discorso lo avremo affrontato mille volte.
- Non me ne ricordo neanche una.
Il sussurro fu quasi impercettibile, nascosto dal fragore dolcissimo del mare in tempesta.
Ma Erica aveva imparato a distinguere le parole anche tra i silenzi più caldi e le urla più gelide di Vita.
- Qual è l’ultima cosa che ti ricordi, Vita?
- Il mio nome.
- E basta?
- Sì.
Il silenzio abbracciò entrambe le ragazze, mentre un sospiro di Vita ne spezzava l’abbraccio.
- Erica, che cosa mi è successo?
- Non lo so. Non di preciso, almeno. Conosco solo una parte della storia.
- E l’altra parte chi la conosce?
- Tu.

L’alba donava al mare una luce specialissima, vestendolo di mille sfumature di rosa.
Vita si lasciava calmare e agitare dalle onde bianche, che le sfioravano i piedi scalzi con lievi carezze.
Una brezza leggera le agitava il vestito etereo e i capelli sciolti, mentre con gli occhi chiusi cercava di ricordare chi era stata.
Mille e mille voci le danzavano nella testa, ma nessuna di quelle le era familiare.
- Vita.
Il modo in cui Erica la chiamava e l’eco che la sua voce creava nella sua mente era l’unico suono familiare che sentiva addosso.
- Erica, come ci siamo conosciute?
Le labbra della ragazza si aprirono nel suo sorriso di girasoli che illuminava d’innumerevoli luci i suoi occhi come il mare.
- È una bella storia, questa.
- Sì?
- Oh, sì. Avevi questo modo di camminare, come se stessi sempre scappando da qualcosa, o da qualcuno, e non guardavi mai negli occhi nessuno, tu che hai occhi così belli. E non parlavi mai, ti vedevo osservare la vita senza dire nulla, senza una sola parola. Eri avvolta da una bellezza così strana e particolare, così diversa… avevi un’aura di nulla e mistero attorno a te che affascinava chiunque ti avesse vicina. Ma tu eri gelida come una mattina di gennaio, non davi confidenza a nessuno, non sorridevi mai.
- Non sorridevo mai?
- Prima di conoscerti non avevo mai visto un tuo sorriso, non avevo mai sentito la tua risata. Era come se tu non ci fossi. Tutti ti volevano scoprire, ma era come se non ci fosse nulla da scoprire. Eri un mistero troppo grande per noi poveri e semplici esseri umani.
Però mi piacevi. Mi piaceva il modo in cui ti muovevi nel mondo, senza una parola, senza disturbare. Io ero il contrario, tu rappresentavi tutto quello che non ero e che non sarei mai stata.
Per molto tempo non mi hai permesso di avvicinarti, finché non ho scoperto la tua debolezza.
- Ho debolezze?
- Come tutti. La tua debolezza, in particolare, è una delle debolezze più affascinanti: la curiosità. Basta renderti curiosa di qualcosa o qualcuno e tu ci andrai dietro finché non avrai soddisfatto la tua curiosità. – Erica sorrise. – Vedi? Ti ho incuriosita ancora una volta e ancora una volta il tuo sguardo si è illuminato di una luce specialissima.
- Che hai fatto, quindi, per incuriosirmi?
La risata di Erica risuonò cristallina intorno a lei.
- Eri seduta in mezzo al giardino della nostra università e scrivevi, scrivevi forsennatamente su una moleskine nera, così mal ridotta che non sono mai riuscita a capire come facessero i fogli a restare attaccati tutti insieme. Mi piaceva il modo in cui non ti accorgevi di niente, intorno a te. Non ti accorgevi delle foglie degli alberi che ti cadevano intorno come una pioggia dorata, non ti accorgevi degli sguardi della gente sulla tua pelle chiara, non ti accorgevi di nulla.
Io avevo la mia chitarra sulla spalla e ho pensato che se avessi cominciato a suonare, forse… ho pensato che, se avessi cominciato a suonare, forse tu ti saresti accorta di me. Erano settimane che cercavo un modo per avvicinarmi a te, una scusa qualsiasi… così, mi sono seduta su una panchina lì vicino e ho iniziato a suonare. Ho suonato per quelle che mi sono sembrate ore e mentre le mie dita
scivolavano sulla tastiera della chitarra, i miei occhi ti scrutavano cercando di non farsi scorgere da te, che piano piano avevi smesso di scrivere, affascinata forse dalla mia musica.
Ti voltasti verso di me completamente, dimentica della penna e della moleskine e rapita completamente dalle mie mani. Io guardavo il tuo viso e tu guardavi le mie mani e in quel momento mi venne spontaneo sorridere e scuotere la testa.
- E continuasti a suonare?
- Oh, no. – Erica scoppiò in una piccola risata. – Certo che no, ormai avevo la tua totale attenzione e curiosità. Smisi di suonare a metà del brano che avevo cominciato e la smorfia di disappunto dipinta sul tuo viso me la ricordo ancora, tanto mi fece ridere.
- Non si smette di suonare a metà di un brano!
- E tu come fai a saperlo?
- Lo so e basta.
- Questa non è una risposta.
Vita alzò gli occhi al cielo.
- E poi cosa successe?

