Voglio
raccontarvi una cosa, ma
promettetemi che non ne parlerete a nessuno: per esperienza posso dirvi
che
sono storie che tutti conoscono, e ognuno si porta dietro la croce
oscura del
godimento, per questo tipo osceno di storie.
Immaginate
un ottobre
nell’Indiana, mentre il cielo si fa di quel candore pseudo
innocente delle
mattine-puttane che ti tirano dentro l’umidore delle loro
gambe, confidenziali,
e ti avvolgono la testa nel panno chiaro dello stordimento mattutino
che da cui
non potrete mai liberarvi; immaginate un ragazzo, Jonathan, che ha
compiuto da
poco diciassette anni. Non è neanche maggiorenne.
Uno
di quei giorni d’autunno,
prendendo la deviazione per la East End nella periferia est di Crown
Point, lo
vedrete sedere da solo sulla panchina di fronte alla chiesa, con
indosso lo
stesso giubbotto, gli stessi jeans Levi’s di sempre.
E
forse non vi accorgerete dei
fogli che tiene in mano, della firma di sangue che sottoscrive la
promessa del
Dottor Howard sul suo destino, e di quelle prime ultime lacrime che
brilleranno
per un po’ sul suo viso stanco, fin quando non
solleverà la mano e – appoggiati
i fogli sulla panchina – la strofinerà lentamente
sulle guance.
Jonathan
Lynch terrà le dita
strette attorno alle ginocchia, come un bambino timoroso che controlla
le sue
ferite dopo essere caduto, e scuoterà piano la testa,
canticchiando Distruction dei The
Cure.
Preso
dal tuo mondo impegnato
delle nove e delle dieci del mattino, tu comunque lo vedrai; lui
sarà un
ragazzo triste di diciassette anni con un mondo impegnato
più pesante sulle
spalle e, avendolo aiutato col tuo inutile sguardo compassionevole,
penserai che
sia tutto normale.
Così
Jonathan si alzerà piano,
senza fare alcun rumore, e camminando col suo passo incerto da uomo
ancora
bambino, prenderà la seconda deviazione verso la chiesa.
Mentre la pioggia
sottile d’ottobre che rende crespi i capelli
inizierà ad operare sui tuoi (se
non hai un ombrello, ma non te lo auguro), rimarrai un altro istante a
contemplare il vuoto che ha lasciato sulla panchina.
Molti
di voi penseranno: povero
ragazzo, chi sa che gli è preso!, e altri: questi ragazzi
tormentati che non
sanno niente delle sofferenze della vita!, alcuni si diranno che quei jeans sono
davvero sporchi, e pochi racconteranno d’aver
riconosciuto la
canzone.
Ma
nessuno, nessuno di voi,
accorgendosi dei fogli che ha lasciato sulla panchina, gli
correrà dietro per
dirgli: « Hai dimenticato questi! »,agitando la
coda di cavallo rossa nella
bruma densa del mattino, e gli offrirà insieme a quei fogli
un sorriso sincero.
Nessuno, perché il genere umano è pronto ad
annoverare i dolori umilianti che
porta dentro, ma non ha occhi per quelli altrui, e perché:
‘sono affari suoi’ o
‘se li ha lasciati lì significa che non gli
servono’; nessuno, perché non se
siete come Harriet Davies, Jonathan Lynch non lo noterete neppure.
Cap
off kneelin’ on the back of
the church/ feelin’ water on your brow/ with its heal and it
hurts
At
first a sharpish pain that
returns as a thought/ that the needle in your skin won’t
bring you closer to
God
Quella
mattina Harriet era uscita
di casa con un quarto d’ora anticipo, mentre la notte
selvaggia nella periferia
degli emarginati di Crown Point aveva sputato fuori una mattina
bianchissima.
E
quasi casualmente aveva deciso
di togliere i libri di scuola dal suo zaino per riempirlo di romanzi
russi, quasi, perché
invece una parte nascosta di
lei le suggeriva di lasciar perdere tutto e scappare, anche fosse solo
per un
giorno.
Harriet
era scappata con un
pacchetto di Oreo nella tasca della giacca, con gli alamari scuciti
sugli orli
e le scarpe slacciate, e aveva deciso che quel giorno avrebbe percorso
la prima
e l’ultima strada della sua vita – la East End in
cui era nata e in cui, alla
fine, sarebbe voluta morire. Aveva preso la prima deviazione con passo
deciso,
le spalle contratte, e aveva visto i suoi vicini di casa scivolare
fuori dalle
porte sul retro, abbrutiti, e aveva amato per un istante la sua
capacità di
vedere nelle persone. Così, agitando la coda rossa di
capelli in
quell’atmosfera quasi velenosa, aveva guardato lontano, dove
l’orizzonte chiaro
scivolava sulle fabbriche in fondo alla via, e abbracciando per un
attimo quel
grande nulla, aveva riappoggiato lo sguardo sulla chiesetta della East
End.
Era
una cosa piccola e graziosa,
come una ginestra dimenticata in febbraio quando il freddo è
capace di
toglierti il respiro una volta per tutte, e sembrava appoggiarsi con la
dolcezza di una santa in preghiera al suo cancello scuro e agli aceri
sulla
strada. Harriet aveva fissato a lungo la facciata ovest gialla e
provata dalle
intemperie, e aveva sentito come il bisogno di inginocchiarsi davanti a
quella
chiesa e appoggiare la testa sul suo grembo – insieme alla
nuda, sconvolgente
disperazione di quelle finestre attonite che ricambiavano il suo
sguardo. Poi
aveva sorriso scuotendo la testa e, tirati fuori i biscotti, aveva
volto lo
sguardo altrove.
Un
ragazzo, un ragazzo carino con
le gambe lunghe e le spalle ben delineate era curvo sulla panchina, con
i
gomiti appoggiati sulle cosce divaricate e la testa fra le mani. In
quella
sinistra teneva un fascicolo verde plastificato e una lettera aperta.
Harriet
si era avvicinata
scivolando tra le siepi sbiadite del camposanto, in quella maniera
assolutamente insensata e magica con cui il destino decide di spingerti
verso
le persone, e l’aveva visto alzare il viso con uno scatto
improvviso del collo.
