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Autore: Ayr    27/09/2016    5 recensioni
Duncan, Cavaliere dell'Aquila Rossa caduto in disgrazia, cerca un riscatto per la figlia Selene, tenuta prigioniera da Loyd lo Sciacallo, viscido usuraio con cui si è indebitato e l'unica occasione che gli si presenta è il Torneo delle Due Ere: uno spettacolo abominevole, sanguinoso e letale ma che permetterà a Duncan di estinguere il debito e salvare la figlia.
Per Duncan il torneo non si rivelerà solo uno scontro in cui occorre rimanere vivi, ma anche un tuffo in un passato doloroso che preferirebbe dimenticare, impregnato di sangue e segreti.
[Terza classificata nel concorso "A song of Fantasy and Science" indetto da Toms98J e MirtillyKilljoys sul forum di EFP]
Genere: Drammatico, Fantasy, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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III

Bittersweet memories

Soffriamo di ricordi,
ricordi dimenticati,
che non ci dimenticano.
[1]

 

Nella soffusa luce crepuscolare una figura minuta si stagliò contro le enormi sporgenze di basalto che si irradiavano dall'altopiano su cui sorgeva la Rocca.
Si trattava di un cavaliere solitario, piuttosto basso, avvolto in una cappa sdrucita marrone, piegato su un pony dal mantello dello stesso color caffè. Mentre il cavallo aveva il muso piegato verso terra, alla ricerca di qualche erba o cespuglio commestibile in mezzo al fango e ai ciottoli, il cavaliere guardava gli artigli di roccia che affioravano dalla piana polverosa e sterile, pronti a ghermire qualsiasi incauto viandante si fosse spinto fino ai recessi di Daramia, la Rocca Grigia, che dominava sulla piana di Westeron.
Il cavaliere socchiuse gli occhi per cercare di distinguere il castello dall'ammasso roccioso che lo circondava e lo proteggeva: per secoli quegli affioramenti erano stati la sua difesa, rendendolo inespugnabile.
Ma ormai nessuno più abitava la Rocca: da quando la guerra,bruciando la vegetazione e facendo fuggire le creature che la abitavano, aveva reso quella piana, una volta verde e fertile, morta e desolata,e togliendole qualsiasi possibilità di rinascita.
Il grande lago da cui affioravano gli artigli di basalto si era prosciugato, lasciando solo qualche lingua d'acqua limacciosa e insana, oltre che quelle poderose strutture di lava vulcanica solidificata: l'Artiglio di Folbert, come era chiamato dagli Uomini; Tankara, per i nani, la Mano di Strega.
Voci circolavano sul quel luogo ormai abbandonato: si diceva che fosse maledetto e nella piana si aggirassero i fantasmi dei soldati caduti nella Guerra delle due Ere, mentre la Rocca fosse abitata dallo spirito di re Folbert, che vagava per i suoi corridoi di pietra invocando vendetta.
La Rocca di Daramia era minacciosa, cupa e sinistra come il paesaggio circostante: le mura antracite, solide e spesse, erano alte almeno trentacinque piedi, e gli imponenti torrioni di basalto,irti di guglie e torrette, svettavano fino al cielo,simili a mani scheletriche protese a graffiare le nubi; una volta esibivano con fierezza gli stendardi con l'aquila e il grifone, ma ora erano rimasti nudi e desolati, gli stendardi andati perduti, forse portati via dal vento o dal tempo.
Il cavaliere diede un delicato colpo di talloni ai fianchi del cavallo e lo fece girare attorno all'Artiglio, fino a trovarsi sul suo fianco orientale; Duncan tirò le redini e fece fermare Biancospino proprio sotto una di quelle dita scheletriche, su cui si riusciva a riconoscere una torre dalla forma ottagonale: la Torre del Guado, distinguibile dalle altre proprio per la sua forma particolare, dalla cui sommità si poteva dominare l'intera piana; il nano aveva amato essere di presidio in quella torre, trascorrendo le giornate a fumare la pipa e a osservare il territorio circostante.
Duncan trovò piuttosto ironico tornare nel luogo da cui era fuggito dieci anni prima con un'accusa di alto tradimento che pendeva sulla sua testa.
Dopo l'Ultima Battaglia se n’era andato, aveva cambiato nome e si era fatto crescere barba e capelli, tutti quelli che lo conoscevano o erano morti o, come lui, erano fuggiti, prendendo il largo su una nave diretta alle Isole Mattren o a Fossar, dall'altre parte del Mare di Smeraldo. Duncan non aveva avuto il coraggio di abbandonare il Continente a cui era legato in maniera quasi viscerale, sentiva che andando con gli altri avrebbe in un certo senso tradito la fiducia di re Folbert,suo compagno d'infanzia e di battaglie.
