III
ricordi dimenticati,
che non ci dimenticano.[1]
Nella
soffusa luce crepuscolare una figura minuta si stagliò
contro le enormi
sporgenze di basalto che si irradiavano dall'altopiano su cui sorgeva
la Rocca.
Si
trattava di un cavaliere solitario, piuttosto basso, avvolto in una
cappa
sdrucita marrone, piegato su un pony dal mantello dello stesso color
caffè.
Mentre il cavallo aveva il muso piegato verso terra, alla ricerca di
qualche
erba o cespuglio commestibile in mezzo al fango e ai ciottoli, il
cavaliere
guardava gli artigli di roccia che affioravano dalla piana polverosa e
sterile,
pronti a ghermire qualsiasi incauto viandante si fosse spinto fino ai
recessi
di Daramia, la Rocca Grigia, che dominava sulla piana di Westeron.
Il
cavaliere socchiuse gli occhi per cercare di distinguere il castello
dall'ammasso roccioso che lo circondava e lo proteggeva: per secoli
quegli
affioramenti erano stati la sua difesa, rendendolo inespugnabile.
Ma
ormai nessuno più abitava la Rocca: da quando la
guerra,bruciando la
vegetazione e facendo fuggire le creature che la abitavano, aveva reso
quella
piana, una volta verde e fertile, morta e desolata,e togliendole
qualsiasi
possibilità di rinascita.
Il
grande lago da cui affioravano gli artigli di basalto si era
prosciugato,
lasciando solo qualche lingua d'acqua limacciosa e insana, oltre che
quelle
poderose strutture di lava vulcanica solidificata: l'Artiglio di
Folbert, come
era chiamato dagli Uomini; Tankara, per i nani, la Mano di Strega.
Voci
circolavano sul quel luogo ormai abbandonato: si diceva che fosse
maledetto e
nella piana si aggirassero i fantasmi dei soldati caduti nella Guerra
delle due
Ere, mentre la Rocca fosse abitata dallo spirito di re Folbert, che
vagava per
i suoi corridoi di pietra invocando vendetta.
La
Rocca di Daramia era minacciosa, cupa e sinistra come il paesaggio
circostante:
le mura antracite, solide e spesse, erano alte almeno trentacinque
piedi, e gli
imponenti torrioni di basalto,irti di guglie e torrette, svettavano
fino al
cielo,simili a mani scheletriche protese a graffiare le nubi; una volta
esibivano con fierezza gli stendardi con l'aquila e il grifone, ma ora
erano
rimasti nudi e desolati, gli stendardi andati perduti, forse portati
via dal
vento o dal tempo.
Il
cavaliere diede un delicato colpo di talloni ai fianchi del cavallo e
lo fece
girare attorno all'Artiglio, fino a trovarsi sul suo fianco orientale;
Duncan
tirò le redini e fece fermare Biancospino proprio sotto una
di quelle dita scheletriche,
su cui si riusciva a riconoscere una torre dalla forma ottagonale: la
Torre del
Guado, distinguibile dalle altre proprio per la sua forma particolare,
dalla
cui sommità si poteva dominare l'intera piana; il nano aveva
amato essere di
presidio in quella torre, trascorrendo le giornate a fumare la pipa e a
osservare il territorio circostante.
Duncan
trovò piuttosto ironico tornare nel luogo da cui era fuggito
dieci anni prima
con un'accusa di alto tradimento che pendeva sulla sua testa.
Dopo
l'Ultima Battaglia se n’era andato, aveva cambiato nome e si
era fatto crescere
barba e capelli, tutti quelli che lo conoscevano o erano morti o, come
lui,
erano fuggiti, prendendo il largo su una nave diretta alle Isole
Mattren o a
Fossar, dall'altre parte del Mare di Smeraldo. Duncan non aveva avuto
il
coraggio di abbandonare il Continente a cui era legato in maniera quasi
viscerale, sentiva che andando con gli altri avrebbe in un certo senso
tradito
la fiducia di re Folbert,suo compagno d'infanzia e di battaglie.
Secondogenito
del Barone del Westernmark, era stato destinato fin dalla sua nascita a
rendere
più stretti e amichevoli i legami tra il Westernmark e il
vicino Regno di Vest,
già coinvolti in fiorenti ma fragili rapporti commerciali;
così all'età di dodici
anni venne mandato a Daramia, capitale del Regno, come pegno per la
fedeltà al
patto stipulato tra il Barone e l'allora re Stereon che, a sua volta,
aveva
mandato nel Westernmark il suo secondogenito, Eldor, perché
venisse educato
nell'arte della spada e del combattimento dai nani.