La luce fredda del mattino aveva illuminato impietosa un volto stanco,
segnato
dal cuscino e dal poco sonno, e insieme le strade invisibili e
intricate delle
lacrime che l’avevano percorso. Come lo era stata da bambina
di fronte alla
volpe investita sulla strada (quella notte calda con suo padre e sua
madre in
auto, nel Michigan), Harriet era rimasta sconvolta e affascinata dal
rossore crudo
del suo viso stravolto da quel dolore selvaggio, sincero, e quando il
ragazzo
si era alzato lasciando il fascicolo sulla panchina, aveva subito
saputo cosa
fare.
And
I watch as your head turns
full circle
Dean
Bowden era nato a Fort
Wayne, Indiana, educato da anni e anni di televisione e videogiochi
demenziali,
cacciaviti infilati negli anfibi e calzini usati per pulire pasticci di
sangue
quando si feriva e sperma dopo un attimo di sollievo. Tutto nella sua
vita era
portato all’esagerazione, come se il sesso, il dolore, i
progetti, per Dean non
fossero altro che una maniera estrema per esorcizzare il vuoto della
sua
esistenza.
Ha
un paio di ricordi cari della
sua infanzia, due o tre attimi confortevoli che la notte usa come
coperte e in
cui cerca di farsi spazio, un ricordo della nonna Charlize e del suo
petto
caldo che sapeva di torta di zucca e Marlboro, e un altro di zia Jane
prima che
il cancro non rendesse la sua pelle un involucro azzurro attorno alle
sue ossa
da bambina – loro due che sulla mansarda della casa a Fort
Wayne guardavano le
stelle.
La
terza donna della vita di Dean
era sua madre, che a undici anni gli aveva detto: « Vedi di
tenere un profilo
basso, a scuola, » e aveva fatto sì che il
consiglio venisse applicato in
seguito a ogni ambito della sua vita, e poi a quattordici anni:
« È per tuo
padre che ti sei fatto venire ... questo?!
“L’assenza di una figura maschile nella vita di un
ragazzo!” Storie! Ma non
importa, Dean. Andrà meglio, » aveva detto.
«
Anche se adesso hai un amico maschio.
Sei ancora piccolo. »
Dean,
col suo basso profilo che
minacciava di straripare dagli argini, aveva ingoiato le parole di sua
madre
senza replica e aveva deciso che erano davvero storie,
che tutto era una storia
inventata da qualcuno che non aveva dovuto vendere la casa a
Fort Wayne per
pagare i debiti, e più passava il tempo più
sentiva il bisogno degli “amici”
che diceva sua madre.
Fece
sesso per la prima volta a
quindici anni – e fu straziante e umido e sporco –
e quando la sera tornò a
casa entrò in doccia si lavò di dosso le sue
voglie da adolescente insicuro
ormai irrimediabilmente trasformatesi in cicatrici da adulto.
Pianse.
E poi, rassegnato in
seguito a un processo catartico che l’aveva rivoltato come un
calzino, si era
seduto di fronte al computer.
Aveva
chiesto l’amicizia su Skype
a due ragazze italoamericane e a un colombiano col fisico di un body
builder, e
quella notte era rimasto sveglio tutta la notte a giocare a Call of
Duty.
Pensava che un giorno avrebbe potuto imbracciare uno di quei fucili, e
lavare
le angosce dal corpo provato di quella fetta emarginata di mondo in cui
vivevano quelli come lui, esattamente come aveva fatto per
sé qualche ora
prima.
Il
mattino l’aveva colto in uno
stato di confusione surreale, con le mani ancora strette attorno al
joystick colte
da piccoli spasmi e il sapore acido del vomito sulla lingua e tra i
denti. Si
era scordato di fare colazione.
E
anche di andare a scuola, quel
giorno.
*
Dean
aveva appena compiuto sedici
anni, e così anche Jonathan, quando nella high school di
Crown Point si
incontrarono per la primissima volta. Uno era appena arrivato a cavallo
di un
drago fatto di bugie grandiose e storie da
Fort Wayne, e da notti lunghe di videogiochi demenziali e incontri
occasionali
e lamette, l’altro da una vita morbida costruita sui confini
della East End e
da anni di voti mediocri e blandi rimproveri, da fotografie artistiche
che
scattava al nulla e canzoni anni ’80 ascoltate la sera.
Ma
c’era qualcosa dentro di loro
che li rendeva simili, qualcosa che improvvisamente avevano scorto
l’uno
nell’altro e li aveva lasciati inorriditi e affascinati
insieme; quel qualcosa
che avrebbe fatto dire a Jonathan: « Lo sapevo, Dean. Sei
solo una puttana. Se
non fosse stato per gli aghi sarebbe stato per le lamette o per le
scopate. E
ti dico che non me ne frega un cazzo, che sei già morto per
quanto mi riguarda.
Vaffanculo. »
E
poi, a Dean: « Ho paura,
Jonathan. Ho una strafottuta paura, alla fine. »
Ma
l’inizio era stato
meraviglioso. Giornate di fine settembre sempre più vicine,
mani sempre più
strette e parole, parole che sgorgavano senza sosta da bocche
disperate,
progetti, insulti e promesse che si erano scambiati; e Jonathan aveva
pensato
che alla fine Dean era la sua scintilla di vita, come per lui era per
l’altro
l’unica sincera, dolce morte.
La
loro prima volta era stata
tranquilla e nebbiosa, come se già avessero in mente cosa
fare, come se – come
aveva promesso Jonathan, sulla bocca dell’altro ragazzo
– « sembra che ...
siamo fatti per questo. È tutto bellissimo. »
Quando
poi lo stesso Dean Bowden
che aveva creduto di poter imbracciare la mitragliatrice e far fuori
l’America
come in Call of Duty era uscito dallo studio del medico con quei fogli
maledetti fra le mani, Jonathan aveva desiderato morire e ucciderlo con
tutte
le fibre del suo corpo.
Non
importava della notte in cui
Dean si era bucato con l’ago infetto e di tutta quella
fottuta eroina che gli
aveva bruciato il sangue, non importava delle storie che si erano
raccontati e
delle cose che avevano deciso di non dirsi, ma solo quella paura
bollente che
si rimescolava nel ventre di Jonathan, il sudore sulle sopracciglia e
all’attaccatura dei capelli, e quei dieci, venti
caffè che avevano bevuto
insieme alle macchinette dell’ospedale, con l’odore
del cloroformio che gli era
entrato fin dentro l’anima.
