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Autore: Ortensia_    26/10/2016    2 recensioni
[ IN SOSPESO ]
Kageyama Tobio, vent'anni appena compiuti, una retta universitaria da pagare e una madre isterica di cui prendersi cura. La sua monotona esistenza subisce uno scossone dal momento in cui incontra un ragazzino dai capelli arancioni che sostiene di essere uno shinigami.
Inizialmente rifiuta di credergli, ma essendo lui stesso un essere soprannaturale comincia a pensare che possa esserci un fondo di verità nella sua confessione.
Quel che Kageyama non sa è che gli esseri come lui sono molti altri e che anche loro riceveranno presto visite dal regno dei morti.
[ Superheroes!AU; coppie e accenni all'interno; fonti di ispirazione: Marvel!Universe; Death Note; Psycho-Pass (non è necessario essere fan della Marvel o consocere gli anime citati per seguire la fanfiction) ]
Genere: Dark, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Shouyou Hinata, Tobio Kageyama, Tooru Oikawa
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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II


Esiste un filo rosso




22   d i c e m b r e   2 0 1 6

S h i n j u k u   p r e f e t t u r a   d i   T o k y o



    Sugawara stava finendo di sistemare le tazzine da caffè nell'apposito ripiano quando udì una serie di passi pesanti all'interno del locale. Si voltò con l'ultima tazzina stretta nella mano sinistra e il panno umido sorretto dalla destra, ma quando vide il suo cliente non si preoccupò dell'ordine approssimativo del ripiano.

    «Buongiorno Sawamura-san» sorrise senza alcuno sforzo: era una reazione naturale e immediata che si manifestava tutte le volte che l'altro entrava nella caffetteria – dopotutto, pur trascorrendo soltanto un quarto d'ora al giorno nel locale, quell'uomo aveva la capacità di rallegrargli la giornata con la sola presenza. Il lavoro diventava molto più leggero quando c'era lui.

    «Buongiorno a te Sugawara-san» Sawamura ricambiò il sorriso, seppur con una breve e quasi impercettibile contrazione delle labbra, in completa antitesi con la spontaneità espressiva del barista.

    Sugawara lo vide posare un giornale arrotolato sul bancone di marmo scuro e aspettò che si sistemasse su uno degli sgabelli in pelle prima di riprendere a parlare.

    «Cosa dice?» indicò il giornale, per poi voltargli le spalle e riporre l'ultima tazzina da caffè sul ripiano in legno. «Oggi non sono riuscito neppure a guardare il telegiornale, solo il meteo. Dicono che nell'entroterra di Miyagi e in quello di Yamagata potrebbe nevicare.»

    «Sì, fa piuttosto freddo ultimamente» Sawamura rispose con un cenno del capo, poi picchiettò il dito sul bancone. «Dunque, vediamo...» mormorò, rivolgendo una rapida occhiata al giornale arrotolato di cui, a dire il vero, aveva letto solo pochi articoli «pare che ieri in tarda serata ci sia stato un terremoto in Hokkaidou.»

    «Perdonami Sawamura-san,» Sugawara lo interruppe a voce bassa «il solito, vero?»

    Sawamura annuì appena.

    «Un terremoto, eh?» il barista staccò il gruppo portafiltro dalla macchina del caffè e lo ripulì dai rimasugli dell'ultimo utilizzo. «Magnitudo?»

    «Tre. Non ha causato molti danni» l'altro rispose prontamente.

    «Meglio così» Sugawara sistemò il portafiltro sotto il dosatore, tirando la leva per riempirlo della polvere di caffè presente al suo interno. «E sui missili balistici? Ci sono novità?»

    «Pare che l'ONU prenderà provvedimenti. Sembra sia in programma un incontro fra il nostro primo ministro e il presidente americano.»

    «E con le indagini sui portatori del cromosoma Z?» Sugawara compattò la polvere di caffè con il pressino a mano, per poi agganciare il portafiltro al gruppo erogatore. «State facendo progressi?»

    «Non molti a dire il vero» Sawamura lo osservò sistemare una tazzina sotto il gruppo e premere il pulsante dell'erogazione, dunque ascoltò a braccia conserte il flebile gorgoglio del macchinario, riprendendo a parlare una trentina di secondi più tardi. «Sugawara-san, potresti darmi anche una fetta di torta?»

    «Certo» Sugawara non si voltò verso di lui, ma sorrise ugualmente. Ripose la tazzina fumante al centro di un piattino bianco e subito dopo sollevò la cloche di plastica trasparente sotto la quale, poche ore prima, aveva sistemato la crostata ai lamponi.

    «Comunque sembra che la maggior parte di loro viva proprio qui a Tokyo» aggiunse Sawamura, che tuttavia smise di parlare non appena vide l'altro sussultare. Sollevò entrambe le sopracciglia, stranito, per poi protendere leggermente il viso nel tentativo di sbirciare al di là del bancone «va tutto bene?»

    Sugawara ripose lentamente il coltello, osservando il taglio profondo appena procuratosi lungo il pollice sinistro: non era uscita una sola goccia di sangue, ma il rosso della carne viva era perfettamente visibile sulla pelle bianca.

    «Sì,» la sua risposta a voce bassa faticò ad arrivare alle orecchie di Sawamura, che però tornò alla postura iniziale non appena lo vide annuire con un vigoroso cenno del capo.

    «Ecco qui» Sugawara posò il piattino contenente la tazzina di caffè e quello con la fetta di crostata proprio sotto il naso del suo cliente più affezionato, il quale non poté fare a meno di soffermarsi prima sulle dita pallide e affusolate del barista e poi sul suo sorriso gentile.

    Adesso sarebbe calato il silenzio: succedeva sempre così quando Sawamura Daichi, vice capitano dell'Unità Speciale di Polizia di Tokyo, entrava nel suo locale per bere un caffè e mangiare qualcosa.

    Come sempre Sugawara si sarebbe appoggiato alla lavastoviglie e sarebbe rimasto a fissare in silenzio i dettagli della divisa nera indossata dall'altro, in particolare gli inserti d'oro sul colletto della camicia, che raffiguravano una Z stilizzata.

    L'Unità Speciale era stata istituita a metà degli anni Settanta, quando, due giorni dopo una grande frana, il corpo senza vita di Nakamura Akihiko, giovane impiegato presso una ditta edile, fu ritrovato sulle pendici sud orientali del Monte Fuji.

    Due testimoni oculari riferirono che era stato lo stesso Nakamura a provocare la frana e ciò incuriosì i medici dell'obitorio, che rivoltarono il cadavere come un calzino. La mattina dopo riferirono che non era stata rinvenuta alcuna anomalia, salvo poi dichiarare appena ventiquattro ore più tardi che l'esame del cariotipo li aveva condotti a un risultato a dir poco straordinario. Il dieci agosto 1975 divenne, quindi, la data di scoperta del cromosoma Z, successivo alla ventitreesima coppia, ovvero quella determinante il sesso dell'individuo.

    Chi era in possesso del cromosoma Z aveva capacità particolari, differenti rispetto al resto della popolazione, ma soprattutto era considerato estremamente pericoloso.

    Il venti agosto di quello stesso anno nacque l'Unità Speciale di Polizia di Tokyo e nel giro di poche settimane si formarono diversi gruppi straordinari di forze dell'ordine anche a Kyoto, Yokohama, Nagoya, Sapporo, Osaka e ancora in altre città fra le più popolate.

    L'obbiettivo della polizia e dello Stato era quello di sensibilizzare le masse alla pericolosità e alla bestialità dei portatori di cromosoma Z, oltre a persuadere la popolazione a denunciare famigliari e amici che ne erano in possesso.

    Non era questione di genetica, ma non si sapeva neppure da cosa fosse determinato. Tanti lo credevano un effetto delle radiazioni causate dalla bomba atomica.

    La caccia all'uomo, comunque, si rivelò più complicata del previsto, questo perché, anche se nella maggior parte dei casi si era capaci di usare i propri poteri fin dalla nascita, il cromosoma Z non compariva immediatamente nell'esame del cariotipo, ma era individuabile soltanto a partire da una certa età – solitamente non prima dei cinque anni. Chi era capace di controllare il proprio potere fin da appena nato spesso non lo rilasciava, continuando a tenerlo segreto anche durante l'adolescenza, per cui era difficile avere la sicurezza che il proprio figlio, amico, fratello o nipote fosse in possesso di speciali capacità come lo era stato Nakamura.

    Alla fine degli anni Novanta la scarsa presenza di tali soggetti – o più probabilmente la loro difficile individuazione – determinarono tagli ingenti nelle forze di polizia di ogni città, di conseguenza il Governo decise di investire solamente nell'Unità Speciale di Tokyo, a cui divenne sempre più difficile accedere e che nel corso degli anni aveva finito per imporsi come una vera e propria potenza d'élite.

    Pur essendo una forza di prestigio, però, l'Unità Speciale non aveva conseguito molti successi. L'unico risvolto interessante si era delineato un paio di anni prima, quando due medici dell'Aiiku Hospital, nel quartiere speciale di Minato, avevano denunciato un giovane dotato di cromosoma Z. Giovane di cui, però, si erano presto perse le tracce.

    «La crostata era ottima come sempre, grazie» Daichi posò sul bancone sei monete da cento yen, distogliendo il barista dai propri pensieri.

    Sugawara accennò un sorriso, poi prese i soldi e li sistemò nella cassa, preparando infine lo scontrino.

«Allora a domani, Sawamura-san.»

    «A domani e buon lavoro» Sawamura infilò lo scontrino nella tasca della divisa e si congedò con un sorriso appena accennato; Sugawara, dal canto suo, se ne rimase immobile, impegnato a scrutare l'arma appena sporgente dalla grossa fondina in pelle.