 

***


- Perché ti sei fermata? – il disappunto nel suo tono di voce ti fece scoppiare a ridere, complice l’euforia nel sentire la sua voce rivolgerti a te.
- Perché ridi? – l’avevi notata già da un po’, quella sua curiosità un po’ infantile per tutto ciò che la circondava.
- Perché hai l’espressione di una bambina a cui è stata tolta la bambola preferita. – le rispondesti senza pensarci, un sorriso sghembo ad incurvarti le labbra.
Lei non rispose e non si avvicinò, ma il sorriso che tentò di nasconderti fu sufficiente per farti capire che ormai, eri riuscita a conquistarti la sua attenzione. Almeno per il momento.
- Allora, che ci fai tutta sola a scrivere nel bel mezzo di un parco?
- Probabilmente la stessa cosa che ci fai tu.
- Cerchi anche tu di conquistare l’attenzione di una ragazza distratta?
Il rossore che si diffuse sulla sua pelle fu un regalo impagabile per il tuo ego.
- No, non esattamente. E come sta andando la tua conquista?
- Dipende tutto dalla ragazza distratta.
- Cosa vorresti da lei? Potrei trovare il modo di farvi incontrare.
- Oh, vorrei tante cose da lei.
- Tipo?
- Conoscerla.
- È un progetto a lungo termine, questo.
- Sono una persona paziente.
- Riferirò la tua richiesta alla ragazza distratta e ti farò sapere che ne pensa.
Si alzò all’improvviso, afferrando le sue cose e tu iniziasti ad intuire che non solo la curiosità era un suo aspetto particolare, ma anche l’imprevedibilità.
- Posso almeno sapere come ti chiami?
L’unica risposta che ricevesti fu l’eco di un suo sorriso.