*
Dean
era nella sua casa a Crown
Point, quando Jonathan e Harriet si videro – e si parlarono
– sulla East End in
quella mattina d’autunno di cui vi raccontavo. Lei aveva
bigiato la scuola e
girava per la East End con l’Eastpack pieno di libri e i
capelli rossi raccolti
in una coda, lui si era alzato dalla panchina dimenticando sul sedile i
fogli.
Harry
l’aveva inseguito e gli
aveva restituito il fascicolo, sorridendo dolcemente di fronte alla sua
espressione confusa. Alla fine si erano trovati a condividere
un’omelette al
prosciutto in un bistrot del centro, e si erano lasciati con la
promessa di
rivedersi. Jonathan era tornato a casa col fascicolo verde infilato
nella
fodera del giubbotto e si era reso conto che mancava la lettera. Ma non
ricordava niente, niente se non il sorriso ampio e sincero di quella
ragazza,
del sapore un po’ piccante dell’omelette e di
quella mattina fuori del mondo in
cui non aveva temuto d’aver preso l’Aids dal suo
fidanzato tossico.
Harriet
gli aveva detto di
leggere ‘Oh boy!’ di Marie-Aude Murail, dove i
problemi della vita vengono
affrontati con autoironia, e su tutti i suoi disastri inesplorati,
piangendo, alla
fine Jonathan era scoppiato anche a ridere.
All
hopeless with old coffee and
a medical text/ It’s too easy knowin’ nothing
blowin’ off the rest
And
the riddles in the pages
leavin’ too much to guess/ And the worry cracks a fracture
from your hip to
your chest
La
prima volta, invece, in cui
Harriet e Dean si incontrarono, era da poco finita la prima
metà d’ottobre, e
Jonathan non conosceva niente oltre la paura. Non aveva mai davvero
cercato
quella lettera, e non aveva mai voluto trovarla; aveva rivisto Harriet
in
chiesa, quasi una settimana dopo, poco prima delle analisi. E in lei
aveva visto
la sua insulsa vita immeritata saltellare senza troppi pensieri di
fronte ai
suoi occhi stanchi e andarsene com’era
venuta.
Harriet
Davies era fatta di sogni
irragionevoli e privazione insensate, e quella che un tempo era stata
una
bambina spensierata si era trasformata in un’adolescente
brillante e ribelle,
ma ancora troppo bambina.
Aveva
letto in tre giorni I
Fratelli Karamazov e s’intendeva di cinema e di politica e di
attualità e di
stronzate, e discuteva di tutto con la sua solita eloquenza da mente
libera e
egoista qual era.
A
Jonathan piaceva, Harriet,
perché un po’ le ricordava Dean, ma senza la
storia della eroina e degli aghi. Dean,
invece – che in quella maledetta rossa dal sorriso scaltro
aveva visto tutta la
libertà che aveva desiderato e mai avuto – non era
mai riuscito a sopportarla.
Però
si intendevano; quando
Harriet aveva bussato alla porta di casa Bowden e si era trovata di
fronte quel
ragazzone scuro dal viso stravolto e aveva detto: « E
così sei Dean Bowden, »
lui aveva davvero sorriso e l’aveva lasciata entrare.
Harriet
aveva attraversato in
salotto in due falcate lunghe – dissimulando al meglio la
paura – e aveva
lasciato sul tavolino accanto alla televisione una busta gialla
richiusa e
pinzata.
«
Gliel’avresti fatta leggere,
stronzo? » aveva chiesto.
Dean
l’aveva guardata
riattraversare il salotto al contrario e tornare alla porta;
« Te l’ha data
lui? Chi cazzo sei? »
«
Mi chiamo Harry. Rispondimi. »
«
Non me ne frega niente se l’ha
letta, Harry. Voglio sapere che
cazzo
manda a fare le sue amichette, se poi non ha le palle di guardarmi in
faccia.
Sono due settimane che non lo vedo. »
«
Sono due settimane che ... fa
niente. Non sono cazzi miei, Dean. Buona giornata. » Harriet
si era chiusa la
porta alle spalle e aveva corso fino alla fine del vialetto senza
neppure
guardarsi indietro. Le batteva forte il cuore e aveva sentito la risata
impigliarsi
nella sua gola, lottando per scivolare fuori ed esplodere nel caos
cittadino
delle retrovie.
Non
riusciva a sentire altro se
non le pulsazioni accelerate del sangue nelle sue vene, e per qualche
istante
aveva avvertito il bisogno di chiudere gli occhi e riordinare le idee.
Aveva
pensato a Jonathan, per prima cosa; alle preghiere che gli aveva
promesso, al
bacio sulla guancia, alla lettera rubata e alle parole di Dean. Quel
maledetto
Dean che ... –
alla fine, era scoppiata
a ridere senza poter fare niente per impedirselo.
*
Quando
infine Jonathan decise di
presentarsi al suo ultimo faccia-a-faccia col terrore, erano da poco
suonate le
nove del mattino; sedeva in silenzio nella sala d’attesa del
Jerome’s Hospital,
il piumino rosso ripiegato sulle ginocchia e le mani fredde e sudate
infilate
nelle tasche dei pantaloni. Aveva comprato un pacchetto di patatine
Lay’s e una
barretta di cioccolato fondente 70% alle macchinette al pianterreno e
aveva
infilato tutto nello zaino. Non poteva mangiare, ovviamente, ma sentiva
la
necessità di stringere fra le mani qualcosa di concreto che
lo salvasse
dall’agitazione. Un improvviso attacco di panico gli aveva
spezzato il corpo in
due, segnando un percorso intricato nel suo sangue inacidito e nei suoi
muscoli
contratti, e per due minuti esatti aveva chiuso gli occhi pregando di
addormentarsi, per potersi risvegliare nel suo letto la mattina del 2
settembre
quando aveva conosciuto Dean.
Aveva
immaginato un passato
alternativo in cui lui non si sarebbe presentato al corso di inglese, e
non
avrebbe mai conosciuto quel bel ragazzo di Fort Wayne dagli occhi scuri
e le
braccia bucate, ben nascoste dalle maniche lunghe d’un
maglione verde di
seconda mano.
Stava
leggendo una notizia su
Nina Dobrev (forse qualcosa di relativo a The
Vampire Diaries) quando era stato chiamato per le analisi.
