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Autore: Mandorlina    31/10/2016    0 recensioni
‘Harriet era convinta che come il tempo fosse un cerchio, anche la vita lo fosse.'
Dean Bowden, il ragazzo di Fort Wayne, la sua eroina, i suoi giorni grigi, il suo dolore.
Jonathan Lynch, l'angelo della East End, la sua musica, le sue fotografie, il peso del mondo sulle sue spalle coraggiose.
Harriet Davies, la ragazza di Crown Point, le sue farfalle, le storie, la pistola, l'amica.
*Sulle note di Full Circle degli Half Moon Run*
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Voglio raccontarvi una cosa, ma promettetemi che non ne parlerete a nessuno: per esperienza posso dirvi che sono storie che tutti conoscono, e ognuno si porta dietro la croce oscura del godimento, per questo tipo osceno di storie.

Immaginate un ottobre nell’Indiana, mentre il cielo si fa di quel candore pseudo innocente delle mattine-puttane che ti tirano dentro l’umidore delle loro gambe, confidenziali, e ti avvolgono la testa nel panno chiaro dello stordimento mattutino che da cui non potrete mai liberarvi; immaginate un ragazzo, Jonathan, che ha compiuto da poco diciassette anni. Non è neanche maggiorenne.

Uno di quei giorni d’autunno, prendendo la deviazione per la East End nella periferia est di Crown Point, lo vedrete sedere da solo sulla panchina di fronte alla chiesa, con indosso lo stesso giubbotto, gli stessi jeans Levi’s di sempre.

E forse non vi accorgerete dei fogli che tiene in mano, della firma di sangue che sottoscrive la promessa del Dottor Howard sul suo destino, e di quelle prime ultime lacrime che brilleranno per un po’ sul suo viso stanco, fin quando non solleverà la mano e – appoggiati i fogli sulla panchina – la strofinerà lentamente sulle guance.

Jonathan Lynch terrà le dita strette attorno alle ginocchia, come un bambino timoroso che controlla le sue ferite dopo essere caduto, e scuoterà piano la testa, canticchiando Distruction dei The Cure.

Preso dal tuo mondo impegnato delle nove e delle dieci del mattino, tu comunque lo vedrai; lui sarà un ragazzo triste di diciassette anni con un mondo impegnato più pesante sulle spalle e, avendolo aiutato col tuo inutile sguardo compassionevole, penserai che sia tutto normale.

Così Jonathan si alzerà piano, senza fare alcun rumore, e camminando col suo passo incerto da uomo ancora bambino, prenderà la seconda deviazione verso la chiesa. Mentre la pioggia sottile d’ottobre che rende crespi i capelli inizierà ad operare sui tuoi (se non hai un ombrello, ma non te lo auguro), rimarrai un altro istante a contemplare il vuoto che ha lasciato sulla panchina.

Molti di voi penseranno: povero ragazzo, chi sa che gli è preso!, e altri: questi ragazzi tormentati che non sanno niente delle sofferenze della vita!, alcuni si diranno che quei jeans sono davvero sporchi, e pochi racconteranno d’aver riconosciuto la canzone.

Ma nessuno, nessuno di voi, accorgendosi dei fogli che ha lasciato sulla panchina, gli correrà dietro per dirgli: « Hai dimenticato questi! »,agitando la coda di cavallo rossa nella bruma densa del mattino, e gli offrirà insieme a quei fogli un sorriso sincero. Nessuno, perché il genere umano è pronto ad annoverare i dolori umilianti che porta dentro, ma non ha occhi per quelli altrui, e perché: ‘sono affari suoi’ o ‘se li ha lasciati lì significa che non gli servono’; nessuno, perché non se siete come Harriet Davies, Jonathan Lynch non lo noterete neppure.

 

Cap off kneelin’ on the back of the church/ feelin’ water on your brow/ with its heal and it hurts

At first a sharpish pain that returns as a thought/ that the needle in your skin won’t bring you closer to God

 

Quella mattina Harriet era uscita di casa con un quarto d’ora anticipo, mentre la notte selvaggia nella periferia degli emarginati di Crown Point aveva sputato fuori una mattina bianchissima.

E quasi casualmente aveva deciso di togliere i libri di scuola dal suo zaino per riempirlo di romanzi russi, quasi, perché invece una parte nascosta di lei le suggeriva di lasciar perdere tutto e scappare, anche fosse solo per un giorno.

Harriet era scappata con un pacchetto di Oreo nella tasca della giacca, con gli alamari scuciti sugli orli e le scarpe slacciate, e aveva deciso che quel giorno avrebbe percorso la prima e l’ultima strada della sua vita – la East End in cui era nata e in cui, alla fine, sarebbe voluta morire. Aveva preso la prima deviazione con passo deciso, le spalle contratte, e aveva visto i suoi vicini di casa scivolare fuori dalle porte sul retro, abbrutiti, e aveva amato per un istante la sua capacità di vedere nelle persone. Così, agitando la coda rossa di capelli in quell’atmosfera quasi velenosa, aveva guardato lontano, dove l’orizzonte chiaro scivolava sulle fabbriche in fondo alla via, e abbracciando per un attimo quel grande nulla, aveva riappoggiato lo sguardo sulla chiesetta della East End.

Era una cosa piccola e graziosa, come una ginestra dimenticata in febbraio quando il freddo è capace di toglierti il respiro una volta per tutte, e sembrava appoggiarsi con la dolcezza di una santa in preghiera al suo cancello scuro e agli aceri sulla strada. Harriet aveva fissato a lungo la facciata ovest gialla e provata dalle intemperie, e aveva sentito come il bisogno di inginocchiarsi davanti a quella chiesa e appoggiare la testa sul suo grembo – insieme alla nuda, sconvolgente disperazione di quelle finestre attonite che ricambiavano il suo sguardo. Poi aveva sorriso scuotendo la testa e, tirati fuori i biscotti, aveva volto lo sguardo altrove.

Un ragazzo, un ragazzo carino con le gambe lunghe e le spalle ben delineate era curvo sulla panchina, con i gomiti appoggiati sulle cosce divaricate e la testa fra le mani. In quella sinistra teneva un fascicolo verde plastificato e una lettera aperta.