    L'Unità Speciale di Polizia di Tokyo aveva in dotazione un'arma altrettanto unica, la testimonianza di un progresso tecnologico senza pari, un vero e proprio vessillo per tutti coloro che erano determinati a eliminare i “diversi” dalla società. L'Exterminator, quello era il suo nome, era una grossa pistola nera dotata di intelligenza artificiale grazie alla quale era in grado di riconoscere il proprietario e di entrare in funzione solo se puntata contro un portatore di cromosoma Z.

   Quando Daichi chiuse la porta un soffio d'aria fredda colpì le guance del barista. Subito dopo, Sugawara udì un leggero rumore di tacchi contro il pavimento e il tintinnio di un cucchiaino in una tazza.

    «La mano?» riuscì a distogliere il proprio sguardo dalla porta trasparente solamente quando la voce flebile di una donna risuonò a pochi centimetri da lui.

    «La mano...?» ripeté a voce bassa, rivolgendo una rapida occhiata al pollice sinistro: la pelle era bianca e liscia. «Va tutto bene, perché me lo chiede?» quando Sugawara la guardò scoprì di avere di fronte a sé una creatura graziosissima: aveva i capelli neri e lisci, sopracciglia fini e lineamenti molto delicati; lo scrutava oltre le lenti sottili degli occhiali, le labbra rosee serrate in un'espressione seria.

    La ragazza abbassò lo sguardo, per poi indicargli la mano sinistra.

    «Ti sei tagliato, Sugawara-san» rispose con lo stesso tono pacato. Sembrava molto timida.

    «Io non...» il barista deglutì a fatica «non mi sono tagliato, probabilmente da dove era seduta‒»

    «Sugawara-san,» la ragazza posò sul bancone la tazza che fino a quel momento aveva tenuto fra le mani ed estrasse un sottile quaderno con la copertina nera dalla borsetta «non mi devi spiegazioni.»

    Sugawara deglutì ancora, soffermandosi sulle linee argentate al centro della copertina scura, le quali formavano una stella a cinque punte contornata da piccoli rombi stilizzati e irregolari.

    «Che cosa.... cos'è?» chiese poi. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo, stava sudando freddo.

    «Un quaderno» la ragazza rispose immediatamente, ma subito dopo la vide boccheggiare e poi mordersi il labbro inferiore, probabilmente imbarazzata per avergli dato una risposta così ovvia.

    Sugawara non riusciva a percepire alcun pericolo in quella ragazza, ma quel quaderno lo inquietava, gli bastava vederlo con la sola coda dell'occhio per sentirsi soffocare.

    «Lei come si chiama?» cercò di ignorare il quaderno, rivolgendosi con gentilezza alla ragazza che, inaspettatamente, gli tese la mano.

    «Shimizu Kiyoko» quando lui le strinse la mano, lei risollevò lo sguardo e lo scrutò nuovamente oltre le lenti degli occhiali. «Sono uno shinigami


❋ ❋ ❋


    Kenma e Akaashi avevano da poco lasciato l'auditorium Yasuda, l'imponente costruzione color mattone che svettava al centro del campus Hongo dell'Università Imperiale di Tokyo, dove frequentavano entrambi l'ultimo anno della facoltà di Lettere. Si stavano dirigendo verso il Tempio Nezu, che distava appena un quarto d'ora dall'università e presso il quale si fermavano spesso a pranzare. Quel giorno, però, si sarebbero limitati a transitargli accanto, siccome faceva troppo freddo per poter pensare di trascorrere le due ore di pausa che si concedevano prima dello studio seduti sulle scalinate di pietra.

    Si sarebbero invece fermati entrambi a casa di Akaashi, che si trovava proprio di fronte al tempio, e lì avrebbero mangiato qualcosa. Dopo pranzo Kenma avrebbe continuato la partita a Monster Hunter, interrotta quella stessa mattina appena prima di entrare in università, mentre Keiji avrebbe ripreso la lettura de Il padiglione d'oro di Mishima.

    Quando transitarono accanto al tempio, Kenma rivolse una rapida occhiata al ponticello verde, ripensando con nostalgia alle giornate assolate trascorse seduti vicino al laghetto delle carpe koi, a osservare da lontano le azalee fiorite.

    Si chiese se la sua carpa preferita, l'unica Yamabuki Ogon, stesse soffrendo il freddo, ma la sua curiosità svanì immediatamente, spazzata via dagli sguardi insistenti di due ragazzi dall'altra parte della strada.

    Kozume li guardò per pochi secondi, poi rivolse una rapida occhiata ad Akaashi, tornando infine a osservare la strada di fronte a sé senza dire una parola quando capì che l'amico non si era accorto di nulla.

    Quando sorpassarono il tempio, Kenma prese un bel respiro profondo e si impose di non pensare più ai due ragazzi dall'altra parte della strada – con ogni probabilità erano soltanto due amici impegnati a chiacchierare e ridacchiare fra loro. Fortunatamente c'era Akaashi accanto a lui: la sua presenza lo aiutava moltissimo, lo confortava e lo faceva sentire al sicuro.

    Kozume aveva abitato a Osaka con la famiglia fino a quattro anni prima, quando i suoi genitori avevano acquistato un piccolo appartamento a Bunkyou per permettergli di frequentare l'Università Imperiale di Tokyo. Anche se la capitale giapponese non era poi tanto diversa da Osaka gli era risultato molto difficile ambientarsi, inserirsi all'interno di una moltitudine di facce nuove e, soprattutto, abituarsi all'idea che il suo negozio di videogiochi preferito non fosse più a due passi da casa sua – il più vicino distava due fermate di metro e non era neppure ben fornito.

    Akaashi era stata la prima persona con cui Kenma era riuscito a stringere amicizia, e dopo quattro anni era ancora l'unica – non che avere un solo amico fosse un problema, anzi era molto legato a lui ed era convinto che non avrebbe mai trovato altri che potessero metterlo a suo agio in quel modo. Keiji non gli faceva pressioni di alcun tipo, era una persona tranquilla, riservata e intelligente e per tale motivo Kenma lo ammirava, si fidava di lui.

    Ciò che li legava maggiormente, comunque, era la complicità che si era creata nel momento in cui avevano scoperto di essere entrambi in possesso del cromosoma Z.

    La scoperta era avvenuta a maggio del primo anno di università, scaturita da un eccesso di fiducia da parte di entrambi. Per un qualche motivo che Kenma non ricordava, il loro professore di letteratura angloamericana aveva menzionato il cromosoma Z, così alcuni dei ragazzi del corso avevano reso l'argomento il più gettonato durante le pause fra una lezione e l'altra. Lui e Akaashi sembravano gli unici a non preoccuparsi dell'esistenza di uomini più forti, più veloci o intelligenti di altri, difatti nessuno dei due partecipava ai pretenziosi e assurdi dibattiti che si creavano fra i loro compagni.

    La prima volta che ne avevano parlato lo avevano fatto da soli, seduti vicino al laghetto delle carpe koi.

    “Tu credi che i dotati di cromosoma Z siano un pericolo?”: Keiji aveva rotto il silenzio con una domanda simile e Kozume era rimasto a fissarlo senza dire una parola.

    Quel giorno Kenma aveva percepito qualcosa di diverso nello sguardo del compagno, aveva capito immediatamente che dietro la sua domanda c'era molto più di una legittima curiosità.

    Akaashi aveva continuato a guardarlo in silenzio, in attesa di una risposta, e tale era la sua serietà che Kenma aveva perfino pensato che fosse disposto a restare così per sempre pur di conoscere la sua opinione.

    Kozume fu colto – non di certo per la prima volta – dal sospetto che Akaashi fosse proprio come lui, ma non aveva risposto subito. Aveva fatto qualcosa di più drastico, che da quando era arrivato a Tokyo si era categoricamente vietato: era sgusciato solo per un istante nella mente dell'altro, aveva sentito un ammasso di pensieri confusi e fra questi aveva cercato una frase in particolare.

    Gli aveva risposto, subito dopo essere tornato in sé, che i dotati di cromosoma Z gli piacevano ancora meno delle persone normali, eccezion fatta per lui, e Akaashi, che non si era neppure reso conto della breve visita di Kozume nella sua testa, aveva sbarrato gli occhi e sussultato appena.

    Forse era stato proprio quel pomeriggio di maggio a consacrare la loro amicizia, la cieca fiducia che li legava e li rendeva l'uno lo scudo dell'altro. Non avevano mai corso pericoli reali, ma in definitiva sapevano entrambi che avrebbero sempre potuto contare l'uno sull'altro per qualsiasi cosa.

    «Kozume, credo di avere solo del riso a casa. Va bene comunque?»

    Kozume sollevò entrambe le sopracciglia, fissandolo con aria stranita, la mente ancora intorpidita dai ricordi. Quando annuì, Akaashi parlò di nuovo, ma Kenma non riuscì a sentirlo: i ragazzi dall'altra parte della strada avevano attirato ancora una volta la sua attenzione; li vide ridacchiare e darsi gomitate, il tutto mentre osservavano lui e Keiji.

    «Ohi, Kozume, mi ascolti?»

    Kenma avrebbe voluto annuire, ma in effetti non lo stava ascoltando. Non poteva, non ci riusciva. Continuò a guardare i due ragazzi dall'altra parte della strada, aggrappandosi alla manica della giacca dell'amico.

    «Kozume?»

    «Quelli dall'altra parte della strada...»

    Akaashi lo guardò con la fronte aggrottata, per poi rivolgere una rapida occhiata alla propria sinistra. «Due cretini,» constatò senza particolare emozione nella voce, l'espressione facciale completamente distaccata «non farci caso.»