Aveva
velocemente pregato che se proprio fosse dovuto succedere tutto, almeno potesse attendere fino a
giugno quando avrebbe preso
l’auto e il diploma. Una parte di lui avrebbe voluto
abbandonarsi al pianto, e
rivoltarsi su quella sedia come un bambino perso nel dolore. E invece
aveva
stretto lentamente le dita attorno al piumino, e lo aveva appeso agli
attaccapanni della sala d’attesa. Una bella donna mulatta che
teneva per mano
una bambina coi codini si era avvicinata a lui, e nel suo inglese
incerto gli
aveva chiesto: « Scusami? Sa dove è il bagno?
»
Jonathan
si era morso forte le
labbra per impedire ai singhiozzi di sfuggire: « Ah ... ehm,
in fondo al
corridoio, » aveva detto, accennando a un punto imprecisato
lontano da lui, «
in fondo al corridoio a destra, signora. »
E
come si dice che il sorriso
degli angeli è l’ultimo prima della morte, dai
suoi sei anni e tutta la sua
benedetta, triste innocenza, la bambina coi codini gli aveva sorriso.
*
Se
ancora avete un po’
d’attenzione da donarmi, vi dico che siamo giunti alla parte
fondamentale di
ogni storia, quella in cui chi legge non è più
solo un lettore (e non si limita
più a leggere) ma deve fare un passo avanti.
Vi
ho presentato Jonathan, no? Ma
anche Dean e Harriet.
Quindi
chiudete gli occhi, e
ascoltate bene quello che ho da dirvi: Anton Cechov diceva che se in un
romanzo
compare una pistola bisogna che quella
pistola spari, e che se viene solo descritta ma mai utilizzata,
è un elemento
superfluo da eliminare; io vi dico che Dean Bowden per diciassette anni
è stato
l’elemento superfluo della sua vita inutilizzata, ma qualcosa
per Jonathan l’ha
fatto, e dunque era necessario che io ve ne parlassi.
C’è
infatti un’altra pistola,
qui, un’arma pericolosa in procinto di sparare:
l’unico problema? Ha davvero
poco tempo. Che poi sarà una ferita o
un’esplosione nulla, ce lo sapremo dire
solo alla fine.
And
I watch as your head turns
full circle
La
prima volta che Dean s’era
bucato, l’aveva fatto di nascosto, una sera di marzo
rannicchiato in un vano
condominiale per i cassonetti della spazzatura. Il sudore sembrava
zampillare
con la violenza di mille spilli che si infilano nella carne dai palmi
delle
mani e dei piedi. Aveva scrutato torvamente la cicatrice odiosa della
sua
inquietudine, torta e irregolare come il colpo distratto d’un
bisturi sul suo
avambraccio sinistro.
Il
sangue aveva acceso una sorta
di eccitazione momentanea dentro di lui, che l’aveva lasciato
vuoto appena
qualche istante dopo.
Quella
sera sedeva scomposto
contro il muro scrostato e sporco del vicolo, e si era legato il laccio
emostatico attorno al braccio. Aveva visto la vena. Di nuovo, aveva
sentito
come se stesse per vomitare e aveva battuto le suole delle scarpe
sull’asfalto.
Il suo ultimo pensiero lucido era andato a Jonathan.
Tre
ore dopo (dieci minuti, per
la testa annebbiata e confusa di Dean) si era alzato come un fantasma
e,
tenendosi contro il muro, era scivolato sul retrovia del primo settore
di case.
Salendo le scale del suo condominio aveva visto una ferita scura
percorrergli
la gamba, ma non aveva sentito alcun tipo di dolore; continuava a
sudare
freddo, ma avvertiva come una sorta di allegra soddisfazione vibrare in
ogni
muscolo del suo corpo.
Un
po’ si sentiva sporco, ma il
pensiero che se avesse fatto la doccia sarebbe annegato continuava a
scontrarsi
coi suoi pensieri distesi. Il suo appartamento era immerso in
un’oscurità
fredda e luminosa.
Si
era gettato sul suo letto,
rivoltandosi tra le coperte sfatte.
Eppure
qualcosa già iniziava a
torcersi dentro di lui, come un serpente velenoso in un frutto marcio,
e
sporcava la pace che era riuscito a crearsi; aveva come
l’impressione che ci
fossero tante persone, grandi e minacciose come ombre, che si
spingevano negli
angoli scuri della sua camera, e lo guardavano attentamente.
Dean
continuava a sudare e il
cuore pompava lento, lentissimo, lasciando come uno spazio vuoto nella
sua gola
che gli impediva di respirare. Chiazze rosse bordate di nero iniziavano
a
fiorire come piante velenose nel suo campo visivo, veloci, lampeggiando
e
disintegrandosi tutto senza mai fermarsi un istante.
Aveva
guardato verso i suoi polpacci
e visto che il piumino era completamente imbrattato di sangue, e se si
si fosse
concentrato avrebbe potuto iniziare a sentirne pure l’odore.
Un vomito acido al
sapore di quel sangue gli scottava le pareti alte della gola.
Non
riusciva a respirare. Era
come se avesse corso per chilometri e chilometri senza mai fermarsi e
gli si
stava attorcigliando la lingua. Qualcosa di grande e feroce come un
mostro nero
dentro di lui, pregava disperatamente di morire.
*
Harriet
era convinta che come il
tempo fosse un cerchio infinito, pure la vita lo fosse. E immaginava un
cerchio
completo da percorrere con la sua testa libera e la sua immaginazione
sfrenata,
e mille storie, idee, progetti a cui abbandonarsi. Alla fine di
quell’ottobre
bianco, pensava che non ci fosse niente di più interessante
della storia di
Dean e Jonathan. E pensava pure che le sarebbe piaciuto mettersi a
scriverla.
Immaginava
una versione romanzata
dello squallore cittadino di Crown Point, e in quella versione della
storia Dean
era un intellettuale tormentato che si perdeva in viaggi spirituali
indotti
dall’eroina, e Jonathan il suo angelo della ventiduesima
strada, coi suoi
capelli biondicci e il suo sorriso sincero; immaginava qualcosa ai
livelli
delle storie dei poeti maledetti del dolore e dell’assenzio,
e finì per
costruire un meraviglioso Dean stile Rimbaud che scriveva poesie e si
drogava
per fuggire al dolore esistenziale che lo affliggeva.