Harriet si era avvicinata scivolando tra le siepi sbiadite del camposanto, in quella maniera assolutamente insensata e magica con cui il destino decide di spingerti verso le persone, e l’aveva visto alzare il viso con uno scatto improvviso del collo. La luce fredda del mattino aveva illuminato impietosa un volto stanco, segnato dal cuscino e dal poco sonno, e insieme le strade invisibili e intricate delle lacrime che l’avevano percorso. Come lo era stata da bambina di fronte alla volpe investita sulla strada (quella notte calda con suo padre e sua madre in auto, nel Michigan), Harriet era rimasta sconvolta e affascinata dal rossore crudo del suo viso stravolto da quel dolore selvaggio, sincero, e quando il ragazzo si era alzato lasciando il fascicolo sulla panchina, aveva subito saputo cosa fare.

 

And I watch as your head turns full circle

 

Dean Bowden era nato a Fort Wayne, Indiana, educato da anni e anni di televisione e videogiochi demenziali, cacciaviti infilati negli anfibi e calzini usati per pulire pasticci di sangue quando si feriva e sperma dopo un attimo di sollievo. Tutto nella sua vita era portato all’esagerazione, come se il sesso, il dolore, i progetti, per Dean non fossero altro che una maniera estrema per esorcizzare il vuoto della sua esistenza.

Ha un paio di ricordi cari della sua infanzia, due o tre attimi confortevoli che la notte usa come coperte e in cui cerca di farsi spazio, un ricordo della nonna Charlize e del suo petto caldo che sapeva di torta di zucca e Marlboro, e un altro di zia Jane prima che il cancro non rendesse la sua pelle un involucro azzurro attorno alle sue ossa da bambina – loro due che sulla mansarda della casa a Fort Wayne guardavano le stelle.

La terza donna della vita di Dean era sua madre, che a undici anni gli aveva detto: « Vedi di tenere un profilo basso, a scuola, » e aveva fatto sì che il consiglio venisse applicato in seguito a ogni ambito della sua vita, e poi a quattordici anni: « È per tuo padre che ti sei fatto venire ... questo?! “L’assenza di una figura maschile nella vita di un ragazzo!” Storie! Ma non importa, Dean. Andrà meglio, » aveva detto.

« Anche se adesso hai un amico maschio. Sei ancora piccolo. »

Dean, col suo basso profilo che minacciava di straripare dagli argini, aveva ingoiato le parole di sua madre senza replica e aveva deciso che erano davvero storie, che tutto era una storia inventata da qualcuno che non aveva dovuto vendere la casa a Fort Wayne per pagare i debiti, e più passava il tempo più sentiva il bisogno degli “amici” che diceva sua madre.

Fece sesso per la prima volta a quindici anni – e fu straziante e umido e sporco – e quando la sera tornò a casa entrò in doccia si lavò di dosso le sue voglie da adolescente insicuro ormai irrimediabilmente trasformatesi in cicatrici da adulto.

Pianse. E poi, rassegnato in seguito a un processo catartico che l’aveva rivoltato come un calzino, si era seduto di fronte al computer.

Aveva chiesto l’amicizia su Skype a due ragazze italoamericane e a un colombiano col fisico di un body builder, e quella notte era rimasto sveglio tutta la notte a giocare a Call of Duty. Pensava che un giorno avrebbe potuto imbracciare uno di quei fucili, e lavare le angosce dal corpo provato di quella fetta emarginata di mondo in cui vivevano quelli come lui, esattamente come aveva fatto per sé qualche ora prima.

Il mattino l’aveva colto in uno stato di confusione surreale, con le mani ancora strette attorno al joystick colte da piccoli spasmi e il sapore acido del vomito sulla lingua e tra i denti. Si era scordato di fare colazione.

E anche di andare a scuola, quel giorno.

*

Dean aveva appena compiuto sedici anni, e così anche Jonathan, quando nella high school di Crown Point si incontrarono per la primissima volta. Uno era appena arrivato a cavallo di un drago fatto di bugie grandiose e storie da Fort Wayne, e da notti lunghe di videogiochi demenziali e incontri occasionali e lamette, l’altro da una vita morbida costruita sui confini della East End e da anni di voti mediocri e blandi rimproveri, da fotografie artistiche che scattava al nulla e canzoni anni ’80 ascoltate la sera.

Ma c’era qualcosa dentro di loro che li rendeva simili, qualcosa che improvvisamente avevano scorto l’uno nell’altro e li aveva lasciati inorriditi e affascinati insieme; quel qualcosa che avrebbe fatto dire a Jonathan: « Lo sapevo, Dean. Sei solo una puttana. Se non fosse stato per gli aghi sarebbe stato per le lamette o per le scopate. E ti dico che non me ne frega un cazzo, che sei già morto per quanto mi riguarda. Vaffanculo. »

E poi, a Dean: « Ho paura, Jonathan. Ho una strafottuta paura, alla fine. »

Ma l’inizio era stato meraviglioso. Giornate di fine settembre sempre più vicine, mani sempre più strette e parole, parole che sgorgavano senza sosta da bocche disperate, progetti, insulti e promesse che si erano scambiati; e Jonathan aveva pensato che alla fine Dean era la sua scintilla di vita, come per lui era per l’altro l’unica sincera, dolce morte.

La loro prima volta era stata tranquilla e nebbiosa, come se già avessero in mente cosa fare, come se – come aveva promesso Jonathan, sulla bocca dell’altro ragazzo – « sembra che ... siamo fatti per questo. È tutto bellissimo. »

Quando poi lo stesso Dean Bowden che aveva creduto di poter imbracciare la mitragliatrice e far fuori l’America come in Call of Duty era uscito dallo studio del medico con quei fogli maledetti fra le mani, Jonathan aveva desiderato morire e ucciderlo con tutte le fibre del suo corpo.