Ti accorgesti di lei non appena entrò nella stanza, con il suo vestito a fiori ed un sorriso distratto ad abbellirle le labbra.
Non ti rendesti conto che si era avvicinata a te e al tuo gruppo di amiche finché non te la vidi davanti agli occhi, lo sguardo che per un momento sfiorò il tuo, prima di puntarsi sulle tue mani da musicista.
- Ho voglia di mangiare giapponese. – ti disse, portandosi una ciocca di capelli scuri dietro l’orecchio.
- La ragazza distratta mi sta invitando ad uscire?
Alzò le spalle, mostrando indifferenza.
- La ragazza distratta potrebbe volerti rivelare qual è il suo nome.
- Non devo perdere quest’occasione, allora.
- Direi di no.
Ti alzasti, quindi, lasciando le tue amiche a guardarti stralunate, mentre le salutavi con la mano e seguivi la ragazza fuori dalla stanza.
I suoi capelli corti le sfioravano il collo in una carezza nera, languida e brillante come una notte senza Luna, e tu avresti voluto appoggiarci la mano per sentire se fossero davvero così morbidi come sembravano.
Ti rendesti conto che si era fermata solo quando le andasti a sbattere contro. Alzasti lo sguardo e notasti che eravate arrivate davanti ad un ristorante giapponese minuscolo, nel centro di una piazzetta che non ricordavi di avere mai visto prima.
Eri così presa da lei che non avevi idea di come foste arrivate fino a lì, né di dove vi trovaste.
Il cameriere vi fece sedere ad un tavolino un po’ staccato da tutti gli altri, un posacenere e una rosa in mezzo ad esso.
- Non mi piacciono le rose. – dicesti, storcendo le labbra.
- Neanche a me piacciono. – ti rispose, sfiorando piano i petali del fiore.
- E che fiori ti piacciono?
- I papaveri.
Le tue sopracciglia scattarono verso l’alto, mentre la guardavi recuperare il pacchetto di sigarette dal fondo della borsa.
- I papaveri?
- Quelli rossi come il sangue.
Il suo modo di fumare ti mandò in corto circuito il cervello, assolutamente affascinata da come si portava le sigarette alle labbra rosse e aspirava lentamente, senza fretta alcuna.
- A te che fiori piacciono? – ti chiese.
- I girasoli.
Storse il naso a quell’affermazione, aprendo il menù prima che tu potessi dire qualsiasi cosa.
Apristi il menù anche te, cercando di non sorridere come una bambina.
Da quanto tempo non ti sentivi così eccitata, così viva?
- Allora, ti va di dirmi come ti chiami?
- Sì, mi andrebbe molto.
Alzasti un sopracciglio, attendendo la sua risposta, che non arrivò.
Decidesti, quindi, di prendere l’iniziativa.
- Mi chiamo Erica.
Il sorriso che le comparve sul viso ti fece capire che non aspettava altro che quello, per parlare.
- Mi chiamo Vita.
Ti sentisti fregata.
Le sorridesti.

 

***


- Eravamo amiche?
- Non siamo mai state amiche, Vita.
- E allora cos’eravamo?
Erica rise, chiudendo per un attimo gli occhi chiari.
- Perché ridi? – chiese Vita, le sopracciglia aggrottate.
- Perché te lo chiesi per mesi e per mesi tu non mi hai risposto.
- Prima o dopo avrò sicuramente ceduto. Non sembri una che si accontenta di una risposta vagamente accennata.
- No, infatti, non sono una che si accontenta.
- E quindi? Che cosa ti dissi?
- Che mi amavi.
Vita distolse lo sguardo, tornando a guardare il mare calmo.
Cercava, nella sua testa, un segno di quello che la ragazza accanto a lei le stava raccontando, invano.
Nella sua testa c’era solo l’eco lontana del suo nome.

 

***


Eri andata a sbattere contro qualcuno, che ti aveva immediatamente stretta a sé.
Il tuo corpo si era irrigidito subito, mentre la tua pelle si colorava del colore di papaveri vivissimi.
- Scusami, scusami… non ti ho visto proprio, io… - tentasti di spiegare, mentre gesticolavi con le mani ora libere dalla costrizione di braccia sconosciute.
- Dovresti imparare a camminare in questo mondo, Vita.
Alzasti lo sguardo, finalmente, sulla persona che ti stava davanti, e notasti che le mani che ti avevano colorato di rosso le guance erano quelle di Erica.
Osservasti con curiosità come intorno a lei ci fosse sempre gente.
Come lei non fosse mai sola.
Ti chiedesti che cosa si dovesse provare ad avere sempre qualcuno intorno, ad avere sempre voci a riempirti la testa di calore.
- Dove stavi andando, così di fretta? – ti chiese, non ricevendo alcuna risposta da parte tua.
- Non sono di fretta.
- Sembra sempre che tu stia scappando da qualcuno.
Alzasti le spalle, non sapendo cosa risponderle.
Ti stringesti i libri al petto ancora più forte, cercando di calmare il battito furioso del tuo cuore.
Sentivi gli occhi di tutte le sue amiche addosso.
Sentivi voci, dentro la tua testa, cattive, fredde, terribili, di verità e menzogna, logorarti come acido.
Erica dovette notare il vuoto che improvvisamente ti aveva tolto le parole dagli occhi e la luce dal sorriso, perché guardò le sue amiche e ti prese per mano, allontanandoti dalle tue paure.
- Non mordono, sai? Sono persone normali, come me e te.
- Lo so.
- E allora? Di che hai paura?
Distogliesti lo sguardo, abbassandolo sulle mani che ti stavi torturando.
- Non mi piace essere guardata.
- È normale essere guardate, Vita. Soprattutto se sei una delle ragazze più belle ed intriganti dell’università.
Alzasti lo sguardo, un sopracciglio sollevato scetticamente.
- Non sono una delle ragazze più belle dell’università.
Alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa, un sorriso incredulo ad incresparle le labbra.
- Perché ridi, ora?
Scosse la testa, senza risponderti.
- Che corso hai? – ti chiese, invece.
- Storia della psicologia.
- Sei una di psicologia?
Alzasti le spalle, iniziando a camminare.
- Io seguo legge.
- E non hai lezione, ora?
Ti sorrise, una luce furba negli occhi.
- No, sono libera.
Scuotesti la testa, alzando lo sguardo su di lei.
- Non ho bisogno della guardia del corpo, Vita.
- Lo so. Infatti non ti sto facendo da guardia del corpo. Mi sto solo accertando che la ragazza distratta arrivi sana e salva a lezione.
Alzasti lo sguardo al cielo ancora una volta, mentre notavi con terrore e piacere come il battito aritmico del tuo cuore agitato si fosse calmato tanto da permetterti di non avere le guance in fiamme come sempre ti succedeva davanti alle cose – alle persone – che ti colpivano.
- Devo andare. – dicesti, accennando con la testa all’interno dell’aula ormai piena.
- Buona lezione, ragazza distratta. – ti disse, mentre si avvicinava a te e ti posava un bacio sulla guancia.
Credesti di morire, mentre ti coloravi ancora del colore dei papaveri, senza renderti conto del sorriso incredulo che ti illuminava le labbra.