Non
importava quanto Jonathan le
avesse ripetuto che Dean Bowden era solo una puttana egoista e drogata
della
periferia di Crown Point, che non sapeva manco che cazzo fosse una
poesia,
figurarsi scriverla, che si fotteva il cervello tra eroina e
videogiochi e i
suoi unici veri ricordi erano due, ed entrambi legati alla sua infanzia
a Fort
Wayne; Harriet si sentiva importante e gloriosa, tanto che
l’unica cosa che non
aveva spazio nella sua storia di sofferenze atroci e infinite era la
morte, la
pace, e finì per dimenticarsi dell’Aids, e di
tutto quello che poteva comportare.
La
mattina andava a scuola,
tornava a casa e metteva a scaldare le lattine di pasta al sugo
precotta. Il
primo giorno prese appuntamento dal parrucchiere e si fece tagliare i
capelli,
accorciandoli appena fin sotto le orecchie.
Dal
secondo giorno iniziò a scrivere.
Non
riusciva a smettere di
pensare al pomeriggio in cui, dopo aver cercato il cognome Bowden sugli
elenchi
telefonici, si era presentata a casa di Dean e al ricordo contorto di
quel
ragazzo che la sua mente continuava a plasmare e riplasmare senza
sosta. Alla
risata selvaggia che le era esplosa nel cuore. Ai vaghi racconti di
Jonathan.
Alla lettera.
Qualcosa
nel primo ed unico
dialogo che aveva avuto con Dean le suggeriva che lui non fosse affatto
il
personaggio che lei stava creando, ma si trattava che qualcosa che era
decisa
ad ignorare; Harriet Davies aveva costruito un castello nella sua
camera, e
sedeva tra le coperte e le merendine al cioccolato con il computer
sulle gambe.
Dopo
sette giorni in cui scriveva
dalle due alle sette del pomeriggio, il cerchio era stato chiuso.
*
Jonathan
aveva portato Dean a
fare il test HIV dopo la storia dell’eroina, quando aveva
scoperto che si
bucava insieme agli altri disperati di Crown Point. Da lì
era venuto a sapere
delle lamette infette, dei rapporti occasionali, e aveva pensato che
Dean era davvero ordinario, che davvero non meritava il suo amore, ma
non riusciva convincersene; Mr Howard gli aveva fatto la visita
specialistica
subito dopo l’esito positivo, aveva scoperto che
l’infezione era in stato avanzato,
e Jonathan – di nuovo – aveva solo desiderato di
morire.
Eppure
gli era stato accanto: «
Cazzo, Dean. Vaffanculo, » aveva sussurrato, afferrandogli le
spalle indeciso
se spingerlo contro il muro del Jerome’s fino a spaccargli la
testa o abbracciarlo,
« vaffanculo. »
Dean
aveva chiuso gli occhi
appoggiando la schiena alla parete. I morsi dell’astinenza da
ero iniziavano a
divorargli lo stomaco.
Due
settimane dopo, invece,
quando Jonathan era uscito dall’ospedale sapendo di essere
sieropositivo, Dean
era lontano da lui, in quella catapecchia buia e puzzolente che era la
sua
casa. Aveva tirato fuori dallo zaino la barretta di cioccolato e
l’aveva finita
in due morsi. All’ospedale gli avevano detto che
l’aveva presa in tempo, e che
sarebbe andato tutto bene.
Avrebbe
potuto fare tutto, come
una persona normalissima. Famiglia, amici, relazioni, scuola e poi
college e un
futuro da impiegato americano medio dell’Indiana.
Però il pensiero di Dean
continuava a perseguitarlo.
Oh,
Dio, come poteva andare tutto
bene?
You
got lost in your travels and
a spiritual book/ mistook beaches from Nirvana in the way that they look
And
the crooks that run the
island are killing to keep earning/ they’re burning seven
tons of plastic and
it seem to be working
Dean
e Jonathan si rividero a
inizio novembre, in chiesa. Dopo settimane trascorse a distruggersi
nelle crisi
d’astinenza e le febbri, aveva trovato la forza per uscire di
casa.
Come
era successo ad Harriet,
quella stessa forza l’aveva trascinato davanti alla chiesa
sulla East End.
Quella stessa notte Jonathan aveva pensato che Dean non meritava
niente,
tantomeno entrare in chiesa. E avrebbe voluto bagnarlo con
l’acqua santa e
lavargli via le cicatrici e le malattie e i buchi sulle braccia,
perché
semplicemente lo amava. Se ne era reso conto e la cosa gli toglieva il
respiro.
Dean
era sempre più magro, e
assomigliava sempre di più a quei mostri deformi dei cartoni
animati che
Jonathan guardava da bambino; l’eroina gli aveva scavato
ferite nelle braccia e
solchi violacei sotto gli occhi, e l’aveva reso il fantasma
di sé stesso. Aveva
l’impressione che la sua vita fosse iniziata in un giorno
imprecisato d’inizio
ottobre, sul suo letto della casa a Crown Point, in un angolo buio
della
camera, dove la finestra a ribalta proiettava una lama spessa di luce
fredda e
azzurrina.
Una
sorta di dolore acido si era
insidiato come un piccolo demone provvisto di unghie e denti nel suo
stomaco, e
sempre più velocemente lo rodeva; una volta Jonathan gli
aveva detto che: « è
come se fossi nel mio sangue, nelle mie vene, » e nei rari
momenti di coscienza
Dean pensava che quello stesso sangue di cui Jon aveva parlato era
diventato
sangue infetto, sangue sieropositivo, ma soprattutto sangue marcio di
dolore e
di odio.
Il
giorno che si videro Dean era
rannicchiato in un angolo con le braccia strette attorno alle
ginocchia, e
sembrava volesse tenere insieme dei pezzi destinati a sgretolarsi;
Jonathan
l’aveva guardato a lungo, amandolo per i lunghi istanti di
uno sguardo, e
pensando che nonostante tutto Dean non avesse mai fatto niente per lui,
se non
fargli sapere che quella loro esistenza doveva in qualche modo essere
terribile, e che entrambi avevano un pena da scontare.
«
Jon. Aspetta un attimo, » aveva
biascicato Dean, riparandosi gli occhi da un improvviso raggio di sole
filtrato
dalle vetrate, « quella ragazza ... quella ragazza con la
lettera... » aveva
cercato di spiegare, senza ricordare di lei né il viso
né il nome; « perché non
– »
«
Quale ragazza, Dean? » lo aveva
interrotto lui, freddamente, « quale ragazza? »
Dean
gli aveva rivolto
un’occhiata disperata e immediatamente dopo aveva sporto la
testa su un lato e
– in ginocchio per terra – aveva iniziato a
vomitare. Jonathan aveva stretto le
labbra in una smorfia di disperazione e disgusto insieme.