Non importava della notte in cui Dean si era bucato con l’ago infetto e di tutta quella fottuta eroina che gli aveva bruciato il sangue, non importava delle storie che si erano raccontati e delle cose che avevano deciso di non dirsi, ma solo quella paura bollente che si rimescolava nel ventre di Jonathan, il sudore sulle sopracciglia e all’attaccatura dei capelli, e quei dieci, venti caffè che avevano bevuto insieme alle macchinette dell’ospedale, con l’odore del cloroformio che gli era entrato fin dentro l’anima.

*

Dean era nella sua casa a Crown Point, quando Jonathan e Harriet si videro – e si parlarono – sulla East End in quella mattina d’autunno di cui vi raccontavo. Lei aveva bigiato la scuola e girava per la East End con l’Eastpack pieno di libri e i capelli rossi raccolti in una coda, lui si era alzato dalla panchina dimenticando sul sedile i fogli.

Harry l’aveva inseguito e gli aveva restituito il fascicolo, sorridendo dolcemente di fronte alla sua espressione confusa. Alla fine si erano trovati a condividere un’omelette al prosciutto in un bistrot del centro, e si erano lasciati con la promessa di rivedersi. Jonathan era tornato a casa col fascicolo verde infilato nella fodera del giubbotto e si era reso conto che mancava la lettera. Ma non ricordava niente, niente se non il sorriso ampio e sincero di quella ragazza, del sapore un po’ piccante dell’omelette e di quella mattina fuori del mondo in cui non aveva temuto d’aver preso l’Aids dal suo fidanzato tossico.

Harriet gli aveva detto di leggere ‘Oh boy!’ di Marie-Aude Murail, dove i problemi della vita vengono affrontati con autoironia, e su tutti i suoi disastri inesplorati, piangendo, alla fine Jonathan era scoppiato anche a ridere.

 

All hopeless with old coffee and a medical text/ It’s too easy knowin’ nothing blowin’ off the rest

And the riddles in the pages leavin’ too much to guess/ And the worry cracks a fracture from your hip to your chest

 

La prima volta, invece, in cui Harriet e Dean si incontrarono, era da poco finita la prima metà d’ottobre, e Jonathan non conosceva niente oltre la paura. Non aveva mai davvero cercato quella lettera, e non aveva mai voluto trovarla; aveva rivisto Harriet in chiesa, quasi una settimana dopo, poco prima delle analisi. E in lei aveva visto la sua insulsa vita immeritata saltellare senza troppi pensieri di fronte ai suoi occhi stanchi e andarsene com’era  venuta.

Harriet Davies era fatta di sogni irragionevoli e privazione insensate, e quella che un tempo era stata una bambina spensierata si era trasformata in un’adolescente brillante e ribelle, ma ancora troppo bambina.

Aveva letto in tre giorni I Fratelli Karamazov e s’intendeva di cinema e di politica e di attualità e di stronzate, e discuteva di tutto con la sua solita eloquenza da mente libera e egoista qual era.

A Jonathan piaceva, Harriet, perché un po’ le ricordava Dean, ma senza la storia della eroina e degli aghi. Dean, invece – che in quella maledetta rossa dal sorriso scaltro aveva visto tutta la libertà che aveva desiderato e mai avuto – non era mai riuscito a sopportarla.

Però si intendevano; quando Harriet aveva bussato alla porta di casa Bowden e si era trovata di fronte quel ragazzone scuro dal viso stravolto e aveva detto: « E così sei Dean Bowden, » lui aveva davvero sorriso e l’aveva lasciata entrare.

Harriet aveva attraversato in salotto in due falcate lunghe – dissimulando al meglio la paura – e aveva lasciato sul tavolino accanto alla televisione una busta gialla richiusa e pinzata.

« Gliel’avresti fatta leggere, stronzo? » aveva chiesto.

Dean l’aveva guardata riattraversare il salotto al contrario e tornare alla porta; « Te l’ha data lui? Chi cazzo sei? »

« Mi chiamo Harry. Rispondimi. »

« Non me ne frega niente se l’ha letta, Harry. Voglio sapere che cazzo manda a fare le sue amichette, se poi non ha le palle di guardarmi in faccia. Sono due settimane che non lo vedo. »

« Sono due settimane che ... fa niente. Non sono cazzi miei, Dean. Buona giornata. » Harriet si era chiusa la porta alle spalle e aveva corso fino alla fine del vialetto senza neppure guardarsi indietro. Le batteva forte il cuore e aveva sentito la risata impigliarsi nella sua gola, lottando per scivolare fuori ed esplodere nel caos cittadino delle retrovie.

Non riusciva a sentire altro se non le pulsazioni accelerate del sangue nelle sue vene, e per qualche istante aveva avvertito il bisogno di chiudere gli occhi e riordinare le idee. Aveva pensato a Jonathan, per prima cosa; alle preghiere che gli aveva promesso, al bacio sulla guancia, alla lettera rubata e alle parole di Dean. Quel maledetto Dean che ...  – alla fine, era scoppiata a ridere senza poter fare niente per impedirselo.

*

Quando infine Jonathan decise di presentarsi al suo ultimo faccia-a-faccia col terrore, erano da poco suonate le nove del mattino; sedeva in silenzio nella sala d’attesa del Jerome’s Hospital, il piumino rosso ripiegato sulle ginocchia e le mani fredde e sudate infilate nelle tasche dei pantaloni. Aveva comprato un pacchetto di patatine Lay’s e una barretta di cioccolato fondente 70% alle macchinette al pianterreno e aveva infilato tutto nello zaino. Non poteva mangiare, ovviamente, ma sentiva la necessità di stringere fra le mani qualcosa di concreto che lo salvasse dall’agitazione. Un improvviso attacco di panico gli aveva spezzato il corpo in due, segnando un percorso intricato nel suo sangue inacidito e nei suoi muscoli contratti, e per due minuti esatti aveva chiuso gli occhi pregando di addormentarsi, per potersi risvegliare nel suo letto la mattina del 2 settembre quando aveva conosciuto Dean.

Aveva immaginato un passato alternativo in cui lui non si sarebbe presentato al corso di inglese, e non avrebbe mai conosciuto quel bel ragazzo di Fort Wayne dagli occhi scuri e le braccia bucate, ben nascoste dalle maniche lunghe d’un maglione verde di seconda mano.