Duncan
aveva iniziato come semplice scudiero del re e compagno di giochi del
suo
primogenito, Folbert, più giovane di lui di un anno; erano
stati allenati e
istruiti assieme nell'arte della spada, avevano giocato di nascosto a
scacchi
durante le noiosi lezioni di storia del Reverendo Breick e avevano
fatto la
corte alle fanciulle del castello, sia che si trattasse di duchesse o
di
semplici sguattere di cucina.
A
venti anni, la morte di suo padre aveva costretto Duncan a tornare nel
Westernmark e il principe Folbert gli era stato vicino, andando con lui
e
vivendo cinque anni nel territorio dei nani, approfittandone per
affinare la
tecnica e imparare il loro modo di combattere.
Poi
anche re Stereon era morto e Folbert aveva dovuto fare ritorno a
Daramia per
presiedere ai funerali ed ereditare la corona e tutte le
responsabilità a essa
connesse. Aveva voluto accanto a sé Duncan in veste di Primo
Cavaliere e il
nano aveva prestato giuramento, diventando Cavaliere dell'Ordine
dell'Aquila
Rossa, la guardia personale del sovrano, e suo fratello di sangue; era
stato in
quell'occasione che Folbert gli aveva fatto dono di Aisinril, la sua
inseparabile spada, gemella di quella portata dal re, Avestenril: "il
fiore sbocciato alla luce dell'alba".
Insieme
avevano combattuto diverse battaglie: avevano respinto i Lamarkiani che
avevano
invaso i territori a nord, i Rubaspini del freddo ovest e i Bruti del
profondo
sud; avevano discusso assieme di questioni politiche ed economiche,
finendo,
nella maggior parte dei casi, con il litigare e l'insultarsi
pesantemente, e
spesso Folbert lo aveva raggiunto sulla Torre del Guado per fumare
assieme (un
vizio che aveva acquisito in quegli anni nel Westernmark e non era
più riuscito
ad eliminare) e chiacchierare del più e del meno, facendo
commenti sulle dame
di corte e sul lungo naso del Reverendo Breick, rievocando i tempi
spensierati
della giovinezza e rivelandosi reciprocamente le paure più
profonde e i
desideri più nascosti. Duncan aveva apprezzato
particolarmente quei momenti, in
cui il re si spogliava dei suoi abiti di sovrano
e
tornava a essere solo Folbert, il compagno di una vita.
Poi
era arrivata la Guerra delle due Ere che aveva posto fine a tutto,
colpendoli e
sconvolgendoli come un fulmine in una giornata serena: era stata uno
scontro
lungo, sanguinoso e spossante che aveva significato la morte per re
Folbert.
Nella
mente di Duncan era impresso ancora bene quel momento terribile: nugoli
di
aeronavi avevano infestato il cielo, scaricando indistintamente sui
soldati i
loro carichi di palle di cannone e bombe di gas nocivo; un puzzo
tremendo di
decomposizione e acido appestava l'aria. Duncan sentiva il loro odore
appiccicarsi alla pelle, mefitico e letale, non credeva che i nemici si
sarebbero avvalsi di quella tecnologia avanzata ancora in fase
sperimentale.
«Questa
è l'apocalisse!» aveva urlato uno dei suoi
compagni, un veterano nerboruto dal
viso deturpato da molte cicatrici, ricordi di tutte le battaglie che
aveva
combattuto, Duncan non aveva potuto che dargli ragione.
In
mezzo a quell'inferno aveva scorto la caduta di Folbert da cavallo,
l'uomo
ammantato di nero che lo raggiungeva, lo scintillio del pugnale e il
breve
combattimento tra i due che aveva fatto cadere il cappuccio del rivale,
rivelando
un volto noto; lo stupore lo aveva paralizzato, togliendogli il
respiro:di
fronte ai suoi occhi svettava il volto di Eldor, distorto in una
smorfia
crudele, con gli occhi iniettati di sangue e rabbia, mai si sarebbe
dimenticato
la ferocia con cui aveva piantato il pugnale nel collo del fratello,
appena
sotto l'allacciatura dell'elmo, nello spazio di gola scoperto tra il
morione e
la corazza, e lo spruzzo di sangue che aveva decretato la morte del
sovrano e
la fine della battaglia.
La
voce di Folbert, colma di stupore e disperazione, riecheggiò
nella sua mente:
aveva pronunciato due sole parole, «Perché,
Eldor?», prima di spirare.