«
Cristo santo, » aveva
mormorato, dimenticandosi della chiesa e della croce insanguinata che
sembrava
fissarlo dall’altare, « che cazzo sei diventato,
Dean. »
Jonathan
si era infilato le mani
in tasca ed era uscito dalla chiesa con le spalle curve, avvilito, una
lacrima
che gli percorreva il viso già umido e si congelava sulla
sua guancia destra.
Aveva pensato un poco ad Harriet.
E
poi al suo primo amore. Sentiva
come se due immense mani provviste d’artigli stessero
scavando nella parte alta
del suo petto, poco sotto la gola. Un pianto colmo d’ansia,
di disperazione, di
rabbia e d’amore – d’amore
– gli
montava dentro con la forza di un uragano.
*
Intanto
Harriet stava vivendo la
sua catarsi. Da bambina le avevano spiegato che a un certo punto della
loro
umile esistenza da bruchi, questi si sarebbero costruiti un bozzolo nel
quale
un giorno avrebbero ricevuto le ali.
Quella
stessa bambina che al tempo
portava i capelli in due treccine rosse, si era sempre chiesta come
sarebbe
stato, addormentarsi e poi svegliarsi stupendi e capaci di volare
– e non
importava della vita, non importava niente! Harriet sapeva che quelle
farfalle
non avrebbero mai rinunciato alla trasformazione (alle
ali!), neanche se fosse dato loro di sapere il giorno e
l’ora
precisi (e così vicini) della loro morte.
Pensava
infatti che nella vita
non fosse possibile rinunciare a nulla di tanto meraviglioso, quasi
ogni
creatura sulla terra fosse naturalmente portata ad accettare i propri
cambiamenti con il ricordo sbiadito di una consapevolezza che offre
mille
strade, mille possibilità, e invita a percorrerle tutte
– tanto c’è tempo.
Harriet
Davies credeva fermamente
nel timshel della Bibbia. Il
“tu
puoi”, del resto – senza accezioni americane
– era la sua filosofia di vita.
Solo che non era il “tu puoi” del: tu
puoi in questa vita. Era piuttosto qualcosa come: puoi, sempre, nell’eternità
spaventosa che gocciola dalle lancette
dell’orologio del tempo sconosciuto,
nell’eternità della tua esistenza.
Pensava
che come la sua, di vita,
pure quella dei bruchi-farfalle fosse un cerchio. Tutto lo era. Di
tanto in
tanto Harriet si chiedeva dove sarebbe finita, cosa sarebbe successo
quando
finalmente fosse riuscita a chiudere il suo cerchio.
Certi
giorni, pensava di poter
ricominciare, e continuare così, in eterno, percorrendo
cerchi sempre più ampi
e spirituali, pieni di luce, metafisici, immensi, fino al Nirvana delle
menti
libere e delle farfalle.
Altri
giorni la morte sembrava
appoggiarsi come una vecchia stanca alla sua vita – e la
infettava, la
sporcava, come un carico pesante e scuro, che pure quando lo appoggi a
terra
lascia i segni della cenere e dell’inchiostro sulla pelle
diafana.
Per
Harriet la morte era un peso.
Altro che immagini di fantasmi neri che ti inseguono senza
pietà, nella breve o
lunga strada della tua vita; in quelle immagini la morte è
provvista di ali,
l’uomo di due misere gambe.
Pensava
invece che se l’uomo non
può avere qualcosa in più di due gambe, la morte
deve averne una. Stringeva i
denti e sorrideva. Altro che ali.
«
Dio santo, Harry si può sapere
che stai combinando in questa stanza? Cosa sono tutte queste carte di
merendine? E quei jeans? Se non li indossi mettili a posto! »
«
... scrivo. Sto scrivendo un
romanzo, mamma. »
«
Non dirmi che non sono ancora
storie su quelle tue teorie filosofiche! Dai, amore, fa’ un
po’ di compiti. Io
fra mezz’ora esco a comprare la carta da forno. Vieni con me?
»
«
No. Ti ho detto che sto
scrivendo. »
Quando
poi sua madre era uscita,
Harriet si era alzata dal letto e si era avvicinata alla finestra.
Aveva avuto
una piccola vertigine e si era appoggiata al davanzale.
Fuori,
tra le case di Crown Point
e gli alberi e le strade, una nebbia bianca e densa aveva reso il mondo
esterno
un insieme di ombre sbiadite, di luci flebili, senza contorni.
Harriet
aveva posato la fronte
contro la finestra. Aveva respirato il freddo. Il calore della sua
pelle aveva
appannato il vetro, e per la prima volta dopo tanto tempo si era
sentita felice. Al posto giusto nel
momento giusto.
Non
mi perdonerà mai per avervelo
raccontato, sapete? Era un momento così intimo, per lei, uno
di quei momenti
della vita di un uomo che mai vengono raccontati, perché non
possono essere
capiti da nessuno se non da chi li ha vissuti.
Harriet
aveva trovato la chiave
che apriva il cassetto segreto dei ricordi della sua infanzia, le
chiare immagini
del suo futuro, quel minuscolo varco nel Grande Cerchio, che le aveva
donato
ciò che di più grande si può ricevere:
la libertà.
Aveva
le guance bagnate dal
vapore acqueo che si era creato sul vetro, quando aveva iniziato a
piangere.
Sentiva
che il suo spirito si era
innalzato a una dimensione superiore, e non riusciva a smettere. Le sue
lacrime
avevano scaldato il freddo dei giorni di novembre di Crown Point,
dell’Indiana,
degli Stati Uniti e del mondo intero.
Aveva
ripensato alla farfalle.
Non solo loro ricevono le ali.
Is
that the best that I can do?
As I watch as your head turns full circle
Se
Dean fosse stato un po’ più
come Jonathan forse si sarebbe salvato. E invece prima che giungesse la
metà di
novembre, già aveva deciso di iniziare a scavarsi una fossa,
perché anche lui –
come Harriet – immaginava la morte a mo’ di
fardello, come una bestia scura che
ti si aggrappa alla schiena e non ti lascia andare.