Stava leggendo una notizia su Nina Dobrev (forse qualcosa di relativo a The Vampire Diaries) quando era stato chiamato per le analisi. Aveva velocemente pregato che se proprio fosse dovuto succedere tutto, almeno potesse attendere fino a giugno quando avrebbe preso l’auto e il diploma. Una parte di lui avrebbe voluto abbandonarsi al pianto, e rivoltarsi su quella sedia come un bambino perso nel dolore. E invece aveva stretto lentamente le dita attorno al piumino, e lo aveva appeso agli attaccapanni della sala d’attesa. Una bella donna mulatta che teneva per mano una bambina coi codini si era avvicinata a lui, e nel suo inglese incerto gli aveva chiesto: « Scusami? Sa dove è il bagno? »

Jonathan si era morso forte le labbra per impedire ai singhiozzi di sfuggire: « Ah ... ehm, in fondo al corridoio, » aveva detto, accennando a un punto imprecisato lontano da lui, « in fondo al corridoio a destra, signora. »

E come si dice che il sorriso degli angeli è l’ultimo prima della morte, dai suoi sei anni e tutta la sua benedetta, triste innocenza, la bambina coi codini gli aveva sorriso.

*

Se ancora avete un po’ d’attenzione da donarmi, vi dico che siamo giunti alla parte fondamentale di ogni storia, quella in cui chi legge non è più solo un lettore (e non si limita più a leggere) ma deve fare un passo avanti.

Vi ho presentato Jonathan, no? Ma anche Dean e Harriet.

Quindi chiudete gli occhi, e ascoltate bene quello che ho da dirvi: Anton Cechov diceva che se in un romanzo compare una pistola bisogna che  quella pistola spari, e che se viene solo descritta ma mai utilizzata, è un elemento superfluo da eliminare; io vi dico che Dean Bowden per diciassette anni è stato l’elemento superfluo della sua vita inutilizzata, ma qualcosa per Jonathan l’ha fatto, e dunque era necessario che io ve ne parlassi.

C’è infatti un’altra pistola, qui, un’arma pericolosa in procinto di sparare: l’unico problema? Ha davvero poco tempo. Che poi sarà una ferita o un’esplosione nulla, ce lo sapremo dire solo alla fine.

 

And I watch as your head turns full circle

 

La prima volta che Dean s’era bucato, l’aveva fatto di nascosto, una sera di marzo rannicchiato in un vano condominiale per i cassonetti della spazzatura. Il sudore sembrava zampillare con la violenza di mille spilli che si infilano nella carne dai palmi delle mani e dei piedi. Aveva scrutato torvamente la cicatrice odiosa della sua inquietudine, torta e irregolare come il colpo distratto d’un bisturi sul suo avambraccio sinistro.

Il sangue aveva acceso una sorta di eccitazione momentanea dentro di lui, che l’aveva lasciato vuoto appena qualche istante dopo.

Quella sera sedeva scomposto contro il muro scrostato e sporco del vicolo, e si era legato il laccio emostatico attorno al braccio. Aveva visto la vena. Di nuovo, aveva sentito come se stesse per vomitare e aveva battuto le suole delle scarpe sull’asfalto. Il suo ultimo pensiero lucido era andato a Jonathan.

Tre ore dopo (dieci minuti, per la testa annebbiata e confusa di Dean) si era alzato come un fantasma e, tenendosi contro il muro, era scivolato sul retrovia del primo settore di case. Salendo le scale del suo condominio aveva visto una ferita scura percorrergli la gamba, ma non aveva sentito alcun tipo di dolore; continuava a sudare freddo, ma avvertiva come una sorta di allegra soddisfazione vibrare in ogni muscolo del suo corpo.

Un po’ si sentiva sporco, ma il pensiero che se avesse fatto la doccia sarebbe annegato continuava a scontrarsi coi suoi pensieri distesi. Il suo appartamento era immerso in un’oscurità fredda e luminosa.

Si era gettato sul suo letto, rivoltandosi tra le coperte sfatte.

Eppure qualcosa già iniziava a torcersi dentro di lui, come un serpente velenoso in un frutto marcio, e sporcava la pace che era riuscito a crearsi; aveva come l’impressione che ci fossero tante persone, grandi e minacciose come ombre, che si spingevano negli angoli scuri della sua camera, e lo guardavano attentamente.

Dean continuava a sudare e il cuore pompava lento, lentissimo, lasciando come uno spazio vuoto nella sua gola che gli impediva di respirare. Chiazze rosse bordate di nero iniziavano a fiorire come piante velenose nel suo campo visivo, veloci, lampeggiando e disintegrandosi tutto senza mai fermarsi un istante.  

Aveva guardato verso i suoi polpacci e visto che il piumino era completamente imbrattato di sangue, e se si si fosse concentrato avrebbe potuto iniziare a sentirne pure l’odore. Un vomito acido al sapore di quel sangue gli scottava le pareti alte della gola.

Non riusciva a respirare. Era come se avesse corso per chilometri e chilometri senza mai fermarsi e gli si stava attorcigliando la lingua. Qualcosa di grande e feroce come un mostro nero dentro di lui, pregava disperatamente di morire.

*

Harriet era convinta che come il tempo fosse un cerchio infinito, pure la vita lo fosse. E immaginava un cerchio completo da percorrere con la sua testa libera e la sua immaginazione sfrenata, e mille storie, idee, progetti a cui abbandonarsi. Alla fine di quell’ottobre bianco, pensava che non ci fosse niente di più interessante della storia di Dean e Jonathan. E pensava pure che le sarebbe piaciuto mettersi a scriverla.

Immaginava una versione romanzata dello squallore cittadino di Crown Point, e in quella versione della storia Dean era un intellettuale tormentato che si perdeva in viaggi spirituali indotti dall’eroina, e Jonathan il suo angelo della ventiduesima strada, coi suoi capelli biondicci e il suo sorriso sincero; immaginava qualcosa ai livelli delle storie dei poeti maledetti del dolore e dell’assenzio, e finì per costruire un meraviglioso Dean stile Rimbaud che scriveva poesie e si drogava per fuggire al dolore esistenziale che lo affliggeva.