Secondogenito del Barone del Westernmark, era stato destinato fin dalla sua nascita a rendere più stretti e amichevoli i legami tra il Westernmark e il vicino Regno di Vest, già coinvolti in fiorenti ma fragili rapporti commerciali; così all'età di dodici anni venne mandato a Daramia, capitale del Regno, come pegno per la fedeltà al patto stipulato tra il Barone e l'allora re Stereon che, a sua volta, aveva mandato nel Westernmark il suo secondogenito, Eldor, perché venisse educato nell'arte della spada e del combattimento dai nani.
Duncan aveva iniziato come semplice scudiero del re e compagno di giochi del suo primogenito, Folbert, più giovane di lui di un anno; erano stati allenati e istruiti assieme nell'arte della spada, avevano giocato di nascosto a scacchi durante le noiosi lezioni di storia del Reverendo Breick e avevano fatto la corte alle fanciulle del castello, sia che si trattasse di duchesse o di semplici sguattere di cucina.
A venti anni, la morte di suo padre aveva costretto Duncan a tornare nel Westernmark e il principe Folbert gli era stato vicino, andando con lui e vivendo cinque anni nel territorio dei nani, approfittandone per affinare la tecnica e imparare il loro modo di combattere.
Poi anche re Stereon era morto e Folbert aveva dovuto fare ritorno a Daramia per presiedere ai funerali ed ereditare la corona e tutte le responsabilità a essa connesse. Aveva voluto accanto a sé Duncan in veste di Primo Cavaliere e il nano aveva prestato giuramento, diventando Cavaliere dell'Ordine dell'Aquila Rossa, la guardia personale del sovrano, e suo fratello di sangue; era stato in quell'occasione che Folbert gli aveva fatto dono di Aisinril, la sua inseparabile spada, gemella di quella portata dal re, Avestenril: "il fiore sbocciato alla luce dell'alba".
Insieme avevano combattuto diverse battaglie: avevano respinto i Lamarkiani che avevano invaso i territori a nord, i Rubaspini del freddo ovest e i Bruti del profondo sud; avevano discusso assieme di questioni politiche ed economiche, finendo, nella maggior parte dei casi, con il litigare e l'insultarsi pesantemente, e spesso Folbert lo aveva raggiunto sulla Torre del Guado per fumare assieme (un vizio che aveva acquisito in quegli anni nel Westernmark e non era più riuscito ad eliminare) e chiacchierare del più e del meno, facendo commenti sulle dame di corte e sul lungo naso del Reverendo Breick, rievocando i tempi spensierati della giovinezza e rivelandosi reciprocamente le paure più profonde e i desideri più nascosti. Duncan aveva apprezzato particolarmente quei momenti, in cui il re si spogliava dei suoi abiti di sovrano e tornava a essere solo Folbert, il compagno di una vita.
Poi era arrivata la Guerra delle due Ere che aveva posto fine a tutto, colpendoli e sconvolgendoli come un fulmine in una giornata serena: era stata uno scontro lungo, sanguinoso e spossante che aveva significato la morte per re Folbert.
Nella mente di Duncan era impresso ancora bene quel momento terribile: nugoli di aeronavi avevano infestato il cielo, scaricando indistintamente sui soldati i loro carichi di palle di cannone e bombe di gas nocivo; un puzzo tremendo di decomposizione e acido appestava l'aria. Duncan sentiva il loro odore appiccicarsi alla pelle, mefitico e letale, non credeva che i nemici si sarebbero avvalsi di quella tecnologia avanzata ancora in fase sperimentale.
«Questa è l'apocalisse!» aveva urlato uno dei suoi compagni, un veterano nerboruto dal viso deturpato da molte cicatrici, ricordi di tutte le battaglie che aveva combattuto, Duncan non aveva potuto che dargli ragione.
In mezzo a quell'inferno aveva scorto la caduta di Folbert da cavallo, l'uomo ammantato di nero che lo raggiungeva, lo scintillio del pugnale e il breve combattimento tra i due che aveva fatto cadere il cappuccio del rivale, rivelando un volto noto; lo stupore lo aveva paralizzato, togliendogli il respiro:di fronte ai suoi occhi svettava il volto di Eldor, distorto in una smorfia crudele, con gli occhi iniettati di sangue e rabbia, mai si sarebbe dimenticato la ferocia con cui aveva piantato il pugnale nel collo del fratello, appena sotto l'allacciatura dell'elmo, nello spazio di gola scoperto tra il morione e la corazza, e lo spruzzo di sangue che aveva decretato la morte del sovrano e la fine della battaglia.