Alla
fine aveva acconsentito di
entrare in un centro di disintossicazione. Cioè, una mattina
d’inizio novembre
si era trovato là dentro senza sapere come ci fosse finito.
Sentiva
di non meritarlo,
comunque; che diritto aveva Jon di spedirlo dritto dritto in un girone
dell’inferno? Il primo giorno aveva lottato immerso in un
bagno di sudore
freddo, nell’oceano del suo lettino d’ospedale.
Il
secondo giorno i morsi e
crampi dell’astinenza l’avevano piegato sino a
renderlo un burattino nelle mani
del dolore.
Il
terzo giorno l’autunno
nell’Indiana l’aveva colto nel pieno del suo
candore abbacinante, l’aveva
accecato, gli aveva tolto la voce, l’udito e il respiro e
cercava di carpirgli
anche l’anima.
Il
quarto giorno aveva pianto
sangue, la febbre l’aveva bruciato, Dean – come
tutte le Alice di questo mondo
– si era fatto tagliare la testa dalla Regina di Cuori e
l’aveva perduta.
Poi
il quinto giorno era successo
qualcosa di speciale: Jonathan, nel suo piumino da discount e vecchi
jeans, era
andato a trovarlo. Si era seduto in qualche punto imprecisato oltre i
confini
del suo letto, e se solo Dean fosse riuscito a vedere,
ancora, avrebbe visto qualcosa di terribilmente simile
all’amore, nel suo sguardo.
«
Vaffanculo! » aveva sbraitato
invece con la sua voce rasposa e quelle ultime forze che gli
rimanevano. Jonathan
aveva guardato attentamente Dean,
quel pupazzo spezzato che non conosceva, e aveva quasi provato il
bisogno di
stringersi a lui, e di far combaciare quelle sue sincere scintille
d’amore con
gli spigoli duri che le ossa sporgenti formavano sotto la sua pelle.
Piano,
gli aveva accarezzato la
fronte, e aveva atteso come un uomo che sfiora il capo di un lupo di
essere
sbranato.
«
Ti amo ti amo, » aveva
confessato velocemente, incespicando sulle sue stesse parole, e insieme
ritraendo la mano.
Stupendolo
ancora una volta, Dean
aveva accettato la sua carezza. « Portami via, »
aveva biascicato con un tono
debole e lamentoso che non gli era mai appartenuto, da bambino, e si
era
rivoltato come una farfalla impigliata nella ragnatela di quegli ultimi
attimi
di lucidità sofferente.
Jonathan
aveva chiesto un
antidolorifico; e aveva fatto male, lasciarlo andare. Più di
quanto avesse mai
immaginato.
Il
sesto giorno Dean era rimasto
seduto in un angolo del suo letto, e quell’odio che nei
giorni precedenti aveva
covato nei confronti di Jonathan era esploso come una bomba ad
orologeria. La
prima canna a dodici anni, sul retro della scuola a Fort Wayne. La
violenza dei
suoi primi amici. Le botte, gli aghi, le lamette. Tutto quel sangue
intimo e
sporco. L’uomo con cui era stato per la prima volta a
quindici anni. Le bugie
di sua madre. Per ultima Harriet, Harriet che – sì, Harry, ecco come si chiamava!
– era entrata a casa sua e gli
aveva fatto vedere la lettera bianca che aveva consegnato a Jonathan.
Non aveva
scritto altro che un paio di preghiere di essere salvato, e lui neanche
l’aveva
letta. Harriet dai capelli rossi e il sorriso scaltro. Tutto
quel sangue.
In
silenzio.
*
Quello
stesso pomeriggio Jonathan
era tornato a casa drogato di un dolore che aveva aperto tagli profondi
lungo
le pareti della sua anima, e un giorno quei tagli sarebbero diventate
cicatrici
sperdute, un giorno sarebbero state il ricordo del tempo in cui erano
ferite
aperte.
Ricordate
il ragazzo sulla East
End? Quel ragazzo carino con le gambe lunghe e le spalle piegate, il
viso
rigato di lacrime, e il fascicolo in mano, prima di Harriet, della
storia di
Dean, prima di tutto.
Simon
e Garfunkel cantavano del
pugile che ricorderà sempre dei guantoni che
l’hanno spinto a terra, la sua
rabbia e la sua vergogna, ma chi combatte resta, pure con tutte le
sconfitte
che ha subito alle spalle.
Quel
pomeriggio Jonathan aveva
pianto silenziosamente, con una strana dolcezza e malinconia nel cuore,
ma poi
si era asciugato le lacrime, stringendosi nel silenzio morbido della
sua camera
da letto, i The Cure alla radio.
Non
importava quanta strada
avesse percorso, quanta ce ne fosse ancora da percorrere. Solo, una
piccola
parte di lui pregava per dimenticare Dean, per soffrire un
po’ meno.
Il
pensiero di Harry lo travolse
improvvisamente. Avrebbe dovuto parlare con lei, alla fine. Per
chiudere il
cerchio, no?
*
Quando
Dean era morto, né Harriet
né Jonathan l’avevano saputo. Non subito, almeno.
Sedevano uno accanto all’altra
sulla panchina davanti alla chiesa, e lui teneva il braccio destro
stretto
attorno alle spalle di lei,in una sorta di ultimo abbraccio triste e
confidenziale, mentre la testa della ragazza era appoggiata alla sua
spalla.
«
Davvero hai scritto una storia?
»
«
Davvero, sì. Con la fine che
vuoi tu, Jon. »
«
Non chiamarmi così, per favore.
Non esiste una fine che voglio io. »
Harriet
gli aveva rivolto
un’occhiata disperata: « Certo che esiste! Dimmi
quello che sai, quello che
vorresti sapere ... scriverò tutto. Tutto quello che vuoi.
Io ti voglio bene,
Jonathan. »
Lui
aveva pensato: io ti amo, Jonathan, che
era stata la
prima promessa di Dean. E aveva lottato con sé stesso per
non mettersi a
urlare.
«
Anche io, Harry, » aveva
mormorato, alzandosi. Perché alla fine di tutto, ad alzarsi
era sempre
Jonathan. Dopo catarsi e storie e sofferenze. Era sempre lui, alla
fine.
Le
aveva teso la mano con
dolcezza, come lei gli aveva teso il fascicolo giorni prima.