    «Stanno venendo qui.»

    Keiji, che era già tornato a guardare altrove, dovette nuovamente rivolgere la propria attenzione ai due ragazzi, e questa volta smise perfino di camminare, assumendo un'espressione piuttosto severa.

    «Ci penso i‒»

    «Akaashi!» prima ancora di riuscire a finire la frase si ritrovò con entrambe le mani intrappolate da quelle leggermente più grandi di uno dei due sconosciuti. «Finalmente ci conosciamo!»

    Keiji ritirò le mani in assoluto silenzio, ammonendo il ragazzo dai capelli grigi con lo sguardo. Kenma, dal canto suo, fece un piccolo passo per rifugiarsi dietro l'amico, nascondersi dallo sguardo magnetico del ragazzo con i capelli neri, quello che ancora non aveva proferito parola. Il modo in cui lo guardava e il suo sorriso lo avevano gettato in uno stato di profondo imbarazzo mai sperimentato prima.


❋ ❋ ❋


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S e n d a i   p r e f e t t u r a   d i   M i y a g i



«Oikawa-san, sei libero questa sera?»

    Tooru ascoltò la voce della ragazza alle sue spalle, gli occhi rivolti alle proprie gambe, coperte solo per un tratto dalle lenzuola.

    «Mhn...» si mise a sedere e infilò entrambi i piedi nei boxer, per poi sollevare il bacino, rispondendo solamente quando li ebbe indossati «questa sera non posso proprio, mi dispiace Tamaki-chan.»

    «Fa niente,» Oikawa la vide fare spallucce mentre si destreggiava con i laccetti del reggiseno «vorrà dire che ne approfitterò per studiare.»

    «Hai un test la prossima settimana, vero?»

    «Eh?» Tamaki si alzò dal letto e si voltò verso di lui, il viso leggermente contratto a causa della resistenza opposta dai jeans contro le cosce ancora scoperte «non avrò test prima di febbraio, Oikawa-san. Pensavo di avertelo detto.»

    Oikawa restò in silenzio, prima soffermandosi sulla vita sottile della ragazza, poi, quando tale contemplazione gli fu negata dalla maglietta larga, sulle dita affusolate che cercavano di pettinare alla bell'e meglio i capelli neri. Tamaki glielo aveva detto, in effetti, e neppure molto tempo prima, ma Oikawa preferì fingere non fosse così.

    Fortunatamente la ragazza non si soffermò più di tanto su quel rapido scambio di battute e, pur sottolineando nuovamente la convinzione di averglielo detto, non insistette e si congedò subito dopo essersi infilata le scarpe.

    Oikawa si stese nuovamente sul letto, volgendo il proprio sguardo al soffitto. Immaginò Tamaki fermarsi all'ingresso per infilare la giacca e recuperare la borsetta e poco dopo sentì la porta cigolare leggermente e chiudersi con un tonfo sordo.

    Chiuse gli occhi e inspirò profondamente, poi protese le labbra ed esalò un sospiro: era una fortuna che se ne fosse andata senza fare troppe storie, visto che di lì a poche ore sarebbe arrivata Hoshiko. Pensando alla seconda ragazza, Tooru si colpì la fronte con il palmo della mano, incredulo all'idea di essere incappato in un errore tanto grossolano: era lei quella che avrebbe avuto un test la settimana dopo, non Tamaki. Hoshiko frequentava il primo anno di Ingegneria Meccanica presso il Sendai National College of Technology, mentre Tamaki, che frequentava la facoltà di Economia alla Tohoku Gakuin University, era quasi giunta alla fine del suo percorso universitario. Era assurdo confonderle, dopotutto la sua amicizia con Tamaki era vecchia di ben tre anni, mentre Hoshiko l'aveva conosciuta solo pochi mesi prima.

    Non era facile gestire due relazioni in contemporanea – sempre se così si potessero definire, ma in fin dei conti quella era ormai l'unica difficoltà che metteva alla prova la sua testa e in generale tutta la sua esistenza. Forse lo faceva proprio per noia, non certo perché in cerca di una fidanzata – per quanto Hoshiko e Tamaki fossero belle e intelligenti.

    Tamaki, a dire il vero, gli aveva sempre dato l'impressione che facesse sesso con lui per il suo stesso motivo: o per voglia o per noia, ma non certo sulla base di un coinvolgimento sentimentale. Erano amici, non c'era dubbio, ma il più delle volte lei gli dava dello stupido e ripeteva che non avrebbe mai accettato di avere una relazione seria con uno come lui. Tooru, d'altro canto, la considerava un po' troppo ansiosa e inflessibile, ma era una brava ragazza e non gli dispiaceva affatto trascorrere del tempo con lei.

    Hoshiko gli aveva dato l'impressione di essere molto appiccicosa e sicuramente meno incline allo studio e più vanesia di Tamaki, ma in fin dei conti non la conosceva così bene da esserne certo.

    Oikawa inclinò leggermente il viso, soffermandosi per un breve istante sull'orologio digitale posato sul comodino: erano da poco passate le tredici, ma non aveva intenzione di mettersi a cucinare. Non aveva fame.

    Emise un flebile sospiro, ritornando a fissare il soffitto, e senza un motivo preciso cominciò a pensare all'unica relazione seria di tutta la sua vita.

    Non era sempre stato così, anzi fino a due anni prima non aveva neppure mai preso in considerazione l'idea di limitare tutto al sesso. Era stato fidanzato per un anno e mezzo con una compagna di corso e lo ricordava come un periodo piuttosto felice al fianco di una persona solare e comprensiva. A pensarci bene quella ragazza era perfino riuscita a migliorarlo, a frenare, in particolare, la sua smania di supremazia sugli altri.

    Oikawa chiuse gli occhi e lasciò scivolare una mano sulla coscia, per poi accarezzare il ginocchio destro con le dita: alla fine era stata proprio lei, all'apparenza così tanto amorevole e aperta, a rivelare una personalità torbida, ben più fredda ed egoista della sua.

    Al primo anno di università Oikawa era già un giocatore di pallavolo affermato e con un posto fisso nella Nazionale under ventuno. Durante il secondo anno, però, un grave infortunio al ginocchio destro aveva compromesso la sua carriera.

    Si era sottoposto a un'operazione e aveva ripreso a giocare all'inizio del terzo anno, ma già dopo una settimana avevano ricominciato a manifestarsi problemi piuttosto gravi. Dopo tre mesi di fisioterapia il medico curante gli aveva annunciato che le possibilità di una totale ripresa erano praticamente nulle, così era stato costretto ad abbandonare la pallavolo, un sogno di una vita infranto per un ginocchio dolorante.

    Quasi senza rendersene conto, era scivolato in una spirale di apatia che lo aveva completamente alienato dalla famiglia e dagli amici e che lo aveva portato a lasciare anche gli studi.

    In tutto ciò la sua ragazza non aveva provato neppure una sola volta a confortarlo. Non lo andava a trovare a casa e non lo cercava al cellulare, ignorandolo completamente. Aveva ricevuto soltanto un messaggio da parte sua: “Non mi dai più attenzioni, non ti importa più niente di me. Resta a marcire nella tua stanza”.

    Forse aveva ragione. Forse non gli era mai importato nulla della sua relazione con lei, così come non gli importava di quella con Tamaki o di quella con Hoshiko. Alla fine dei conti nessuna ragazza era mai riuscita a dargli quello che voleva; si ostinava a cercarle come ogni altro suo coetaneo, eppure non provava nulla quando ci andava a letto.

    Viveva in un perenne stato di insoddisfazione, indissolubilmente legato al suo passato di pallavolista e a un presente scomodo che trascorreva odiando se stesso: lui non era, ma avrebbe potuto essere, e questo pensiero lo logorava ogni giorno.

    Adesso faceva il modello per una piccola maison di Sendai, guadagnava il giusto e spesso appariva perfino sulle riviste, ma era comunque infelice, costretto a un lavoro che non gli andava di fare, un incarico che sfruttava soltanto la sua immagine, di fronte alla quale lui stesso inorridiva. Il presuntuoso e determinato ragazzo di un tempo si era perso nello scorrere degli anni, e non ricevendo alcuno stimolo gli era impossibile ritrovarlo.

    Quando sentì il suono alto e breve del campanello Oikawa sussultò, rivolgendo una rapida occhiata alla sveglia digitale, forse pensando che quella digressione mentale gli fosse costata qualche ora di tempo.

    «Hoshiko-chan è già qui?» sbuffò, sedendosi a gambe incrociate e massaggiandosi la nuca. Si alzò pochi istanti dopo, dirigendosi all'ingresso con indosso soltanto i boxer.

    Grey, il Golden Retriever color miele regalatogli dalla sorella quasi tre anni prima, era già seduto davanti alla porta e uggiolava appena, il muso rivolto verso l'alto e gli occhi ambrati fissi sulla maniglia.

    «Buono,» Oikawa gli accarezzò la testa, per poi abbassare la maniglia «è Hoshiko-cha‒ mhn?»

    Tooru aggrottò leggermente la fronte; Grey, invece, accolse lo sconosciuto con due brevi latrati.

    «Davvero una bella accoglienza, Oikawa» Tooru avrebbe voluto dire qualcosa, ma si limitò a fissare il ragazzo che gli stava passando accanto. Era esterrefatto: un estraneo era appena entrato in casa sua senza chiedergli il permesso e si era rivolto a lui come se si conoscessero da anni.

    «La prossima volta mettiti qualcosa addosso» l'altro ragazzo continuò, per poi voltarsi verso Oikawa, ancora fermo sulla soglia della porta.