 

***


- Ricordi qualcosa?
- A volte, alcune cose.
- Tipo cosa?
Vita sorrise vagamente, spostando dietro l’orecchio una scura ciocca di capelli.
- Ti guardavo suonare, nella luce cristallina di un pomeriggio qualunque, incantata dalla velocità con cui le tue dita lunghe pizzicavano le corde della tua chitarra sgangherata, che ne doveva aver passate tante, proprio come noi.
Ti guardavo suonare, mentre le mie dita scorrevano veloci sulla macchina da scrivere, a cui mancavano le lettere dell’amore, ché ne aveva passate tante anche lei, proprio come la tua chitarra, proprio come noi.
Ti guardavo suonare, mentre ti perdevi dietro ad una nota, dietro ad un’armonia a me sconosciuta. Perdendomi io stessa dietro ad una musica che mi faceva dimenticare solo per un attimo l’armonia
discorde che mi bloccava la testa e i pensieri, che mi bloccava le parole e mi arrossava la pelle fino a farla bruciare.
Ricordo poco altro, per lo più sensazioni.
Ricordo che una volta ti chiesi se avresti continuato a suonare anche se io fossi morta.
Non mi ricordo quello che mi hai risposto.
E ricordo che a me piaceva scrivere mentre tu suonavi, perché quando dovevo descrivere l’amore, usavo le note delle tue melodie, visto che alla mia macchina da scrivere mancano le lettere dell’amore.
Erica la guardava, lo sguardo lontano e la fronte leggermente aggrottata.
- Non ti ricordi nulla di concreto?
- Quel poco che ricordo sono cose concrete, Erica. Sono cose importanti.
- Sì, ma non sono il motivo per cui non ricordi null’altro!
Vita si alzò, voltando la testa, le mani chiuse a pugno.
- Vorrei tanto… vorrei tanto sapere che cosa mi è successo. Guardarti e sentire nel mio corpo la voglia di baciarti, ma non riuscire a muovermi perché la mia testa non sa chi sei è frustrante. Sentire che questa casa è piena di me e di te, di cose mie e tue, ma non saperle riconoscere, fa male. Sentirsi bloccati in un limbo da cui non so uscire mi sta logorando. Ma non so che altro fare se non parlare con te. Se non ascoltare quella che, per me, è solo una storia. Non la mia vita. Però tu mi fai ritornare i ricordi. Non c’era nulla prima che tu iniziassi a raccontarmi di noi. Non c’era nulla, ma adesso qualcosa c’è. Non è molto, ma è già qualcosa. Quindi ho bisogno che tu continui a raccontarmi di me. Ho bisogno che tu
mi racconti la mia storia.

  
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