« Ma tu non sai
niente, davvero. »
Dean
era morto alle 10:52 del 15
novembre, nel suo letto del centro di disintossicazione, e quando Jon
era
andato all’obitorio (non ci sarebbe stato alcun funerale per
Dean Bowden), i
medici gli avevano detto che aveva buttato giù due blister
interi di
antidolorifici con il latte del mattino.
Però
non aveva voluto vedere il
suo cadavere. Dean era già morto, il dolore se
l’era portato via tanto tempo
prima. Certe notti, il fantasma di un bambino di Fort Wayne sarebbe
sceso tra
le ombre della East End, e l’avrebbe trovato steso sul divano
del suo
appartamento, segnato ancora dalle cicatrici di un amore, e dal ricordo
di un
ragazzo che scorreva nelle sue vene, col sangue, lento e
così sfacciatamente
umano.
You
appear even tempered thought
your looks will deceive/ And the sparks are always flying
‘cause you drink for relief
With
the heart of a child and wit
of a fool/ It’s wonder I didn’t try to build a wall
around you
Negli
anni seguenti, Harriet si
era chiesta più volte perché Jonathan non avesse
tentato di tenere qualcuno
come Dean fuori dalla sua vita, finchè non aveva compreso la
loro sincera
sofferenza e aveva aperto gli occhi sulla sua, di vita, dimenticando
per un po’
quelle inventate dei suoi romanzi.
Ricordava
un passo de La Valle dell’Eden, in
cui Lee diceva a
Cal: « Sei incantato davanti al tragico spettacolo di Caleb
Trask. Caleb il
magnifico, Caleb l’unico. Caleb la cui sofferenza dovrebbe
avere il suo Omero, »
e si era accorta che l’immagine della giovane Harriet Davies
combaciava perfettamente.
La
sua pistola non aveva sparato,
e non aveva pubblicato nessun romanzo, ma avrebbe voluto farlo leggere
a
Jonathan. A saperlo prima, l’avrebbe scritto nel suo
testamento.
Si
era sposata con un assistente
universitario di origini irlandesi, Patrick, e se pure non
gliel’avrebbe mai
confessato, era subito stata attratta da lui perché aveva
gli stessi occhi di
Jonathan. E lo stesso sorriso buono. Erano andati ad abitare a Dallas,
in
Texas, in una graziosa villetta a due piani.
Da
allora aveva avuto milioni di
lettori, centinaia di amici e conoscenti, ma non figli. E in un torrido
luglio
del Sud era partita per un viaggio in Messico insieme a un paio di
vecchi amici
dell’università. Si erano fermati una settimana ad
Acapulco, dove il grande
vento porta in braccio milioni di anime e le culla nel cielo limpido e
polveroso, a qualche metro dall’oceano. Non aveva mai visto
l’oceano, lei.
Ma
essendo di natura portata ad
amare tutte le cose immense, se n’era innamorata. Aveva
scritto un paio di
lettere a Patrick, in quella settimana, e in una si scusava ridendo per
non
averlo salutato come si deve prima di partire, e che avrebbe rimediato
presto,
subito dopo la visita alle piramidi azteche.
E
invece Harriet Davies era morta
a trentaquattro anni, morsa da un serpente velenoso. Il veleno aveva
impiegato
solo qualche istante a fare effetto e se n’era andata con la
stessa velocità di
una farfalla.
Patrick
non poteva saperlo, ma
Jonathan avrebbe immaginato che se ancora conosceva bene la sua amica,
quella
era proprio l’unica morte che mai avrebbe accettato: a
metà del suo cerchio,
nel pieno della sua vita, senza preoccupazioni, senza la morte che si
avvicina,
senza conoscere la vecchiaia. E poi ... dio,volare era stato
meraviglioso.
*
E
così siamo giunti alla fine,
caro lettore, ma non alla chiusura. Quella spetta a te.
Jonathan
Lynch appoggia un
garofano (il chiodo dell’amore) sulla tomba di Harriet,
perché alla fine aveva
fatto in tempo rivelare a suo marito un ultimo desiderio: essere
seppellita
lungo la East End di Crown Point. Avrebbe anche voluto morirci, ma dato
che le
cose non sono andate così ...
Sospira,
scostandosi una ciocca
un po’ più lunga di capelli dalla fronte. Cara
Harriet dai capelli rossi e il sorriso scaltro.
Non
la vedeva da ... quanto
tempo? Sedici anni? Già. Avrebbe voluto scriverle, una
volta, ma non sapeva il
suo indirizzo. L’ultimo anno di high school si erano
frequentati tanto, lui le
aveva insegnato a suonare la chitarra e lei lo aveva portato al luna
park, a
San Francisco, a pattinare sul ghiaccio, e gli aveva rinsegnato a
ridere.
Harriet,
invece, aveva inciso
nella sua testa l’indirizzo di Jonathan (che non potendo
chiamare Jon era
diventato Johnny) ma non gli aveva
mai scritto. Non c’era un motivo preciso. O forse
sì, ma si è portata il
segreto nella tomba. E poi si era promessa di inviargli una cartolina
dal
Messico, con un “Qui Harry D, Johnny!” e uno smile
che fa l’occhiolino.
Il
fantasma di Dean era rimasto
fra loro per molto tempo, come un velo d’ombra che di tanto
in tanto scendeva
sul viso di Jonathan e nascondeva Harriet e le sue chiacchiere e i suoi
sorrisi.
Ma
poi era iniziato a sbiadire.
Così, senza nessun preavviso; Jonathan aveva continuato a
studiare, suonare,
fare i soliti controlli medici e allestire le sue prime mostre
fotografiche,
quelle che l’hanno reso famoso. E Dean se n’era
andato. Immagina che lì accanto
alla bara di Harriet sia seppellito anche lui.
«
Chi era? » chiede Ross,
accennando all’iscrizione sulla lapide.
Jonathan
appoggia la testa sulla
sua spalla, sorridendo stancamente. « Una cara amica.
L’ho conosciuta quando
Dean ... sì, beh, non te l’ho mai detto.
È morta due anni fa, comunque. »
Ross
gli cinge la vita con un
braccio. « Quanti segreti, » ridacchia, cercando il
suo viso per un bacio; «
su, dai, adesso andiamo. » Jonathan, stupito, accetta il
bacio e si volta, così
grato a Ross che non ha mai appesantito le sue croci.
And
I watch as your head turns full circle
Yeah I watch
as your head turns full circle
Yeah I watch as your head turns full circle