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Autore: nettie    07/10/2016    1 recensioni
Alzò il capo e mi guardò con quei due grandi occhioni vispi che raccontavano la Primavera.
《 Li vedi questi libri? Saranno i nostri fiori quando fuori è Inverno. 》
Genere: Drammatico, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Mantenne la sua promessa. Non toccai né acqua né cibo fino alle cinque del pomeriggio: le ore trascorrevano lente e pesavano come un macigno, mentre il buco che sentivo nello stomaco si allargava fino a sembrare una voragine. Ad un certo punto il volto di Sandra sbucò da dietro la porta semi-chiusa. Mi guardò con quei grandi occhioni scuri dalle ciglia lunghe, sbirciandosi intorno ed esitando ad entrare, come se sentisse il bisogno di chiedermi il permesso - come se sentisse di aver interrotto la celebrazione di un dolore troppo intimo per venirle rivelato. Inarcai un sopracciglio e lei mi rivolse uno dei suoi soliti sorrisi. Con la testa mi fece cenno di alzarmi e raggiungerla, ed era questo che adoravo del rapporto fra me e Sandra: lei non mi faceva sentire inferiore. Sandra aveva la delicatezza di saper comunicare con me proprio come facevo io col resto del mondo: nel silenzio più totale. Come Margherita, del resto, lei si dilettava a trascorrere con me ore interne quando venivo attaccato da qualche malanno, o quando la cupidigia della giornata si infiltrafa malefica nel mio cuore e non riuscivo a trattenere un pianto senza ragione. Capii al volo cosa voleva intendere con quell’occhiata complice, con quel gesto appena accennato del capo. Gli occhi mi si accesero come due scintille, e penso che le mie guance avessero preso immediatamente fuoco.
Mi alzai cercando di sistemarmi appena i capelli, impacciato e un po’ goffo, e mi chinai per calzare le scarpe usurate che si trovavano ai piedi del letto. Le allacciai di fretta e strinsi bene il nodo, poi mi passai una mano sulla testa in un secondo tentativo di tenere a bada quella chioma che mi ritrovavo. La seguii fuori dalla stanza con un lieve sorriso sulle labbra ed il cuore che batteva veloce nel petto. Bastarono pochissimi passi ma interminabili secondi per raggiungere la porta della stanza adiacente, e fu la mia mano tremante ad aprirla senza neanche bussare. Non feci in tempo neanche a farmi salutare da Sandra, che già ero sgattaiolato dentro come una furia, col passo felpato e il cuore che pulsava in gola. Lì, finalmente, la vidi. Era di spalle ed era seduta ai bordi del letto dalle coperte ancora sgualcite: si era forse appena alzata? Avevo forse disturbato il suo sonno? Feci come per avanzare verso di lei mentre la porta s’era già chiusa dietro di me, ma qualcos’altro destò la mia attenzione. Pensavo che la sua stanza fosse identica alle altre, pensavo che le mura bianche fossero un attributo comune a tutti gli abitanti di quel posto strano, e invece per la prima volta in vita mia osservavo pareti dipinte di un colore diverso. No, non era solo un colore. Fogli, volantini, grandissime scritte a caratteri cubitali che non riuscivo a decifrare, pezzi di giornale e scarabocchi dai colori sgargianti tappezzavano le quattro mura di quella stanza. Le serrande erano severamente tappate, e la finestra chiusa. C’era un lieve ma sgradito odoraccio di chiuso che mi entrò nei polmoni prima che potesse inebriarmi corpo e mente il profumo di Margherita. Rimasi stranito, quasi interdetto, e mi bloccai a pochi passi dalla porta chiusa. Ma poi la sentii rivolgermi la parola.

 

《 Vieni. 》

 

Sussurrò con un filo di voce, mentre si dondolava con la schiena curva. C’era un qualcosa di strano nel suo timbro - un qualcosa di roco, di sinistro. I capelli erano raccolti in una coda alta, forse in modo un po’ disordinato, e alcune ciocche sfuggivano via alla presa dell’elastico, ricadendo davanti i suoi occhi e lungo il viso.

