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Autore: DaniNTI    15/10/2016    1 recensioni
"Lo spazio tra ogni punto" è il racconto interiore in prima persona di un anonimo giovane in un periodo della sua vita caratterizzato da un incontrastabile vuoto esistenziale e da un profondo sconforto.
Attraverso il racconto di momenti di vita quotidiana, che coinvolgono altri personaggi, tra cui una donna con cui egli ha una relazione di natura prevalentemente sessuale, due amici e il suo gatto, il protagonista dà voce alle sue riflessioni e ai suoi pensieri, i quali si configurano come una sorta di "flusso di coscienza" che intervalla la descrizione delle giornate.
Citazione dal testo:
"La mia quotidianità stantia è il limbo che mi spetta, e chissà chi l’ha deciso. Ho smesso di aver voglia di lottare per diventare ciò che non sono. Non porterebbe a nulla e la ragione è molto semplice: la mia coscienza è incredibilmente lucida, ma fottutamente debole. O forse sono le turbolenze con cui conviviamo ogni giorno nella nostra segreta interiorità ad essere troppo forti per chiunque provi a contrastarle".
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Brandon è un coglione, ma ci passi il tempo. L’avevo già detto forse?
Quella mattina era incredibilmente riuscito a convincermi a uscire in bici. Non l’avrei detto.  Quando mi aveva telefonato per propormi la cosa non ne avevo alcuna voglia, pensavo che sarei stato io ad averla vinta. E invece no, ha vinto il volpone.
Tirai fuori quell’affare mezzo arrugginito che mi ritrovavo nel ripostiglio e, per la prima volta dopo 9 anni, rieccomi in bici.
“Che bello andare in bici”: è una frase che si sente spesso, insieme a tante altre cazzate. Ma devo ammettere che tutto sommato è stato divertente: è un po’come scopare, dopo che passa un po’di tempo pensi di non esserne più capace, all’inizio quasi non sai dove metter mano, ma magicamente dopo pochissimo ricordi tutto e vai di nuovo alla grande. Avevamo fatto un bel giro.
Nel pomeriggio dovevo fare francese con Duke, non avevo assolutamente voglia.
Iniziavo ad avere l’impressione che il nanetto della ferramenta sotto casa mi fottesse alla grande. Non era la prima volta: arrivato a casa, avevo lasciato il resto nella scatola degli spiccioli e i conti non tornavano.
“Ci penserò un'altra volta”, dissi tra me e me.
Era da tanto che non vedevo Elaine. Ma non mi mancava, o almeno non tanto.
Avevo ritrovato, incastrata dietro alla scrivania, la vecchia pallina di Salice, una di quelle palline gialle di spugna, ormai malridotta, che perdono pezzi fino a ridursi a un inutile aggregato informe di bricioline tenute assieme chissà come. Amava giocarci, e io provavo un senso di sincera soddisfazione per lui ogni volta che lo vedevo scorrazzare per casa felice.
Mi piaceva vivere in mansarda, la considero un ambiente intimo ma accogliente: tutto ciò che è richiesto ad una casa che si rispetti.
I miei genitori avevano risparmiato tutta la vita per comprare la villa fuori città dove ancora oggi marciscono in santa pace, lontani dai miei occhi. Quella casa non sa di niente. Ma loro erano entusiasti dell’acquisto.
Ricordo benissimo la prima volta che andai a trovarli dopo il trasloco: mia madre aveva un sorriso a trentadue denti stampato in faccia, trovavo la cosa piuttosto fastidiosa. Mio padre invece era lì con il suo solito fare fiero e orgoglioso, come se l’avesse costruita lui quella casa. Mi trascinavano qua e là, mostrandomi mobili antichi e quadri da collezione, mentre io mi limitavo a impegnarmi affinché il mio disinteresse non trasparisse in modo troppo palese. Mia madre portava i tacchi quel giorno e camminava a passo svelto nella foga, facendo un gran casino e risultando un tantino impacciata.
Mia sorella l’avrebbe trovata tenera. Avrei dovuto trovarla tenera anch’io, forse. Non ci riuscivo.
Mio padre, invece, camminava tranquillo al mio seguito con le mani in tasca, e con lo sguardo che seguiva uno per uno tutti quegli oggetti che mamma mi indicava l’uno dopo l’altro con frenesia. I miei avevano deciso di mettere il bagno al primo piano e la camera da letto al pianterreno.
“Si può essere così stupidi? Per quanti anni ancora credete di essere in grado di salire quelle scale?”, pensavo tra me e me. Non volevo essere cinico, lo giuro. Avrei voluto essere contento per loro: avevano fatto i loro progetti per anni, com’è giusto che sia per delle persone di quell’età. Ma in cuor mio le consideravo persone lontane da me, da troppi punti di vista.
Non ho mai parlato con mio padre di donne. Lui non è mai stato curioso, non mi ha mai chiesto niente. Quando avevo 14 anni mia madre si era accorta che per la prima volta uscivo con una ragazza, e faceva battutine in continuazione. Mi infastidiva molto all’epoca, ma ripensandoci a distanza di anni ora la trovo quasi una cosa simpatica: in un certo senso penso che lo avrei fatto anch’io, se fossi stato io il genitore. Mio padre dal canto suo sapeva anche lui , ma voleva, o forse semplicemente riteneva più opportuno, far finta di niente.