    Era leggermente più basso di lui, aveva capelli scuri a punta leggermente arruffati e la pelle olivastra. Aveva un'espressione molto seria, ma nonostante tutto a Oikawa venne naturale percepirlo come un qualcosa di diverso dal pericolo.

    «Un momento, tu...» Tooru indicò la porta aperta, poi lo sconosciuto, gli occhi sbarrati e le labbra appena dischiuse «questa è casa mia, non hai il permesso di–»

    «Andrò dritto al punto.»

    Oikawa sollevò leggermente le sopracciglia, sempre più attonito e confuso. Il ragazzo lo stava indicando con un dito, le labbra increspate in un ghigno appena accennato.

    «Sono qui per il tuo potere, Oikawa.»


❋ ❋ ❋


    Suo padre stava leggendo il giornale, un quotidiano in lingua inglese che sfogliava ogni sera dopo cena. Inforcava gli occhiali e girava le pagine senza mai distogliere lo sguardo dalle fitte frasi di inchiostro, ogni tanto umettando la punta delle dita con le labbra. Lui lo imitava quando sfogliava i libri scolastici e l'album da disegno, anche perché il Lancelot Arch, che era davvero incomprensibile per un bambino di sei anni, non gli interessava affatto.

    Suo padre era un uomo di profonda cultura: amava, fra le tante cose, l'architettura, la pittura e i libri. Leggeva storie di qualsiasi genere, ma non quelle troppo realistiche: “Perché la realtà è sempre fuori dalla nostra finestra, ed è già abbastanza”, diceva.

    Sua madre, dotata di una più spiccata propensione al concreto e all'avventura, stava lavando i piatti. La ricordava girata di schiena, con indosso un vestito color pesca e i capelli castani ammucchiati sulle spalle come schiuma di mare incastonata fra gli scogli.

    Aveva guardato per un po' sua madre, poi si era seduto accanto a suo padre e lo aveva osservato in silenzio, fino a quando non lo aveva visto arrotolare il giornale.

    «Papà, lo sai che questa mattina Harumi-chan ha buttato il bentou di Hatsuyo-chan dalla finestra?» suo padre aveva alzato entrambe le sopracciglia, in un moto di sorpresa. «E nessuno l'ha difesa!»

    Proprio in quel momento, sua madre si era seduta accanto a suo padre, intenzionata ad ascoltare una storia che il figlio le aveva già raccontato qualche ora prima, di ritorno da scuola.

    «Hatsuyo-chan non è...?» suo padre si era voltato in cerca dell'assenso della moglie, e lui si era sentito terribilmente imbarazzato all'idea di avere una cotta di cui entrambi i genitori erano a conoscenza, tuttavia aveva ripreso a parlare quasi immediatamente.

    «Ma l'ho difesa io! Cioè...» si era grattato la nuca per l'imbarazzo, protendendo leggermente le labbra «ho diviso il mio pranzo con lei.»

    Suo padre gli aveva sorriso.

    «M-ma non perché mi piace! Perché era giusto così!»

    «Quanto senso civico in un bambino di soli sei anni» sua madre aveva commentato con una leggera risata, ma senza ironia. Era molto orgogliosa di suo figlio e aveva sempre cercato di fargli acquisire fiducia nella sua diversità.

    «Io voglio aiutare le persone! E posso farlo! Diventerò un supereroe!»

    «Io e tua madre saremo fieri di te, ma devi promettermi una cosa.»

    «Che cosa, papà?»

    «Che continueremo a fare granite» suo padre aveva sfoderato uno di quei rari sorrisi che lo distanziavano notevolmente dall'immagine di uomo serio e acculturato che trasmetteva a chiunque lo guardasse per la prima volta. Da piccolo voleva diventare proprio come lui, e anche come sua madre.

    Aveva sorriso di rimando, annuendo felice.



Non riusciva a capire perché quel ricordo fosse riaffiorato proprio in quel momento, era stato tutto molto naturale, spontaneo. Isolato oltre le barriere satinate della doccia, Yahaba aveva chiuso il getto dell'acqua già da qualche minuto, si era seduto nell'angolo, aveva raccolto le gambe al petto, aveva posato la fronte sulle ginocchia e all'improvviso gli era tornata in mente quella conversazione.

    Forse era la memoria più lontana che aveva. In effetti riusciva ancora a vedere con estrema chiarezza il contenitore rosa del bentou riverso in cortile, sotto la finestra della sua classe, e gli occhi di Hatsuyo, neri e pieni di lacrime. Se si fosse sforzato di ricordarlo, di certo non gli sarebbe venuto in mente un solo istante di quella giornata o dei suoi sei anni.

    Non aveva intenzione di sollevare il viso, quella reminiscenza lo aveva annichilito a tal punto da fargli desiderare di restare per sempre in quello spazio ristretto e umido, con i capelli impregnati d'acqua e le gocce fredde sulle gambe, gli occhi aperti ma immersi nella penombra di una gabbia sicura creata con il suo stesso corpo.

    Era bello fare le granite con i suoi genitori. Di sabato andavano tutti e tre al supermercato e gli lasciavano scegliere una bottiglia di sciroppo. Yahaba ricordava un'infinità di gusti sullo scaffale: vaniglia, mandorla, menta, fragola, anice, caffè, limone. Tutti quei colori affascinavano i suoi occhi di bambino.

    Si stupiva sempre della facilità con cui quegli sciroppi conferivano gusto e colore a qualcosa di semplice e insapore come il ghiaccio: in qualche modo gli facevano pensare che la sua diversità non fosse poi tanto sbagliata. Lui e suo padre avevano perfino parlato di aprire un piccolo chiosco, una volta.

    Chiuse gli occhi, lasciando scivolare le dita fra i capelli bagnati ed espirando appena dalle narici.

    Ora non acquistava più gli sciroppi per le granite. I colori che lo avevano tanto affascinato erano stati sostituiti da bottiglie trasparenti di alcol – vodka, di solito. Dopo l'incidente, in effetti, tutti i colori si erano compattati in una pesante massa grigia che, lentamente, si era schiarita fino alla totale trasparenza, proprio come il ghiaccio.

    Era successo subito dopo la fine delle medie, con un tempismo maledettamente perfetto che, a conti fatti, gli aveva perfino permesso di passarla liscia.

    Era la sera del due febbraio e lui era appena tornato a casa, dopo una lunga giornata trascorsa nelle biblioteche di ben cinque scuole superiori di Yokohama. Aveva la cartella piena di opuscoli e la testa satura di informazioni – quale scuola metteva a disposizione la palestra anche durante le ore serali? Quale un cortile dove era assolutamente vietato pranzare? Era stanco e molto nervoso, non riusciva a ricordare quasi nulla, confondeva ciò che aveva sentito in giornata e a un certo punto pensò perfino di aver dimenticato il blocco degli appunti da qualche parte e dovette fermarsi per controllare.

    Quella sera si stupì di essere riuscito ad arrivare a casa prima di crollare nel bel mezzo della strada. Già immaginava la velocità con cui le sue ginocchia sarebbero cedute una volta giunto di fronte al letto, ma avrebbe dormito? In quel periodo aveva difficoltà a prendere sonno. Sua madre sosteneva che con ogni probabilità fosse colpa del futuro, e aveva ragione: quale scuola era la migliore? E dopo le superiori avrebbe continuato a studiare o avrebbe scelto di lavorare? E quale professione avrebbe svolto?

    Yahaba aveva chiuso gli occhi e si era grattato la narice del naso con la punta delle dita, sospirando profondamente: era nel bel mezzo dell'età adolescenziale, perciò non aveva molto senso preoccuparsi di quella che di lì a tre o forse addirittura sette o otto anni sarebbe stata la sua professione, ma dopotutto, come suo padre gli aveva fatto notare più volte, lui era sempre stato molto più maturo e responsabile dei suoi coetanei e perciò era tristemente naturale che si tormentasse in quel modo.

    Nonostante fosse esausto, Shigeru non si era recato immediatamente in camera. Ricordava di essersi fermato in cucina, per salutare i genitori.

    Quelle ultime settimane trascorse a riflettere sul futuro e le ore di sonno arretrate furono la letale combinazione che quel giorno, per la prima volta, gli fece perdere il controllo sul suo potere. Nonostante si sentisse molto debole, il ghiaccio si era espanso in fretta e con violenza, aveva ricoperto quasi tutto lo spazio interno della casa e in quel delirio involontario aveva coinvolto anche i suoi genitori.

    Tornò cosciente pochi istanti dopo, sorprendentemente lucido. Ricordava ancora i volti esanimi dei genitori sotto il ghiaccio, gli occhiali rotti del padre, le labbra livide della madre e il suo ventre lacerato da una stalagmite.

    Ancora incapace di capire cosa fosse successo, era corso fuori casa, fino alla ferrovia, e poi era salito su uno dei treni della linea Toukaidou, giungendo alla stazione di Tokyo mezz'ora dopo. Lì era salito sul treno delle ventuno e cinquanta, poi, dopo aver trovato un posto appartato, aveva chiamato l'unica persona a cui era riuscito a pensare in quella situazione.

    Il ragazzo a cui aveva telefonato viveva a Sendai con la madre. Si erano conosciuti su Facebook, su un gruppo di appassionati della pallavolo. In realtà Yahaba non si era mai interessato seriamente a quello sport, ma aveva pensato di cominciare a praticarlo appena iniziate le superiori; il ragazzo che viveva a Sendai, invece, giocava a pallavolo dalle elementari e gliene aveva parlato con tanto trasporto da rendergliela perfino interessante.