 

Mi invitò a sedermi accanto a lei, su quel letto dal materasso piatto e dalle lenzuola sfatte. Mossi un passo, titubante, ché quasi non mi sembrava lei vista sotto quella luce. Raggiunsi rapidamente il bordo del letto come se non volessi venir visto, e mi misi a sedere proprio al suo fianco. Serrai le mani ai bordi del letto, e dondolai appena le gambe, mentre comunicavamo nel silenzio più assoluto. Per un attimo ebbi l’impressione di sentire il suo piccolo cuore battere. La guardai incuriosito, e mi sembrò diversa pur essendo sempre la stessa. Non sembrava lei, ma i suoi riccioli rossicci li riconoscevo. Non sembrava lei, ma quei due occhioni che si portavano la Primavera dentro li riconoscevo. Sentivo il mio cuore martellare con foga nel petto, ma era come se non respirassi.

La osservai meglio, e intravidi da sotto le larghe maniche del camice ancora quei fini polsi fasciati da bende macchiate di rosso. Non ci pensai neanche, fu un movimento spontaneo quello di afferrarle la mano e portarla verso di me. Le alzai piano la manica, e vidi le bende estese lungo tutto il braccio. Fu un movimento fulmineo e scattante, la mia presa era salda e lei non poteva impedirmi di non sfiorarla. Rimase così, inerme, immobile, come fosse colpevole … con la faccia da vittima. Il rosso portava la stessa tonalità del dolore che stavo sentendo dentro, ed era in forte contrasto con il bianco delle candide bende. Non capivo, non capivo chi le avesse potuto far del male: erano queste bende il motivo del suo notturno pianto?

Corrucciai il viso, e con le labbra schiuse e gli occhi sgranati le volsi uno sguardo interrogativo. Le lasciai andare il piccolo e fine braccio che cadde a peso morto sulle sue gambe. Lei ritrasse immediatamente il braccio nella veste come un animale si rifugia nel suo guscio, e serrò i bordi della manica con le dita affusolate. Mi guardò con gli occhi sbarrati e una strana luce brillava in essi. Sebbene non avessi usato le parole, lei aveva compreso ciò che avrei tanto desiderato domandarle.

 

《E’ il padrone.》

 

Disse con un filo di voce, quasi a voler sussurrare. La sua voce era fievole, sembrava un cane bastonato e poi abbandonato a sé stesso. Fissava con insistenza il muro con fare di sottomissione, poi si rivolse nuovamente a me.

 

《Non lo vedi?》

 

E mi lanciò un’occhiata quasi impaurita, mentre con una mano indicava laddove io vedevo solo un muro pieno di scritte e volantini ritagliati male. A quel suo gesto, sembrò quasi come se volesse nascondersi dietro di me, perché si fece piccola piccola arpionandosi alla mia spalla, quasi affondando le unghie nella carne fino a farmi male. Poggiò poi anche il mento sulla mia spalla, e continuava ad indicare quella parete imbrattata con gli occhi chiusi e le manine tremanti. Per la prima volta, iniziavo a chiedermi cosa non andasse in Margherita, se fosse stato sempre presente questo problema, se io me ne fossi accorto solo ora, o se avessi sognato tutt’altra ragazza solare e vivace. Un po’ l’idea faceva male.

 

《Se non faccio ciò che mi ordina, lui farà di peggio.》

 

Continuò a parlare, e quelle frasi risultavano come una lingua sconosciuta alle mie orecchie. Male? Chi? Di chi stava parlando? Non riuscivo a capire, e avrei voluto dirle che lì non c’era proprio nessuno: niente e nessuno avrebbe potuto farle del male poi, non in mia presenza. Il suo sguardo era ora vacuo e le labbra inespressive: la guardavo con occhi insistenti e sentivo il suo malessere crescerle nel petto. Avrei voluto dirle che non aveva niente da temere, ma non potevo. Sentii allora il bisogno di spiegarmi in qualche modo, con gesti, con scritte, con quel linguaggio fisico e visivo che avevamo inventato io e lei, adatto a descrivere solo il nostro piccolo mondo, ma avevo paura della sua reazione. Paura, timore verso qualcuno che fino a pochi secondi fa vedevo come perfetto: era una sensazione che mi lasciava un dolore simile ad una pallottola nello stomaco. Tremava, mentre teneva le mani serrate al mio braccio, e io non sapevo cosa fare o come agire. Si nascose dietro di me ed affondò il volto sul mio petto, stringendomi forte il busto.