Non importava quanto Jonathan le avesse ripetuto che Dean Bowden era solo una puttana egoista e drogata della periferia di Crown Point, che non sapeva manco che cazzo fosse una poesia, figurarsi scriverla, che si fotteva il cervello tra eroina e videogiochi e i suoi unici veri ricordi erano due, ed entrambi legati alla sua infanzia a Fort Wayne; Harriet si sentiva importante e gloriosa, tanto che l’unica cosa che non aveva spazio nella sua storia di sofferenze atroci e infinite era la morte, la pace, e finì per dimenticarsi dell’Aids, e di tutto quello che poteva comportare.

La mattina andava a scuola, tornava a casa e metteva a scaldare le lattine di pasta al sugo precotta. Il primo giorno prese appuntamento dal parrucchiere e si fece tagliare i capelli, accorciandoli appena fin sotto le orecchie.

Dal secondo giorno iniziò a scrivere.

Non riusciva a smettere di pensare al pomeriggio in cui, dopo aver cercato il cognome Bowden sugli elenchi telefonici, si era presentata a casa di Dean e al ricordo contorto di quel ragazzo che la sua mente continuava a plasmare e riplasmare senza sosta. Alla risata selvaggia che le era esplosa nel cuore. Ai vaghi racconti di Jonathan. Alla lettera.

Qualcosa nel primo ed unico dialogo che aveva avuto con Dean le suggeriva che lui non fosse affatto il personaggio che lei stava creando, ma si trattava che qualcosa che era decisa ad ignorare; Harriet Davies aveva costruito un castello nella sua camera, e sedeva tra le coperte e le merendine al cioccolato con il computer sulle gambe.

Dopo sette giorni in cui scriveva dalle due alle sette del pomeriggio, il cerchio era stato chiuso.

*

Jonathan aveva portato Dean a fare il test HIV dopo la storia dell’eroina, quando aveva scoperto che si bucava insieme agli altri disperati di Crown Point. Da lì era venuto a sapere delle lamette infette, dei rapporti occasionali, e aveva pensato che Dean era davvero ordinario, che davvero non meritava il suo amore, ma non riusciva convincersene; Mr Howard gli aveva fatto la visita specialistica subito dopo l’esito positivo, aveva scoperto che l’infezione era in stato avanzato, e Jonathan – di nuovo – aveva solo desiderato di morire.

Eppure gli era stato accanto: « Cazzo, Dean. Vaffanculo, » aveva sussurrato, afferrandogli le spalle indeciso se spingerlo contro il muro del Jerome’s fino a spaccargli la testa o abbracciarlo, « vaffanculo. »

Dean aveva chiuso gli occhi appoggiando la schiena alla parete. I morsi dell’astinenza da ero iniziavano a divorargli lo stomaco.

Due settimane dopo, invece, quando Jonathan era uscito dall’ospedale sapendo di essere sieropositivo, Dean era lontano da lui, in quella catapecchia buia e puzzolente che era la sua casa. Aveva tirato fuori dallo zaino la barretta di cioccolato e l’aveva finita in due morsi. All’ospedale gli avevano detto che l’aveva presa in tempo, e che sarebbe andato tutto bene.

Avrebbe potuto fare tutto, come una persona normalissima. Famiglia, amici, relazioni, scuola e poi college e un futuro da impiegato americano medio dell’Indiana. Però il pensiero di Dean continuava a perseguitarlo.

Oh, Dio, come poteva andare tutto bene?

 

You got lost in your travels and a spiritual book/ mistook beaches from Nirvana in the way that they look

And the crooks that run the island are killing to keep earning/ they’re burning seven tons of plastic and it seem to be working

 

Dean e Jonathan si rividero a inizio novembre, in chiesa. Dopo settimane trascorse a distruggersi nelle crisi d’astinenza e le febbri, aveva trovato la forza per uscire di casa.

Come era successo ad Harriet, quella stessa forza l’aveva trascinato davanti alla chiesa sulla East End.
Quella stessa notte Jonathan aveva pensato che Dean non meritava niente, tantomeno entrare in chiesa. E avrebbe voluto bagnarlo con l’acqua santa e lavargli via le cicatrici e le malattie e i buchi sulle braccia, perché semplicemente lo amava. Se ne era reso conto e la cosa gli toglieva il respiro.

Dean era sempre più magro, e assomigliava sempre di più a quei mostri deformi dei cartoni animati che Jonathan guardava da bambino; l’eroina gli aveva scavato ferite nelle braccia e solchi violacei sotto gli occhi, e l’aveva reso il fantasma di sé stesso. Aveva l’impressione che la sua vita fosse iniziata in un giorno imprecisato d’inizio ottobre, sul suo letto della casa a Crown Point, in un angolo buio della camera, dove la finestra a ribalta proiettava una lama spessa di luce fredda e azzurrina.

Una sorta di dolore acido si era insidiato come un piccolo demone provvisto di unghie e denti nel suo stomaco, e sempre più velocemente lo rodeva; una volta Jonathan gli aveva detto che: « è come se fossi nel mio sangue, nelle mie vene, » e nei rari momenti di coscienza Dean pensava che quello stesso sangue di cui Jon aveva parlato era diventato sangue infetto, sangue sieropositivo, ma soprattutto sangue marcio di dolore e di odio.

Il giorno che si videro Dean era rannicchiato in un angolo con le braccia strette attorno alle ginocchia, e sembrava volesse tenere insieme dei pezzi destinati a sgretolarsi; Jonathan l’aveva guardato a lungo, amandolo per i lunghi istanti di uno sguardo, e pensando che nonostante tutto Dean non avesse mai fatto niente per lui, se non fargli sapere che quella loro esistenza doveva in qualche modo essere terribile, e che entrambi avevano un pena da scontare.