A
quel punto Eldor si era voltato e aveva visto il nano, aveva capito che
lui
sapeva, che era a conoscenza del tradimento e si era precipitato verso
di lui.
C'era stato uno scontro breve ma violento, in cui Eldor era
intenzionato ad
assassinare il nano e il Cavaliere cercava di non ferire o uccidere
l'erede al
trono, ma nonostante i suoi sforzi, gli aveva aperto uno squarcio nella
parte
sinistra del volto, che partendo dalla fronte gli sfiorava l'occhio per
poi
scomparire oltre la mandibola; dal canto suo, Eldor, gli aveva
graffiato il
mento, lasciandogli una cicatrice che lo attraversava orizzontalmente,
rendendolo riconoscibile: per questo si era lasciato crescere la barba.
Duncan
aveva, infine, steso Eldor con un colpo di pomolo e aveva lasciato quel
teatro
degli orrori il più in fretta possibile. Ma mentre arrancava
tra polvere e
cadaveri, un rombo fin troppo vicino l'aveva scosso fin nelle ossa e si
era
trovato davanti uno di quei bestioni volanti con le cannoniere
spalancate, come
le fauci di una belva affamata.
C'era
stato un forte sparo che lo aveva lasciato rintronato, puzza di fumo e
carne
bruciata, e poi un dolore lancinante e terribile, esploso nella gamba e
irradiatosi per tutto il corpo, che aveva offuscato la sua vista,
rendendo
tutto improvvisamente rosso sangue e poi nero.
Si
era risvegliato tra cenere e polvere; era frastornato, confuso e preda
di un
dolore insopportabile, l'unica cosa che gli provasse che era ancora
vivo.
Doveva essere svenuto e uno scossone violento doveva averlo ridestato
dal suo
limbo di dolore: sentiva di venire trasportato, su una barella
probabilmente. I
due che la portavano correvano, facendolo ballonzolare e sobbalzare.
Duncan non
riusciva a vedere chi fossero, davanti a lui si spalancava solamente il
cielo,
di un intenso color vermiglio, sporcato di nubi sulfuree; nessuna
figura
slanciata di aeronave lo attraversava più. Un sole
scarlatto, incendiava la
linea dell'orizzonte: poteva essere tanto un'alba quando un tramonto,
il nano
non sapeva dire per quanto tempo fosse rimasto svenuto.
Aveva
gettato un'occhiata verso le sue gambe, da cui proveniva quel dolore
indicibile, e aveva represso un conato di vomito: ciò che
rimaneva della sua
destra era un labirinto di bende affogate nel sangue. Era svenuto di
nuovo.
Un
viso dolce, dai tratti fini e affilati, e il languore malinconico di un
paio di
occhi indaco erano state le prime cose che aveva visto quando si era
risvegliato la seconda volta. Una visione idilliaca dopo l'orrore della
battaglia e la palla di cannone che gli aveva tranciato la gamba fino a
metà
coscia; la donna gli aveva sorriso e si era presentata come Althea. Era
stata
lei a curarlo e a portarlo dall'ingegnere che gli aveva fabbricato la
gamba
bionica. Ed era stata sempre l'elfa dagli occhi indaco a fargli vivere
gli anni
più belli e sereni della sua vita, nonostante fosse a
conoscenza del fatto che
fosse un ricercato e pendesse una taglia sulla sua testa, aveva deciso
di
condividere con lui il suo destino di fuggiasco.
Per
qualche tempo si erano rifugiati nel Westernmark, presso il fratello;
ma per
evitare che quest'ultimo finisse nei guai e che i rapporti con il regno
si
logorassero ancora di più, aveva abbandonato la casa paterna
ed era fuggito nel
vicino Regno di Winterburn, assieme alla sua amata Althea, incinta di
tre mesi.
Ben presto i soldi che gli aveva fornito il fratello erano terminati e
Duncan
si era trovato costretto a chiedere un prestito a Loyd che gli aveva
permesso
di vivere degnamente e in tranquillità.
Fintanto
che, in una notte di mezza estate, tre anni dopo, il passato non aveva
bussato
alla porta, con la faccia lunga e mortalmente pallida di Loyd,
pretendendo il
saldo dei suoi debiti.
Duncan
si abbandonò a un lungo sospiro: era arrivato il momento
della resa dei conti,
non solo con Loyd ma anche, e forse soprattutto, con il suo passato,
perché era
più che certo che re Eldor avrebbe assistito allo
spettacolo, e non avrebbe
patteggiato per lui.