    Tuttavia non era stata la pallavolo che lo aveva indotto a fidarsi così in fretta di una persona che non aveva mai visto, ma il fatto che chattando con quel ragazzo aveva avuto più volte l'impressione che fosse proprio come lui.

    Shigeru pianse per tutto il viaggio, finché alle ventitré e quaranta non giunse alla stazione di Sendai, dove Oikawa Tooru e sua madre lo attendevano.

    Gli bastò trascorrere un paio di giorni con Oikawa per capire che, come sospettava, anche lui era in possesso del cromosoma Z. Aveva raccontato tutto a lui e sua madre, e loro si erano dimostrati fin da subito molto comprensivi e misericordiosi, sicuramente per mera solidarietà nei confronti di un loro simile. Era stato fortunato: se fossero stati una madre e un figlio normale lo avrebbero certamente additato come assassino e denunciato.

    Lo ospitarono per tre anni, durante i quali Yahaba cambiò taglio di capelli e identità – senza mai chiedere alla madre di Oikawa dove si fosse procurata documenti falsi così ben fatti – e frequentò le superiori.

    Nei primi due anni Oikawa divenne suo mentore, senpai a scuola e durante gli allenamenti di pallavolo, e Yahaba cercò di vestire i panni del ragazzo normale. Non usò più i suoi poteri e cercò di dimenticare quello che aveva fatto.

    La consapevolezza di aver ucciso i suoi genitori, però, era sempre presente, e quando Oikawa andò a vivere per conto suo e cominciò a frequentare la Tohuku University, lasciandolo solo a casa e all'Aoba Johsai, Yahaba cominciò a vacillare.

    Non aveva senso non utilizzare i propri poteri, non sfruttare la propria diversità, ma dopo aver ucciso i genitori era impensabile desiderare ancora di essere un eroe.

    Yahaba lasciò il club di pallavolo in terza superiore e cominciò a fare qualche lavoretto, poi, subito dopo la fine della scuola, affittò un piccolo locale.

    Ricominciò a usare i poteri per procurarsi i soldi di cui necessitava per sopravvivere e perse i contatti con Oikawa e sua madre, anzi sembrò quasi che fra loro si fosse venuto a creare un tacito accordo per cui era meglio non intralciare le decisioni di nessuno, per quanto riprovevoli.

    Le dita di Shigeru arrancarono sulla parete umida della doccia; si alzò lentamente, uscendone pochi istanti dopo.

    Impegnato ad asciugarsi i capelli, Yahaba guardò il proprio riflesso e pensò ancora una volta al due febbraio di sei anni prima. Si chiese che aspetto avesse il suo viso subito dopo l'accaduto, chi avesse trovato i corpi dei suoi genitori e ancora tante altre cose.

    A sei anni voleva diventare un eroe e a quindici aveva ucciso i suoi genitori: era quasi paradossale.

    Cominciò a vestirsi un paio di minuti dopo, ignorando i capelli ancora umidi appiccicati alla nuca e alla fronte. Uscì dal bagno e giunse in cucina dopo aver compiuto appena una decina di passi – era un appartamento di modeste dimensioni, mal costruito e disordinato, lo stesso in cui si era rifugiato poco dopo aver ricominciato a usare i poteri, una volta racimolate le somme per poter pagare l'affitto.

    Yahaba infilò una mano nella tasca della giacca che si trovava sul tavolo della cucina, estrasse il portafoglio e sbirciò all'interno, biascicando un improperio non appena vide che era vuoto: gli toccava uscire per procurarsi qualche soldo.

    Sospirò spazientito, infilandosi la giacca e poi scrollando leggermente le braccia e le spalle per abituarsi alla sensazione di averla addosso, dunque si avvicinò al lavandino e versò un po' di vodka in una tazzina da caffè, bevendola in un solo sorso. Chiuse gli occhi per qualche istante, sospirando nuovamente, poi mosse qualche passo e si fermò all'ingresso, che in realtà non era altro che un piccolo spazio di cucina di fronte alla porta.

    Abbassò la maniglia senza indugi, uscendo immediatamente sul pianerottolo, ma si fermò subito: un ragazzo biondo e con delle occhiaie da far spavento lo stava fissando in cagnesco e sembrava non avere alcuna intenzione di togliersi dai piedi. Assurdo: un estraneo che gli impediva di uscire da casa sua.

    «Togliti» Yahaba sibilò; l'altro, invece, arricciò leggermente il naso, continuando a fissarlo senza dire una parola. «Sei sordo? Devo passare.»

    Avrebbe potuto uccidere lui e prendere i soldi, si sarebbe risparmiato un viaggio, ma per contro una delle prime impressioni che aveva avuto su quel ragazzo era che fosse uno squattrinato.

    In pochissimi secondi, però, la possibilità che l'altro non avesse un centesimo nel suo portafoglio divenne irrilevante: la sua immobilità lo aveva irritato a tal punto da impedirgli di ragionare, così Shigeru sollevò una mano, intenzionato ad attaccarlo. Lo sconosciuto gli bloccò il polso con una tale forza e con tanta velocità da pietrificarlo.

    Yahaba soffocò un gemito, cercando invano di ritrarre la mano. Le dita si contrassero in un pugno, serrò i denti con forza, aumentando la pressione almeno finché non sentì le gengive pulsare: la presa di quel ragazzo era troppo salda perché lo si potesse considerare normale.

    Forse era come lui, ma a prescindere da ciò sentì di odiarlo non appena si guardarono negli occhi.


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E d o g a w a   p r e f e t t u r a   d i   T o k y o



    Nonostante stesse tornando a casa in motorino, Eita aveva il fiato corto. Quella sera si sentiva più stanco del solito, ma con una salute precaria come la sua era inutile domandarsi il motivo di quel malessere, né sperare di trovare una soluzione che lo facesse stare meglio.

    Due anni prima aveva lasciato Minato e si era trasferito a Edogawa per necessità, così adesso viveva con sua nonna vicino al Furukawa Shinsui Park e lavorava come commesso in un negozio di giocattoli per bambini. Il suo era un impiego che pur occupandogli l'intera giornata gli fruttava ben poco, per non parlare poi di quanto fosse faticoso avere costantemente a che fare con padri disattenti, madri frettolose e bambini capricciosi. Nove volte su dieci, infatti, appena un genitore e suo figlio entravano in negozio Eita intuiva come si sarebbe svolta la situazione basandosi sulla mera esperienza e su ovvietà facilmente deducibili: l'adulto medio era oberato di lavoro, si recava al negozio di giocattoli controvoglia, timoroso di perdere tempo e spendere troppo, ma il bambino che spesso lo accompagnava e che ovviamente ignorava l'importanza del denaro cominciava a chiedere giocattoli sempre più costosi e a fare i capricci se la sua richiesta veniva rifiutata.

    Non era un lavoro per lui, che di pazienza non ne aveva molta e che, sopratutto, non amava i bambini, eppure aveva continuato ininterrottamente per quasi due anni al solo scopo di aiutare sua nonna nelle spese della casa e perché non aveva idea di che cos'altro fare del suo futuro. Non che davanti a sé ne avesse uno particolarmente lungo.

    Poco più di due anni prima, infatti, aveva cominciato a riscontrare problemi respiratori: spesso, se sotto sforzo, aveva l'impressione di entrare in un prolungato stato di apnea seguito da una dolorosa iperventilazione. Sua madre e suo padre avevano insistito molto perché si recasse dal medico, ma lui aveva tergiversato perché temeva che questo gli avrebbe prescritto un'analisi dalla quale sarebbe potuta risultare la sua particolarità genetica.

    Tuttavia, dopo aver visto sua madre scoppiare in lacrime, si era deciso a consultare il medico, che accertatosi delle sue condizioni gli aveva immediatamente consigliato di rivolgersi all'ospedale.

    Ancora più scettico, Eita aveva trascorso un intero pomeriggio all'Aiiku Hospital, per poi sentirsi dire, appena qualche giorno più tardi, che aveva un tumore ai polmoni.

    I suoi genitori si erano immediatamente battuti perché cominciasse la chemioterapia come consigliato dal dottore, ma lui aveva opposto resistenza. Avendo sempre pensato che la sua particolarità lo rendesse immune a determinati malesseri, Semi aveva fatto davvero molta fatica ad accettare la realtà, per non parlare del fatto che più tempo trascorreva in ospedale, più le possibilità che qualcuno scoprisse che era dotato del cromosoma Z aumentavano.

    Alla fine, però, il dolore era divenuto così insopportabile che era stato lui stesso a recarsi all'ospedale per chiedere aiuto, ma solo perché nel peggiore dei casi la sua abilità gli avrebbe permesso almeno in parte di rimediare.

    Aveva un carcinoma polmonare a piccole cellule, un tumore aggressivo e altamente metastatizzante che gli causava dolori ossei e muscolari frequenti, difficoltà respiratorie, nausea, emicranie e che a lungo andare avrebbe potuto causargli sindromi come quella di Cushing o quella di Lambert-Eaton, che lo avrebbero portato a un totale e irreparabile indebolimento del sistema immunitario.

    Forse perché il suo corpo era leggermente diverso da tutti gli altri o perché era riuscito a sfruttare la sua abilità a proprio vantaggio, Eita aveva comunque ottenuto un riscontro ottimistico dal dottore: il suo tumore cresceva molto più lentamente del normale e non c'erano ancora metastasi, perciò iniziando subito il trattamento c'erano modeste possibilità di guarigione.

    Il primo ciclo di chemioterapia lo aveva spezzato a metà. Il dottore gli aveva assicurato che ciò che in quel momento pareva ingigantire alcuni aspetti del suo male – la nausea, le difficoltà respiratorie e la febbre – si sarebbe rivelato di fondamentale importanza a lungo termine, ma Semi non ebbe mai occasione di sperimentarlo.