« Jon. Aspetta un attimo, » aveva biascicato Dean, riparandosi gli occhi da un improvviso raggio di sole filtrato dalle vetrate, « quella ragazza ... quella ragazza con la lettera... » aveva cercato di spiegare, senza ricordare di lei né il viso né il nome; « perché non – »

« Quale ragazza, Dean? » lo aveva interrotto lui, freddamente, « quale ragazza? »

Dean gli aveva rivolto un’occhiata disperata e immediatamente dopo aveva sporto la testa su un lato e – in ginocchio per terra – aveva iniziato a vomitare. Jonathan aveva stretto le labbra in una smorfia di disperazione e disgusto insieme.

« Cristo santo, » aveva mormorato, dimenticandosi della chiesa e della croce insanguinata che sembrava fissarlo dall’altare, « che cazzo sei diventato, Dean. »

Jonathan si era infilato le mani in tasca ed era uscito dalla chiesa con le spalle curve, avvilito, una lacrima che gli percorreva il viso già umido e si congelava sulla sua guancia destra. Aveva pensato un poco ad Harriet.

E poi al suo primo amore. Sentiva come se due immense mani provviste d’artigli stessero scavando nella parte alta del suo petto, poco sotto la gola. Un pianto colmo d’ansia, di disperazione, di rabbia e d’amore – d’amore – gli montava dentro con la forza di un uragano.

*

Intanto Harriet stava vivendo la sua catarsi. Da bambina le avevano spiegato che a un certo punto della loro umile esistenza da bruchi, questi si sarebbero costruiti un bozzolo nel quale un giorno avrebbero ricevuto le ali.

Quella stessa bambina che al tempo portava i capelli in due treccine rosse, si era sempre chiesta come sarebbe stato, addormentarsi e poi svegliarsi stupendi e capaci di volare – e non importava della vita, non importava niente! Harriet sapeva che quelle farfalle non avrebbero mai rinunciato alla trasformazione (alle ali!), neanche se fosse dato loro di sapere il giorno e l’ora precisi (e così vicini) della loro morte.

Pensava infatti che nella vita non fosse possibile rinunciare a nulla di tanto meraviglioso, quasi ogni creatura sulla terra fosse naturalmente portata ad accettare i propri cambiamenti con il ricordo sbiadito di una consapevolezza che offre mille strade, mille possibilità, e invita a percorrerle tutte – tanto c’è tempo.

Harriet Davies credeva fermamente nel timshel della Bibbia. Il “tu puoi”, del resto – senza accezioni americane – era la sua filosofia di vita. Solo che non era il “tu puoi” del: tu puoi in questa vita. Era piuttosto qualcosa come: puoi, sempre, nell’eternità spaventosa che gocciola dalle lancette dell’orologio del tempo sconosciuto, nell’eternità della tua esistenza.

Pensava che come la sua, di vita, pure quella dei bruchi-farfalle fosse un cerchio. Tutto lo era. Di tanto in tanto Harriet si chiedeva dove sarebbe finita, cosa sarebbe successo quando finalmente fosse riuscita a chiudere il suo cerchio.

Certi giorni, pensava di poter ricominciare, e continuare così, in eterno, percorrendo cerchi sempre più ampi e spirituali, pieni di luce, metafisici, immensi, fino al Nirvana delle menti libere e delle farfalle.

Altri giorni la morte sembrava appoggiarsi come una vecchia stanca alla sua vita – e la infettava, la sporcava, come un carico pesante e scuro, che pure quando lo appoggi a terra lascia i segni della cenere e dell’inchiostro sulla pelle diafana.

Per Harriet la morte era un peso. Altro che immagini di fantasmi neri che ti inseguono senza pietà, nella breve o lunga strada della tua vita; in quelle immagini la morte è provvista di ali, l’uomo di due misere gambe.

Pensava invece che se l’uomo non può avere qualcosa in più di due gambe, la morte deve averne una. Stringeva i denti e sorrideva. Altro che ali.

« Dio santo, Harry si può sapere che stai combinando in questa stanza? Cosa sono tutte queste carte di merendine? E quei jeans? Se non li indossi mettili a posto! »

« ... scrivo. Sto scrivendo un romanzo, mamma. »

« Non dirmi che non sono ancora storie su quelle tue teorie filosofiche! Dai, amore, fa’ un po’ di compiti. Io fra mezz’ora esco a comprare la carta da forno. Vieni con me? »

« No. Ti ho detto che sto scrivendo. »

Quando poi sua madre era uscita, Harriet si era alzata dal letto e si era avvicinata alla finestra. Aveva avuto una piccola vertigine e si era appoggiata al davanzale.

Fuori, tra le case di Crown Point e gli alberi e le strade, una nebbia bianca e densa aveva reso il mondo esterno un insieme di ombre sbiadite, di luci flebili, senza contorni.

Harriet aveva posato la fronte contro la finestra. Aveva respirato il freddo. Il calore della sua pelle aveva appannato il vetro, e per la prima volta dopo tanto tempo si era sentita felice. Al posto giusto nel momento giusto.

Non mi perdonerà mai per avervelo raccontato, sapete? Era un momento così intimo, per lei, uno di quei momenti della vita di un uomo che mai vengono raccontati, perché non possono essere capiti da nessuno se non da chi li ha vissuti.

Harriet aveva trovato la chiave che apriva il cassetto segreto dei ricordi della sua infanzia, le chiare immagini del suo futuro, quel minuscolo varco nel Grande Cerchio, che le aveva donato ciò che di più grande si può ricevere: la libertà.

Aveva le guance bagnate dal vapore acqueo che si era creato sul vetro, quando aveva iniziato a piangere.

Sentiva che il suo spirito si era innalzato a una dimensione superiore, e non riusciva a smettere. Le sue lacrime avevano scaldato il freddo dei giorni di novembre di Crown Point, dell’Indiana, degli Stati Uniti e del mondo intero.

Aveva ripensato alla farfalle. Non solo loro ricevono le ali.

 

Is that the best that I can do? As I watch as your head turns full circle

 

Se Dean fosse stato un po’ più come Jonathan forse si sarebbe salvato. E invece prima che giungesse la metà di novembre, già aveva deciso di iniziare a scavarsi una fossa, perché anche lui – come Harriet – immaginava la morte a mo’ di fardello, come una bestia scura che ti si aggrappa alla schiena e non ti lascia andare.