Chissà se i miei genitori scopano ancora. Chissà se in genere le coppie di anziani scopano o no. Non so perché, ma trovo la questione molto divertente. Ne parlavo una volta con Brandon, e a dirla tutta era questo il livello delle nostre ordinarie discussioni.
Chissà se i miei genitori si amano ancora e chissà se si sono mai amati. Ho sempre percepito un’ipocrisia di fondo che mi turbava molto nella vita di routine della mia famiglia, ma non ho mai capito fino a che punto poter estendere la cosa. Magari era un problema mio.
La loro principale preoccupazione da sempre è stata darci l’impressione che andasse tutto bene, specialmente da parte di mia madre. Volevano rassicurarci in qualche modo, sempre.  Ho vissuto un’infanzia e un’adolescenza piene di pic-nic e gite in montagna: in effetti i miei si sono sempre dati un gran da fare. Ma non so, pareva quasi che lo facessero perché l’avevano trovato scritto in uno di quei farlocchi manuali del buon genitore. Non me la bevevo io.
Quando Salice si accorgeva che un pezzo della sua pallina di spugna si era staccato, ritirava la zampa deluso e smetteva di giocarci per un po’: probabilmente  non voleva che la pallina diventasse definitivamente inutilizzabile troppo presto. Un gatto diligente ha cura delle sue cose e sa gestire bene i suoi spazi. Io e Salice siamo sempre andati molto d’accordo.
Ero uscito da casa di Duke alle 19. Duke sta migliorando molto e in fretta, pensavo che questa situazione mi avrebbe messo molto più a disagio. Invece stavo scoprendo di essere un discreto insegnante.
Quel giorno, in particolare, ci fermammo una mezz’ora abbondante a discutere dell’arte in Francia. Intendo arte a trecentosessanta gradi.
“I francesi hanno la mente malata”, diceva lui. E, con quella passione che caratterizzava ogni suo discorso, osservava:  
“Loro sì che sono un popolo che ha capito il senso dell’arte: qualsiasi cosa facciano, in qualsiasi ambito, ti lascia sgomento, ti cambia la giornata”.
E aveva proprio ragione il buon Duke: il tocco francese è inimitabile.  Loro amano spingersi oltre e lo sanno fare bene, bisogna riconoscerglielo.
Io non sono un artista. Non mi sono mai sentito tale. Mi piacerebbe esserlo però, peccato che non sia nato con la testa adatta: immagino che il processo di realizzazione di un’opera d’arte, qualunque essa sia, sia qualcosa di molto complesso e intricato. Nessuno ci fa mai caso quando giudica l’arte altrui, ma ogni opera nasce da zero. Nulla totale. Quello che vedi o ascolti può non essere di tuo gradimento, siamo tutti d’accordo su questo, ma nessuno mai puntualizza un aspetto che merita attenzione: eliminando il prodotto finito, che magari ti fa così tanto schifo, rimane il nulla, il vuoto. Molte persone mi risponderebbero dicendo che il vuoto è effettivamente preferibile ad un qualcosa di malriuscito. Ma ne siamo davvero sicuri?
Io rispetto gli artisti, a prescindere dal valore che per me hanno le loro opere, li rispetto perché hanno il coraggio di riempire il vuoto. Io apprezzo il tentativo.
Rispetto l’artista e rispetto chiunque viva la sua vita sentendosi realmente tale, e in cuor mio li invidio molto. Dico davvero.  Ci vuole forza. E determinazione.
“La mia vita è vuota da troppo tempo”, riflettevo guardando Salice giocherellare con le bricioline che la palla aveva lasciato sul pavimento. Non mi ero mai curato di riempire il vuoto delle mie giornate; il senso di dispersione che provavo era da troppo tempo diventato talmente grande da rendere vana ogni possibilità concreta che avevo di metterci del mio nelle cose.
“Forse dovrei iniziare ad andare regolarmente in bicicletta”, pensavo. Non era stata così male in effetti quella mattinata; migliore delle altre, perlomeno.
Ma le mie idee, come sempre, lasciavano il tempo che trovavano: passavo gran parte delle mie giornate a rimuginare sulle cose e su me stesso, ma senza mai assumere un atteggiamento propositivo. Pensavo e basta, perché altro non volevo fare.
Era quasi mezzanotte e me ne stavo lì seduto al tavolo della cucina, impegnato a  leggere gli ingredienti del succo di pompelmo.
“C’è una gran quantità di merda qua dentro”, pensavo tra me e me. E improvvisamente mi sentivo quasi in colpa per bere quella roba. Come se me ne fosse mai fregato qualcosa della mia salute.
Salice più pimpante del solito salì sul tavolo e iniziò a strofinare la zampa sulla mia barba. Era quasi piacevole a tratti. Poi prese a odorare il succo di pompelmo ancora nel bicchiere assumendo un’espressione un po’ incuriosita, ma molto diffidente. Iniziò a leccare il bordo superiore del bicchiere. Di solito non glielo consentivo, ma decisi di fare uno strappo alla regola.
Qualcuno bussò alla porta.
   
 
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