    Da alcune analisi di laboratorio era trapelato qualcosa di strano, così il dottore che lo aveva in cura aveva richiesto un esame più dettagliato che aveva portato alla luce la sua particolarità.

    Eita chiuse gli occhi solo per un istante, sospirando appena, poi rivolse la propria attenzione al semaforo e rallentò leggermente, fermando il motorino allo scattare del rosso.

    Se dopo due anni dalla fuga era ancora vivo lo doveva proprio al suo essere speciale, alla sua abilità, ma che senso aveva cercare di prolungare una vita colma di tanta sofferenza?

    Il motorino sgusciò in avanti non appena scattò il verde, ma poco prima di svoltare l'angolo Eita rallentò la sua corsa: c'era qualcosa di strano nell'aria, quel leggero fetore di bruciato che percepiva quando si verificava qualcosa di brutto, qualcosa che, però, con una piccola e semplice variazione si sarebbe potuto evitare.

    Quando svoltò l'angolo vide un ragazzino steso nel bel mezzo della strada, ad appena un metro dalle strisce pedonali: una donna gli stava sentendo il polso e un uomo stava parlando animatamente al cellulare.

    Eita vide la donna scuotere il capo, rivolgendosi a un'altra appena giunta sul posto. Quest'ultima si inginocchiò accanto al bambino e cominciò a singhiozzare.

    C'era sangue sull'asfalto e un odore di bruciato sempre più fastidioso.

    Eita inspirò profondamente, gonfiando il petto senza badare al forte dolore che si diffuse nella zona dello sterno, poi chiuse gli occhi, riaprendoli soltanto quando l'odore di bruciato svanì.

    Adesso era di nuovo a qualche metro dal semaforo. Accelerò, sorpassando le strisce pedonali prima che scattasse il rosso, dunque svoltò in fretta l'angolo e accostò il motorino al marciapiede, proprio accanto alle strisce pedonali su cui qualche secondo prima aveva visto una madre piangere la morte del figlio.

    Scese dal motorino e sbarrò la strada al bambino, lo afferrò per le spalle senza badare alle sue lagnose proteste e lo lasciò soltanto quando il rombo dell'automobile appena transitata sulle strisce cominciò a diminuire.

    «Sta più attento! È pericoloso attraversare con il rosso!» lo rimproverò, ma il bambino aveva già sorpassato la terza striscia bianca. Lo guardò arrivare sano e salvo dall'altra parte della strada, fino a che non scomparve, inghiottito dalla bocca squadrata e colorata di una fumetteria.

    Sfiatò dalle narici, poi, dopo qualche istante di esitazione, tornò in sella al motorino.

    La prima volta che era tornato indietro nel tempo aveva cinque anni. Un bambino gli aveva rubato il suo pupazzo preferito, allora lui aveva strizzato gli occhi per la rabbia per più di dieci secondi e quando li aveva riaperti aveva di nuovo il suo orsacchiotto fra le braccia. A dieci anni ricordava diversi accadimenti simili, ma ancora non aveva capito esattamente come e perché si verificassero; aveva pensato che fosse una fantasia, la sua immaginazione, ma con il superamento dell'adolescenza si era reso conto che era reale.

    Semi possedeva l'innata e importantissima abilità di tornare indietro nel tempo, ovviamente con alcune limitazioni. Poteva farlo solo in alcuni casi, quando si verificava un avvenimento evitabile e un odore di bruciato che soltanto lui poteva avvertire si sollevava dalla terra; all'inizio i suoi salti temporali non duravano più di qualche secondo, ma con la pratica la sua resistenza era aumentata e in rare occasioni era riuscito ad andare indietro anche fino a dieci minuti.

    Nel contesto della malattia la sua abilità gli era utile per rallentare i progressi del tumore, tuttavia non era servita a impedire ai medici dell'Aiiku Hospital di scoprire il suo segreto, perciò era stato costretto a scappare e a procurarsi un documento d'identità falso. I suoi genitori erano rimasti a Minato, ed Eita non aveva più comunicato con loro per paura di essere intercettato. Sapeva che stavano bene – anche se la polizia li aveva tenuti sotto controllo per circa un anno e mezzo – solo grazie a sua nonna, che comunicava regolarmente con sua madre attraverso un Internet point.

    Non parlavano mai direttamente di lui, ma per far capire a sua madre che era vivo, sua nonna le diceva che la clessidra funzionava ancora.

    Eita arrivò a casa dopo un paio di minuti. Parcheggiò il motorino nel vialetto di fianco all'abitazione e una volta spalancato il cancello di ferro attraversò velocemente il piccolo giardino.

    «Sono a casa» una volta giunto sulla soglia si pronunciò con sforzo, perciò non fu sicuro di essere stato udito, ma comunque avanzò tranquillamente fino in salotto, dove sapeva avrebbe trovato sua nonna impegnata a leggere un romanzo o a guardare un film.

    A pochi passi dall'entrata del salotto annunciò nuovamente il suo ritorno, ma non appena poté vederne l'interno ammutolì: sua nonna era in ginocchio sul tatami, i gomiti poggiati sul tavolo e una tazza di tè fumante sotto al naso, ma la televisione era spenta e di libri non vi era neppure l'ombra. Non era sola: una persona sedeva di fronte a lei.

    «Ah» sua nonna voltò la testa in un movimento ingessato, sistemandosi gli occhiali con le dita tremanti della mano sinistra. «Bentornato, Semi. Questo giovanotto dice di essere tuo amico.»

    Eita assottigliò il proprio sguardo e mise a fuoco il volto del ragazzo seduto di fronte a sua nonna; questo gli sorrise e sollevò la mano in segno di saluto, ma siccome la sua gli parve un'espressione di scherno – e anche perché non lo aveva mai visto prima di allora, Semi non ricambiò.

    «Vado in bagno» annunciò indispettito, allontanandosi immediatamente dal salotto: da quando sua nonna era così imprudente? Quel ragazzo doveva essere speciale per averla convinta a farlo entrare, ma Eita non aveva intenzione di rendersi disponibile nei suoi confronti. Poteva essere un poliziotto in borghese, magari un investigatore privato – soprattutto considerando che sua nonna non si era fatta problemi a chiamarlo con il suo vero nome, come se lo sconosciuto avesse chiesto di vedere “Eita Semi” e non “Matsumoto Akihiro”, ovvero colui che risultava dai documenti falsi che si era procurato al suo arrivo a Edogawa e come, di conseguenza, tutti lo conoscevano.

    Eita arrivò in bagno con il respiro smorzato e una nausea terribile. Si aggrappò allo stipite della porta a causa di un capogiro, poi al lavandino con entrambe le mani.

    Vomitò come spesso era accaduto negli ultimi mesi, poi tossì e sputò un po' di sangue. Girò la manopola del rubinetto e ripulì in fretta il lavandino, per poi sciacquarsi la bocca.

    «Ah, fantastico.»

    Eita sussultò appena, poi sollevò il viso per osservare lo sconosciuto: era sulla soglia del bagno, troppo vicino a lui. Aveva un taglio d'occhi bizzarro, che faceva risaltare la sua espressione da esaltato, per non parlare dei capelli, che come un lungo ciuffo di erba rossa si sollevavano di almeno dieci centimetri dalla sua testa.

    «Che cos'hai?»

    «Tu chi diavolo sei?» Semi raddrizzò la schiena e si asciugò la bocca con un canovaccio. «Un poliziotto? Un investigatore? O un commerciante di organi?»

    «Niente di tutto questo» lo sconosciuto sfoderò di nuovo un sorrisetto di scherno.

    «Allora credo di non avere nulla a che fare con te» Eita aveva i nervi a fior di pelle.

    «Semisemi,» Eita arricciò il naso, infastidito «vista la tua abilità, quando mi hanno assegnato a te speravo in un bell'affare, ma se sei davvero messo male come dice tua nonna abbiamo già perso! Sì, proprio un bell'affare di merda!»

    Eita restò a fissarlo inebetito, ribattendo solo qualche istante più tardi: «Si può sapere chi cazzo sei?»


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B u n k y o u   p r e f e t t u r a   d i   T o k y o



    Moniwa forzò il nodo della cravatta, allentandolo appena con le dita. Al contrario di ciò che poteva suggerire il suo gesto, e anche se sotto la giacca scura sia il blazer che la camicia erano ben abbottonati, aveva un gran freddo. Se da un momento all'altro si fosse messo a nevicare, la cosa non lo avrebbe di certo stupito.

    Sorpassato il quarto di cinque semafori si disse mentalmente di non voltare il viso a sinistra, ma un vago profumo di spezie si insinuò nel suo naso e lo indusse a guardare nella direzione che fino a quel momento aveva cercato di ignorare. Ohayou Ramen era uno dei migliori ristoranti del quartiere, in particolare per le sue zuppe di maiale, e transitandogli davanti ogni giorno Kaname si era ritrovato spesso a osservare con aria sognante le vetrine leggermente offuscate dal calore proveniente dalle cucine, a fiutare l'aria pregna di profumi delicati e confortanti. Avrebbe dato tutti i suoi yen pur di entrare lì dentro e riscaldarsi con una ciotola fumante di ramen, ma in realtà non poteva permettersi soste neppure per allacciarsi le scarpe.

    Da aprile, Kaname lavorava presso uno studio legale del quartiere – era il suo master post-laurea per prepararsi al lungo dottorato che avrebbe cominciato di lì a circa un anno.