Alla fine aveva acconsentito di entrare in un centro di disintossicazione. Cioè, una mattina d’inizio novembre si era trovato là dentro senza sapere come ci fosse finito.

Sentiva di non meritarlo, comunque; che diritto aveva Jon di spedirlo dritto dritto in un girone dell’inferno? Il primo giorno aveva lottato immerso in un bagno di sudore freddo, nell’oceano del suo lettino d’ospedale.

Il secondo giorno i morsi e crampi dell’astinenza l’avevano piegato sino a renderlo un burattino nelle mani del dolore.

Il terzo giorno l’autunno nell’Indiana l’aveva colto nel pieno del suo candore abbacinante, l’aveva accecato, gli aveva tolto la voce, l’udito e il respiro e cercava di carpirgli anche l’anima.

Il quarto giorno aveva pianto sangue, la febbre l’aveva bruciato, Dean – come tutte le Alice di questo mondo – si era fatto tagliare la testa dalla Regina di Cuori e l’aveva perduta.

Poi il quinto giorno era successo qualcosa di speciale: Jonathan, nel suo piumino da discount e vecchi jeans, era andato a trovarlo. Si era seduto in qualche punto imprecisato oltre i confini del suo letto, e se solo Dean fosse riuscito a vedere, ancora, avrebbe visto qualcosa di terribilmente simile all’amore, nel suo sguardo.

« Vaffanculo! » aveva sbraitato invece con la sua voce rasposa e quelle ultime forze che gli rimanevano.  Jonathan aveva guardato attentamente Dean, quel pupazzo spezzato che non conosceva, e aveva quasi provato il bisogno di stringersi a lui, e di far combaciare quelle sue sincere scintille d’amore con gli spigoli duri che le ossa sporgenti formavano sotto la sua pelle.

Piano, gli aveva accarezzato la fronte, e aveva atteso come un uomo che sfiora il capo di un lupo di essere sbranato.

« Ti amo ti amo, » aveva confessato velocemente, incespicando sulle sue stesse parole, e insieme ritraendo la mano.

Stupendolo ancora una volta, Dean aveva accettato la sua carezza. « Portami via, » aveva biascicato con un tono debole e lamentoso che non gli era mai appartenuto, da bambino, e si era rivoltato come una farfalla impigliata nella ragnatela di quegli ultimi attimi di lucidità sofferente.

Jonathan aveva chiesto un antidolorifico; e aveva fatto male, lasciarlo andare. Più di quanto avesse mai immaginato.

Il sesto giorno Dean era rimasto seduto in un angolo del suo letto, e quell’odio che nei giorni precedenti aveva covato nei confronti di Jonathan era esploso come una bomba ad orologeria. La prima canna a dodici anni, sul retro della scuola a Fort Wayne. La violenza dei suoi primi amici. Le botte, gli aghi, le lamette. Tutto quel sangue intimo e sporco. L’uomo con cui era stato per la prima volta a quindici anni. Le bugie di sua madre. Per ultima Harriet, Harriet che – sì, Harry, ecco come si chiamava! – era entrata a casa sua e gli aveva fatto vedere la lettera bianca che aveva consegnato a Jonathan. Non aveva scritto altro che un paio di preghiere di essere salvato, e lui neanche l’aveva letta. Harriet dai capelli rossi e il sorriso scaltro. Tutto quel sangue.

In silenzio.

*

Quello stesso pomeriggio Jonathan era tornato a casa drogato di un dolore che aveva aperto tagli profondi lungo le pareti della sua anima, e un giorno quei tagli sarebbero diventate cicatrici sperdute, un giorno sarebbero state il ricordo del tempo in cui erano ferite aperte.

Ricordate il ragazzo sulla East End? Quel ragazzo carino con le gambe lunghe e le spalle piegate, il viso rigato di lacrime, e il fascicolo in mano, prima di Harriet, della storia di Dean, prima di tutto.

Simon e Garfunkel cantavano del pugile che ricorderà sempre dei guantoni che l’hanno spinto a terra, la sua rabbia e la sua vergogna, ma chi combatte resta, pure con tutte le sconfitte che ha subito alle spalle.

Quel pomeriggio Jonathan aveva pianto silenziosamente, con una strana dolcezza e malinconia nel cuore, ma poi si era asciugato le lacrime, stringendosi nel silenzio morbido della sua camera da letto, i The Cure alla radio.

Non importava quanta strada avesse percorso, quanta ce ne fosse ancora da percorrere. Solo, una piccola parte di lui pregava per dimenticare Dean, per soffrire un po’ meno.

Il pensiero di Harry lo travolse improvvisamente. Avrebbe dovuto parlare con lei, alla fine. Per chiudere il cerchio, no?

*

Quando Dean era morto, né Harriet né Jonathan l’avevano saputo. Non subito, almeno. Sedevano uno accanto all’altra sulla panchina davanti alla chiesa, e lui teneva il braccio destro stretto attorno alle spalle di lei,in una sorta di ultimo abbraccio triste e confidenziale, mentre la testa della ragazza era appoggiata alla sua spalla.

« Davvero hai scritto una storia? »

« Davvero, sì. Con la fine che vuoi tu, Jon. »

« Non chiamarmi così, per favore. Non esiste una fine che voglio io. »

Harriet gli aveva rivolto un’occhiata disperata: « Certo che esiste! Dimmi quello che sai, quello che vorresti sapere ... scriverò tutto. Tutto quello che vuoi. Io ti voglio bene, Jonathan. »

Lui aveva pensato: io ti amo, Jonathan, che era stata la prima promessa di Dean. E aveva lottato con sé stesso per non mettersi a urlare.

« Anche io, Harry, » aveva mormorato, alzandosi. Perché alla fine di tutto, ad alzarsi era sempre Jonathan. Dopo catarsi e storie e sofferenze. Era sempre lui, alla fine.