 

《Ci sta guardando. Ti prego, vattene.》

 

Sibilò contro il cotone caldo del mio camice, ma io ero contrariato. Chi avrebbe dovuto farmi mai del male? Chi avrebbe dovuto farci mai del male? La costrinsi ad alzare il viso e a guardarmi, poi scossi la testa in segno di negazione: non l’avrei lasciata, non me ne sarei andato. La presi per le spalle, e le strinsi delicatamente con la paura di farle male. Lei mi guardò come forse non m’aveva mai guardato, e io sentii una scarica di brividi scivolarmi giù per la schiena. Con forza mi spinse via da lei, mi prese per le spalle e mi diede una botta abbastanza violenta che mi lasciò totalmente sbigottito. Io balzai in piedi come fossi stato colpito da una scossa, ed indietreggiai sgomento, guardandola con occhi spauriti: non potevo credere a ciò che aveva appena fatto.

Vidi i suoi occhi iniziare a gonfiarsi di lacrime, e pregai per non vederne sgorgare via da quelle pietre preziose neanche una, ma fu tutto invano. Il suo viso iniziò a rigarsi di copiosi cristalli di dolore, abbondanti e trasparenti, e il mio cuore venne trafitto da una spada immaginaria che portava il suo nome.

 

《Vai via! Via! Vattene!》

 

Alzò la voce contro di me, come se fosse terrorizzata da quel qualcosa che non esisteva. Come se avesse paura per me, come se temesse per la mia incolumità. Lì, mi immobilizzai sul posto, preso dal panico più totale, mentre i miei occhi sgranati la fissavano mentre si straziava per i suoi tormenti interiori. E quello era lo strazio peggiore di tutti.

Sentii la porta spalancarsi, e voltando la testa vidi due uomini in camice piombare nella stanza di Margherita come un uragano. Uno dei due uomini prese Margherita per un braccio, e le intimò di calmarsi quasi sibilando, ringhiandole contro con fare violento, mentre lei mi implorava di scappare. Si dimenava, si dimenava come un animale impazzito, scalciava mentre l’uomo la teneva salda fra le braccia stringendole i polsi, più le stringeva i polsi più lei gemeva e si lamentava del proprio male, e più si lamentava del proprio male più si dimenava e divincolava per sfuggire alla violenta presa dell’uomo col camice.

 

《Torna nella tua camera! Abbiamo da fare!》

 

Mi disse uno dei due, prima di afferrarmi per un polso in modo brusco e trascinarmi verso la porta di quella stanza che profumava di lei. Mi cacciarono via come se fossi un animale indesiderato, con spintoni e parole azzardate. Poco prima, ebbi l’accortezza e la furbizia di abbandonare quelle righe rinchiuse in un pezzo di carta sul tavolo di Margherita, passando totalmente inosservato. Quello che mi restava da fare, era sperare che lei la leggesse. Venni scaraventato fuori dalla camera e chiusero la porta alle loro spalle con un tonfo, mentre sentivo il cuore stringersi in una morsa fatale. Non ebbi il coraggio di obiettare, e nel mio silenzio me ne tornai scosso nella fredda stanza che m’ospitava da circa sempre. Dopo una mezz’ora circa di torture, sentii la voce di Margherita cessare di straziarsi da dentro le mie quattro mura. Mi chiesi cosa fosse successo, e di chi lei parlasse. Immagini orrende scorrevano davanti i miei occhi: di lei che urlava, che chiedeva aiuto, e quell’aiuto le veniva negato dai due violenti uomini. Non riuscivo a darmi una risposta, non riuscivo neanche a pormi domande concrete. Avevo solo iniziato ad avere timore di un qualcosa che sembrava più grande di me e lei messi insieme. Passai la serata così, seduto su quella scomoda sedia, dietro quel tedioso tavolino, a fissare il sole calare dietro il muro di pesante cemento, aldilà di quella piccola finestra che mi confinava lì dentro.

Pensai tanto, ma non arrivai a nessuna conclusione.

[ Angolo Autrice: 

Sono stata puntuale, stavolta! Come sempre, ringrazio in modo speciale chi vorrà lasciare un commento, e vi invito a lasciare un mi piace alla pagina Facebook dove potrete leggere materiale aggiuntivo e rimanere aggiornati sulla pubblicazione di nuove storie. 
   
 
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