    Da otto mesi, ormai, si ripeteva ogni giorno la stessa storia: si alzava alle sei, indossava il completo da ufficio, faceva colazione in fretta perché terrorizzato all'idea di arrivare in ritardo – anche quando era evidente che sarebbe giunto allo studio legale in orario, prendeva la ventiquattrore con all'interno il blocco degli appunti e si dirigeva sul posto di lavoro. Trascorreva la mattinata nello studio legale, fino a mezzogiorno e trenta, poi, per una ragione molto semplice, doveva correre a casa.

    Moniwa sorpassò il quinto semaforo, fermandosi una decina di metri più avanti, di fronte a un portone. Estrasse le chiavi dalla tasca della giacca e non appena entrò all'interno del condominio esalò un sospiro di sollievo: il tepore era così piacevole da essere riuscito perfino a smorzare il suo appetito.

    Kaname salì una rampa di scale, fermandosi davanti alla porta numero tre. Le chiavi tintinnarono contro la serratura, ma questa scattò senza che lui si fosse effettivamente mosso e la porta si aprì subito dopo.

    «Mhn?» Moniwa sollevò leggermente le sopracciglia, preparandosi a posare la ventiquattrore a terra «Tetsu-chan, è successo qualcosa?»

    Ogni volta che tornava a casa la trovava intenta a ordinare i quaderni e i libri utilizzati in mattinata, oppure distesa sul divano o, più frequentemente, già seduta a tavola, pronta a reclamare il pranzo; non era mai accaduto che fosse rimasta ad aspettarlo dietro la porta e che, addirittura, lo avesse preceduto nell'aprirla.

    Sua sorella, Tetsuko, era il motivo per cui, una volta terminato il proprio lavoro allo studio legale, doveva correre a casa senza concedersi neppure una sosta di cinque minuti. Frequentava la prima elementare e finite le lezioni, a mezzogiorno in punto, tornava a casa per conto suo, ma i genitori – che lavoravano fino a tardi – gli avevano raccomandato di fare in modo che non restasse sola per più di un'ora.

    Moniwa, in realtà, la reputava piuttosto autonoma ed era certo che sarebbe stata capace di provvedere a se stessa anche per più di tre o quattro ore. Era una bambina vivace, certo, ma era anche ubbidiente e per nulla sconsiderata, tuttavia non si era mai opposto al volere dei genitori e avrebbe continuato a badare a lei fino a quando gli sarebbe stato possibile.

    «C'è un signore che vuole parlarti, onii-chan!» esordì lei, ora abbarbicata alle gambe del fratello, gli occhi chiusi e la guancia paffuta contro le sue ginocchia.

    «Un signore che vuole parlarmi?» Kaname si guardò intorno, soffermandosi in particolare sull'ascensore. «E dove sarebbe?»

    «In casa!»

    Si sentì gelare il sangue.

    «In casa nostra? L'hai fatto entrare?»

Tetsuko restò abbracciata alla sue gambe, ma sollevò il viso per guardarlo e annuì con un leggero cenno del capo.

    «H-hai fatto entrare uno sconosciuto?» doveva ritirare tutto: forse un po' sconsiderata lo era. «Mio Dio, Tetsu-chan, ti ho detto mille volte di non aprire a nessuno, è pericoloso‒» non appena lei lasciò la presa, lui avanzò, seppur con le gambe rigide e il respiro smorzato.

    Moniwa era una persona ansiosa e neppure troppo coraggiosa, e in quel momento non sapeva davvero cosa aspettarsi, semplicemente rabbrividiva al pensiero del pericolo corso dalla sorellina.

    Chiuse la porta e affidò la ventiquattrore a Tetsuko. «Mettila sul mio letto, poi va' in camera tua e resta lì finché non te lo di‒»

    «Ma io ho fame!» la bambina si lagnò immediatamente, le braccia sottili impegnate a sorreggere la valigetta di pelle.

    Moniwa la guardò per qualche istante, le dita premute alla radice del naso. Esalò un sospiro rassegnato, riprendendo a parlare poco dopo: «Ci sono due barrette ai cereali sulla mia scrivania, per ora cerca di accontentarti. Io faccio presto, d'accordo?»

    Tetsuko annuì appena. Non gli sembrò molto convinta, ma fortunatamente si diresse verso camera sua senza fare altre storie.

    Kaname trattenne il respiro fino a che i passi leggeri della sorellina non si udirono più, poi inspirò profondamente, voltando il viso alla propria destra, in direzione del salotto: perché una bambina intelligente e ubbidiente come Tetsuko aveva fatto entrare uno sconosciuto? Che cosa l'aveva convinta a prendere una decisione tanto avventata? Il loro ospite doveva avere qualcosa di veramente particolare, altrimenti Kaname non sarebbe mai riuscito a spiegarsi il motivo di un tale rischio.

    Deglutì appena, indugiando nell'atrio. L'università gli era stata utile per fronteggiare la sua innata timidezza, ma non amava particolarmente parlare con gli sconosciuti e avrebbe evitato volentieri qualsiasi confronto, tuttavia in quel momento era perfettamente consapevole dell'importanza di assicurarsi che l'ospite non fosse pericoloso.

    Avanzò lentamente, le dita della mano sinistra nuovamente impegnate a massaggiare la radice del naso, gli occhi socchiusi. Rallentò vistosamente in prossimità del salotto, poi, giunto a pochi passi dall'entrata, si fermò e protese leggermente il viso per sbirciare al suo interno.

    La prima impressione che ebbe di quel ragazzo seduto nel suo salotto fu quella di un grosso e annoiato orso polare in attesa che la foca facesse capolino dal buco nel ghiaccio.

    Anche se era seduto era facilissimo coglierne non solo la larghezza delle spalle, ma anche l'altezza. Aveva i capelli bianchi e leggermente arruffati, un'espressione seria e lineamenti massicci, ma probabilmente aveva la sua stessa età.

    Kaname si sostenne con entrambe le mani allo stipite della porta, deglutendo a fatica ed emettendo un singulto non appena il suo ospite lo guardò.

    «B-buongiorno» balbettò, spaventato a morte dallo sguardo truce dell'altro, che non rispose ma abbassò il capo in un cenno veloce.

    Moniwa rimase fermo sulla porta ancora per un po', il respiro trattenuto e i muscoli delle gambe rigidi, intirizziti dal terrore: non aveva mai incontrato un ragazzo così intimidatorio, forse era entrato perché sua sorella era scappata in camera non appena lo aveva visto e aveva lasciato la porta aperta – era la dinamica più plausibile a cui riusciva a pensare.

    Moniwa si scostò dallo stipite della porta e avanzò lentamente, pensando a cosa fosse più appropriato dire in quella circostanza, ma senza trovare una risposta.

    «Sono Aone Takanobu» la voce grave e vagamente meccanica del suo ospite lo fece sobbalzare. Restò imbambolato per qualche istante, le labbra serrate.

    «Piacere di conoscerla,» boccheggiò, accennando un inchino con il capo. L'altro rispose allo stesso modo, ma il movimento fu tanto rigido da dargli l'impressione che il suo ospite fosse anche più a disagio di lui – e questo lo tranquillizzò un po'. «Come... emh, come posso esserle utile? Conosce i miei genitori?»

    Kaname si sentiva come quando la notte si alzava e cominciava a tastare nel buio in cerca dell'interruttore della luce. Sì: procedeva a tentoni. Era l'espressione giusta.

    Aone negò con un cenno del capo, poi inclinò il busto.

    Moniwa notò solo in quel momento la valigetta ai piedi dell'ospite. Lo vide estrarre un quaderno che gli porse poco dopo e che lui afferrò, seppur esitante. Osservò il disegno stilizzato in copertina: sembrava un palco di cervo, ma il colore verde faceva pensare ai rami di un giovane albero. Lo aprì e lo sfogliò in silenzio, per poi tornare a osservare il suo ospite con le labbra leggermente protese in avanti per l'evidente confusione.

    «È vuoto...» si sentì estremamente imbarazzato nel farglielo notare, poi, osservando Aone da vicino, notò qualcosa che lo mise ancor più a disagio: il suo ospite non aveva sopracciglia.


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N e r i m a   p r e f e t t u r a   d i   T o k y o



Detestava consegnare pizze anche durante l'ora di pranzo, ma se voleva continuare ad avere un tetto sulla testa non poteva fare altrimenti.

    Shirabu lavorava come fattorino presso una delle migliori pizzerie di Nerima, e da circa un anno si ripeteva che prima o poi avrebbe trovato un incarico migliore, un impiego che andasse a vantaggio non solo della sua realizzazione personale, ma anche del suo portafoglio; tuttavia, più tempo passava più quella speranza si affievoliva. Forse il suo presenta era già il suo futuro, forse sarebbe rimasto ancorato per tutta la vita a un misero stipendio e a uno squallido monolocale in uno dei quartieri più malfamati della zona.

    Se pensava a tutto ciò che aveva passato prima di giungere a Nerima, però, non poteva che considerarsi fortunato – dopotutto adesso aveva uno spazio suo, un'infinitesimale parte di mondo che pagava con il proprio stipendio; aveva la sicurezza di potersela cavare da solo, ma soprattutto aveva imparato a non soffrire il rifiuto degli altri.

    Quanti dei suoi curricula erano stati cestinati nell'arco di un anno? Probabilmente più di mille, ma a chi poteva interessare una persona senza alcun attestato di istruzione e la cui unica competenza lavorativa era consegnare pizze? Lo sapeva benissimo anche lui che tutto quel tempo trascorso a compilare candidature di ogni tipo sarebbe andato sprecato, non aveva posto alcuna speranza in nessuno dei curricula consegnati né si era soffermato troppo a riflettere su un lavoro che avrebbe voluto davvero provare. Era deciso a perseverare senza stigmatizzarsi troppo. E se gli capitava di demoralizzarsi pensava che per lo meno un lavoro lo aveva.