Le aveva teso la mano con dolcezza, come lei gli aveva teso il fascicolo giorni prima. « Ma tu non sai niente, davvero. »

Dean era morto alle 10:52 del 15 novembre, nel suo letto del centro di disintossicazione, e quando Jon era andato all’obitorio (non ci sarebbe stato alcun funerale per Dean Bowden), i medici gli avevano detto che aveva buttato giù due blister interi di antidolorifici con il latte del mattino.

Però non aveva voluto vedere il suo cadavere. Dean era già morto, il dolore se l’era portato via tanto tempo prima. Certe notti, il fantasma di un bambino di Fort Wayne sarebbe sceso tra le ombre della East End, e l’avrebbe trovato steso sul divano del suo appartamento, segnato ancora dalle cicatrici di un amore, e dal ricordo di un ragazzo che scorreva nelle sue vene, col sangue, lento e così sfacciatamente umano.

 

You appear even tempered thought your looks will deceive/ And the sparks are always flying ‘cause you drink for relief

With the heart of a child and wit of a fool/ It’s wonder I didn’t try to build a wall around you

 

Negli anni seguenti, Harriet si era chiesta più volte perché Jonathan non avesse tentato di tenere qualcuno come Dean fuori dalla sua vita, finchè non aveva compreso la loro sincera sofferenza e aveva aperto gli occhi sulla sua, di vita, dimenticando per un po’ quelle inventate dei suoi romanzi.

Ricordava un passo de La Valle dell’Eden, in cui Lee diceva a Cal: « Sei incantato davanti al tragico spettacolo di Caleb Trask. Caleb il magnifico, Caleb l’unico. Caleb la cui sofferenza dovrebbe avere il suo Omero, » e si era accorta che l’immagine della giovane Harriet Davies combaciava perfettamente.

La sua pistola non aveva sparato, e non aveva pubblicato nessun romanzo, ma avrebbe voluto farlo leggere a Jonathan. A saperlo prima, l’avrebbe scritto nel suo testamento.

Si era sposata con un assistente universitario di origini irlandesi, Patrick, e se pure non gliel’avrebbe mai confessato, era subito stata attratta da lui perché aveva gli stessi occhi di Jonathan. E lo stesso sorriso buono. Erano andati ad abitare a Dallas, in Texas, in una graziosa villetta a due piani.

Da allora aveva avuto milioni di lettori, centinaia di amici e conoscenti, ma non figli. E in un torrido luglio del Sud era partita per un viaggio in Messico insieme a un paio di vecchi amici dell’università. Si erano fermati una settimana ad Acapulco, dove il grande vento porta in braccio milioni di anime e le culla nel cielo limpido e polveroso, a qualche metro dall’oceano. Non aveva mai visto l’oceano, lei.

Ma essendo di natura portata ad amare tutte le cose immense, se n’era innamorata. Aveva scritto un paio di lettere a Patrick, in quella settimana, e in una si scusava ridendo per non averlo salutato come si deve prima di partire, e che avrebbe rimediato presto, subito dopo la visita alle piramidi azteche.

E invece Harriet Davies era morta a trentaquattro anni, morsa da un serpente velenoso. Il veleno aveva impiegato solo qualche istante a fare effetto e se n’era andata con la stessa velocità di una farfalla.

Patrick non poteva saperlo, ma Jonathan avrebbe immaginato che se ancora conosceva bene la sua amica, quella era proprio l’unica morte che mai avrebbe accettato: a metà del suo cerchio, nel pieno della sua vita, senza preoccupazioni, senza la morte che si avvicina, senza conoscere la vecchiaia. E poi ... dio,volare era stato meraviglioso.

*

E così siamo giunti alla fine, caro lettore, ma non alla chiusura. Quella spetta a te.

Jonathan Lynch appoggia un garofano (il chiodo dell’amore) sulla tomba di Harriet, perché alla fine aveva fatto in tempo rivelare a suo marito un ultimo desiderio: essere seppellita lungo la East End di Crown Point. Avrebbe anche voluto morirci, ma dato che le cose non sono andate così ...

Sospira, scostandosi una ciocca un po’ più lunga di capelli dalla fronte. Cara Harriet dai capelli rossi e il sorriso scaltro.

Non la vedeva da ... quanto tempo? Sedici anni? Già. Avrebbe voluto scriverle, una volta, ma non sapeva il suo indirizzo. L’ultimo anno di high school si erano frequentati tanto, lui le aveva insegnato a suonare la chitarra e lei lo aveva portato al luna park, a San Francisco, a pattinare sul ghiaccio, e gli aveva rinsegnato a ridere.

Harriet, invece, aveva inciso nella sua testa l’indirizzo di Jonathan (che non potendo chiamare Jon era diventato Johnny) ma non gli aveva mai scritto. Non c’era un motivo preciso. O forse sì, ma si è portata il segreto nella tomba. E poi si era promessa di inviargli una cartolina dal Messico, con un “Qui Harry D, Johnny!” e uno smile che fa l’occhiolino.

Il fantasma di Dean era rimasto fra loro per molto tempo, come un velo d’ombra che di tanto in tanto scendeva sul viso di Jonathan e nascondeva Harriet e le sue chiacchiere e i suoi sorrisi.

Ma poi era iniziato a sbiadire. Così, senza nessun preavviso; Jonathan aveva continuato a studiare, suonare, fare i soliti controlli medici e allestire le sue prime mostre fotografiche, quelle che l’hanno reso famoso. E Dean se n’era andato. Immagina che lì accanto alla bara di Harriet sia seppellito anche lui.

« Chi era? » chiede Ross, accennando all’iscrizione sulla lapide.

Jonathan appoggia la testa sulla sua spalla, sorridendo stancamente. « Una cara amica. L’ho conosciuta quando Dean ... sì, beh, non te l’ho mai detto. È morta due anni fa, comunque. »

Ross gli cinge la vita con un braccio. « Quanti segreti, » ridacchia, cercando il suo viso per un bacio; « su, dai, adesso andiamo. » Jonathan, stupito, accetta il bacio e si volta, così grato a Ross che non ha mai appesantito le sue croci.

 

And I watch as your head turns full circle

                                 Yeah I watch as your head turns full circle

                                                                  Yeah I watch as your head turns full circle

  
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