La voce di Folbert, colma di stupore e disperazione, riecheggiò nella sua mente: aveva pronunciato due sole parole, «Perché, Eldor?», prima di spirare.
A quel punto Eldor si era voltato e aveva visto il nano, aveva capito che lui sapeva, che era a conoscenza del tradimento e si era precipitato verso di lui. C'era stato uno scontro breve ma violento, in cui Eldor era intenzionato ad assassinare il nano e il Cavaliere cercava di non ferire o uccidere l'erede al trono, ma nonostante i suoi sforzi, gli aveva aperto uno squarcio nella parte sinistra del volto, che partendo dalla fronte gli sfiorava l'occhio per poi scomparire oltre la mandibola; dal canto suo, Eldor, gli aveva graffiato il mento, lasciandogli una cicatrice che lo attraversava orizzontalmente, rendendolo riconoscibile: per questo si era lasciato crescere la barba.
Duncan aveva, infine, steso Eldor con un colpo di pomolo e aveva lasciato quel teatro degli orrori il più in fretta possibile. Ma mentre arrancava tra polvere e cadaveri, un rombo fin troppo vicino l'aveva scosso fin nelle ossa e si era trovato davanti uno di quei bestioni volanti con le cannoniere spalancate, come le fauci di una belva affamata.
C'era stato un forte sparo che lo aveva lasciato rintronato, puzza di fumo e carne bruciata, e poi un dolore lancinante e terribile, esploso nella gamba e irradiatosi per tutto il corpo, che aveva offuscato la sua vista, rendendo tutto improvvisamente rosso sangue e poi nero.
Si era risvegliato tra cenere e polvere; era frastornato, confuso e preda di un dolore insopportabile, l'unica cosa che gli provasse che era ancora vivo. Doveva essere svenuto e uno scossone violento doveva averlo ridestato dal suo limbo di dolore: sentiva di venire trasportato, su una barella probabilmente. I due che la portavano correvano, facendolo ballonzolare e sobbalzare. Duncan non riusciva a vedere chi fossero, davanti a lui si spalancava solamente il cielo, di un intenso color vermiglio, sporcato di nubi sulfuree; nessuna figura slanciata di aeronave lo attraversava più. Un sole scarlatto, incendiava la linea dell'orizzonte: poteva essere tanto un'alba quando un tramonto, il nano non sapeva dire per quanto tempo fosse rimasto svenuto.
Aveva gettato un'occhiata verso le sue gambe, da cui proveniva quel dolore indicibile, e aveva represso un conato di vomito: ciò che rimaneva della sua destra era un labirinto di bende affogate nel sangue. Era svenuto di nuovo.
Un viso dolce, dai tratti fini e affilati, e il languore malinconico di un paio di occhi indaco erano state le prime cose che aveva visto quando si era risvegliato la seconda volta. Una visione idilliaca dopo l'orrore della battaglia e la palla di cannone che gli aveva tranciato la gamba fino a metà coscia; la donna gli aveva sorriso e si era presentata come Althea. Era stata lei a curarlo e a portarlo dall'ingegnere che gli aveva fabbricato la gamba bionica. Ed era stata sempre l'elfa dagli occhi indaco a fargli vivere gli anni più belli e sereni della sua vita, nonostante fosse a conoscenza del fatto che fosse un ricercato e pendesse una taglia sulla sua testa, aveva deciso di condividere con lui il suo destino di fuggiasco.
Per qualche tempo si erano rifugiati nel Westernmark, presso il fratello; ma per evitare che quest'ultimo finisse nei guai e che i rapporti con il regno si logorassero ancora di più, aveva abbandonato la casa paterna ed era fuggito nel vicino Regno di Winterburn, assieme alla sua amata Althea, incinta di tre mesi. Ben presto i soldi che gli aveva fornito il fratello erano terminati e Duncan si era trovato costretto a chiedere un prestito a Loyd che gli aveva permesso di vivere degnamente e in tranquillità.
Fintanto che, in una notte di mezza estate, tre anni dopo, il passato non aveva bussato alla porta, con la faccia lunga e mortalmente pallida di Loyd, pretendendo il saldo dei suoi debiti.
Duncan si abbandonò a un lungo sospiro: era arrivato il momento della resa dei conti, non solo con Loyd ma anche, e forse soprattutto, con il suo passato, perché era più che certo che re Eldor avrebbe assistito allo spettacolo, e non avrebbe patteggiato per lui.



[1]Ángel de Frutos Salvador


   
 
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