    «Porca puttana...» borbottò a denti stretti, il capo leggermente chinato nella speranza di proteggere il collo dalle raffiche di vento: faceva molto freddo, senza contare che addosso aveva soltanto un maglione piuttosto sottile e la casacca e i pantaloni della pizzeria, di un tessuto dal colore decisamente discutibile e fin troppo leggero. Non vedeva l'ora di tornare a casa per infilarsi sotto le coperte e non uscirne fino alle diciotto.

    Casa sua distava circa venti minuti a piedi dalla pizzeria – in realtà quaranta, ma conosceva una scorciatoia e aveva un passo molto veloce.

    Mancavano appena due vicoli per giungere allo spiazzo cementificato che fungeva da parcheggio per le auto del grosso caseggiato in cui abitava, perciò si fece forza e allungò ulteriormente il passo, i muscoli facciali intorpiditi dal freddo, le dita delle mani arrossate.

    Transitò in fretta di fronte alla serranda chiusa di una piccola farmacia e imboccò un vicolo puzzolente che aveva già percorso centinaia di volte. Osservò con disgusto i cassonetti spalancati, aspettandosi di vedere – non senza una certa apprensione – un topo col pelo arruffato rosicchiare qualche scarto di cibo in putrefazione, ma notò che intorno ai bidoni della spazzatura era tutto pulito e che il caratteristico fetore che normalmente impregnava le pareti del vicolo era molto meno marcato del solito.

    Non si fermò neppure per un istante e non appena tornò a guardare davanti a sé colse con la coda dell'occhio un movimento alla propria sinistra: qualcuno che fino a pochi secondi prima era poggiato al muro aveva cominciato a seguirlo.

    Doveva essere membro di una qualche gang, dopotutto gli era capitato spesso di avere a che fare con i teppistelli del quartiere, anche in pieno giorno, perciò non si stupì più di tanto.

    Shirabu chiuse gli occhi per pochi secondi, sbuffando: avrebbe potuto ucciderlo, dopotutto era già successo, ma non voleva esporsi ulteriormente. Gli era già capitato un paio di volte di scontrarsi con delle gang, ma il temporale gli aveva fatto da copertura, aveva reso fattibili le morti di due ragazzi che in giornate come questa, fredde ma senza pioggia, sarebbero invece risultate assurde.

    Misurava sempre le conseguenze di una morte, ecco perché quando aveva bisogno di soldi uccideva solo durante i temporali e solo persone anziane rimaste completamente sole. I teppistelli della zona erano un'eccezione, esistenze che lui non osava sfiorare con un dito se non quando lo minacciavano.

    Kenjirou mosse appena la testa, rivolgendo una rapida occhiata a destra e poi a sinistra: non c'era nessuno e all'uscita del vicolo mancavano come minimo dieci metri. Forse non poteva ucciderlo, ma se erano soli cosa gli impediva di voltarsi e assestargli un bel pugno in piena faccia?

    «Shirabu Kenjirou?»

    Shirabu si costrinse a contenere un sussulto: si sarebbe aspettato di tutto, ma non di essere chiamato per nome da una voce sconosciuta. Possibile che fosse uno degli amici dei due teppisti morti? Magari era in cerca di vendetta e ne era stato così ossessionato da arrivare perfino a scoprire il suo nome.

    Continuò a camminare, nella speranza che l'altro si arrendesse, ma tre dita affusolate si aggrapparono alla manica del suo maglione.

    Shirabu rallentò appena e guardò alla sua sinistra, ma senza alcuna reazione brusca, perché dopotutto la presa dell'altro era davvero molto delicata.

    Il ragazzo che lo aveva chiamato per nome sembrava tutto fuorché un teppista: aveva un'espressione concitata, le labbra serrate con forza e le guance vagamente arrossate, come se fosse stato infastidito dal vento gelido e, allo stesso tempo, davvero molto felice di vederlo. E poi aveva un taglio di capelli davvero ridicolo – forse si era messo un'insalatiera in testa e aveva tagliato senza particolare cura tutte le ciocche che ne erano fuoriuscite.

    «Scusami, non ho tempo» comunque Shirabu non aveva intenzione di fermarsi e fare la sua conoscenza. Non gli importava che quel ragazzo sapesse il suo nome, voleva soltanto tornare a casa.

    «Io mi chiamo Goshiki Tsutomu.»

    Avrebbe voluto rispondere che non gliene importava nulla, ma si trattenne e si limitò ad accelerare il passo e a scuotere il braccio nella speranza di far desistere l'altro.

    «Aspetta! Io ti conosco» l'altro rafforzò la presa.

    Shirabu inarcò un sopracciglio, rivolgendogli un'occhiataccia: «Ah sì? Mi pare di non averti mai visto» sfiatò, scuotendo nuovamente il braccio.

    «Infatti sono io a conoscere te. Tu non mi hai mai visto‒»

    «Adesso piantala di dire cazzate e lasciami il braccio.»

    «No, dico davvero‒»

    «Lasciami il braccio!»

    Il ragazzo restò aggrappato, così Shirabu si vide costretto a farlo desistere con le maniere forti.

    Goshiki avvertì una scossa accartocciargli le dita della mano destra. Mollò immediatamente la presa e si massaggiò l'avambraccio, mugugnando appena a causa del forte bruciore sulla pelle, poi guardò davanti a sé e scoprì che Shirabu era già a qualche metro dall'uscita del vicolo.

    Restò a fissarlo per un po', la fronte arricciata in un piccolo cruccio e le labbra piegate in una smorfia di sconforto dovuta più che altro all'intorpidimento della mano e del braccio destro.

    Tsutomu stese le braccia lungo i fianchi e, ritto in piedi, inspirò con forza dalle narici, gonfiando il petto come un soldato, poi buttò fuori tutta l'aria che aveva in corpo e cominciò a correre.

    Questa volta, non appena si sentì afferrare, Shirabu si fermò.

    «Ti ho detto di non rompere!» reagì di nuovo, ma questa volta il ragazzo con la testa di fungo non lo lasciò e fu lui stesso a soffrire una scossa dolorosa e inaspettata.

    Shirabu sussultò, per poi arricciare il naso e aggrottare la fronte: era infastidito e anche un po' sorpreso.

    «Cosa...? Tu hai appena...» non riuscì a dire altro. Goshiki sorrise.




L'angolino della piantina autoritaria
(You should read this):

Non vedevo l'ora di pubblicare! Il capitolo l'ho terminato almeno una settimana fa, ma come potete notare è davvero molto lungo (cosa di cui sono veramente soddisfatta, visto che tento sempre di scrivere capitoli lunghi senza grandi risultati; questo mi è venuto naturale~ ovviamente è così lungo causa presentazione personaggi, sicuramente i prossimi saranno più brevi), quindi ci ho messo sì e no una settimana per revisionarlo.
Duuunque, sulla pagina Facebook (Neu Preussen FB Page) mi sono divertita a postare anticipazioni su ogni personaggio, ma erano molto difficili da indovinare e infatti ci è riuscita solo Elena con Eita (i miei complimenti, mi hai commossa, non credevo che qualcuno avrebbe pensato a lui ;u;).
Come dicevo, questo capitolo è consacrato più che altro alla presentazione dei personaggi e al loro background. Di alcuni sappiamo già i poteri, mentre gli shinigami (che, attenzione, non sono protagonisti, ma personaggi comunque molto molto importanti che affiancheranno i nove protagonisti nel corso della storia) sono abbastanza intuibili.
In sintesi abbiamo (a sinistra i protagonisti e a destra gli shinigami):
Kageyama (fuoco) – Hinata
Sugawara (non ho ancora specificato il suo potere, ma penso sia abbastanza intuibile) – Shimizu
Akaashi (non ho ancora menzionato il potere) – Bokuto
Kenma (non ho ancora menzionato il potere) – Kuroo
Oikawa (non ho ancora menzionato il potere) – Iwaizumi
Yahaba (ghiaccio) – Kyoutani
Semi (controllo del tempo) – Tendou
Moniwa (non ho ancora menzionato il potere) – Aone
Shirabu (si capisce, dai /???/) – Goshiki
Il prossimo capitolo (che sarà pubblicato il 30 novembre) riguarderà più che altro il ruolo degli shinigami e il funzionamento dei quaderni consegnati ai protagonisti (e probabilmente sarà rivelato qualche altro potere; a proposito di questo, anche gli shinigami hanno dei poteri, quindi ci sono ancora molte cose che devono essere rivelate).
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che la scelta di tali protagonisti (il mio amore per i setter mi ha spinto a questo, chiedo venia) non sia motivo di disinteresse verso la storia.
Spero di riuscire a rispettare l'IC il più possibile (visto che non sarà facile gestire personaggi poco considerati come Kyoutani e Yahaba o nuovi come Eita, Tendou, Shirabu e Goshiki), o comunque di riuscire ad adattarlo al background che ho destinato a ognuno di loro.
Il titolo del capitolo riguarda ovviamente il filo rosso del destino, che in questo caso unisce i nove protagonisti ai nove shinigami.
Grazie a chi ha letto il primo capitolo, a chi ha inserito la storia fra preferiti/seguiti/ricordati, a chi ha recensito (poi vi rispondo, promesso! ;u;'), a chi recensirà, a chi mi ha scritto in mp e a chi ha commentato in pagina~
Per chi mi segue in pagina, penso che nel prossimo mese ci saranno almeno due o tre post dedicati alle anticipazioni~ e ora, finalmente, posso mettermi a lavorare sul prossimo capitolo **
Alla prossima!
   
 
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