Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Chemical Lady    08/11/2016    2 recensioni
"La tradizione vuole che i soldati che muoiono oltre le Mura diventino stelle" aveva iniziato lui con quel suo tono che aveva un che autoritario anche mentre suonava rassicurante, facendole alzare gli occhi sulla volta celeste con un cenno. "Il loro ardore non smetterà mai di risplendere e illuminare il cammino di coloro che verranno dopo. Per ogni vita che si spezza, si accende una luce."
Lei sapeva che quello era un contentino, una storia per bambini, ma per il cielo, la forza che le aveva dato quel discorso l'aveva rinvigorita. Suo fratello sembrava crederci sinceramente. Una tradizione della Legione, della loro gente, di quelle persone che conoscevano il dilaniante dolore della perdita come lo conosceva lei. Nina non aveva mai capito cosa significasse davvero appartenere a qualcosa, prima di tornare dalla sua prima missione e scorgere sul volto dei compagni lo stessa amarezza che provava lei. Ma anche la stessa forte determinazione nel voler davvero credere che, quelle luci, non si sarebbero mai spente o avrebbero smesso di vegliare.
[[ Levi x OC || Un sacco di OC, like un sacco davvero]]
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Hanji, Zoe, Irvin, Smith, Levi, Ackerman, Nuovo, personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Wenn die Sterne leuchten.

 

 

 

 

 

Capitolo Dodicesimo.

 

 

 

In these coming years
Many things will change
But the way I feel
Will remain the same

https://www.youtube.com/watch?v=YSWIfX_MNCY

 

 

Anno 846

Territori di Maria.

 

 

Quando era una bambina, Nina passava le sue giornate ad esplorare ogni singolo anfratto della corte di casa. Crescendo, iniziò a percepire soffocanti quelle pareti domestiche, al punto che prese ad avventurarsi di qualche passo- sempre uno in più- lungo la via che conduceva verso il forno di suo padre. Non era mai sola però; Rielke non abbandonava mai il suo fianco e, essendole coetaneo ma di qualche mese più giovane, le si aggrappava al braccio destro piagnucolante, sostenendo ogni volta che avrebbero pagato le conseguenze di quella fuga una volta fatto ritorno.

E succedeva. Ogni volta.

Non vi era avventura che non veniva sventata da sua madre o da Alma. I due bambini venivano puntualmente puniti, messi in castigo nelle loro stanze, rimproverati perché era un mondo pericoloso, quello che si ergeva al di là del loro giardino. Quel cancello nero in ferro battuto, per Nina, aveva rappresentato la prima barriera, seguita poi dalle Mura, ed esso pareva esser stato posto ad hoc per nasconderle la vista del mondo. Quel muro, alto circa due metri e mezzo in mattoni rossi e calce era una sfida di fronte alla quale, quella bambina dagli occhi grandi e liquidi e i capelli perennemente arruffati, non aveva intenzione di chinare il capo.

Adelaide, infatti, non era mai riuscita a scoraggiarla, mentre suo padre aveva sempre commentato con un certo divertimento che Nina era sufficientemente furba da farla franca con sua madre, di conseguenza lo era anche abbastanza per tornare a casa.

Quando si sentì grande a sufficienza, Nina iniziò a percorrere il marciapiede in senso opposto, sempre più lontano dal forno e dalla palazzina dei Müller, lontano dal centro del distretto e verso i cancelli che conducevano all’interno del muro Sina.

Lì, al limitare del terreno edificato, sorgeva un piccolo cimitero dalle cappelle fatiscenti. Sarebbe potuto sembrare abbandonato, un po’ per le date incise sulle lapidi rovinate dalle intemperie, un po’ per il contesto grigio che l’avvolgeva, se non fosse stato per la cura con cui veniva trattato. Artefice di quel lavoro era un uomo, cieco da un occhio, che spaventava i bambini curiosi che si accalcavano attorno al cancelletto arrugginito o cercavano di spiare, oltre il limitare della siepe bassa, quello che ormai era divenuto il protagonista di racconti e prove di coraggio.

Tutti lo temevano, eccetto Nina.

Lei l’aveva avvicinato incuriosita e dal loro primo incontro, lui le aveva sempre regalato qualcosa. Non di materiale, no.

Storie, racconti di paesi lontani, dalla parte opposta delle mura e viaggi lunghi e straordinari, da nord a sud.

Aveva vissuto una vita piena, quell’uomo che mai aveva rivelato il suo nome, eppur si sentiva così solo da cercare un po’ di consolazione nelle sue conversazioni con una bambina di otto anni.

Una volta, mentre raccoglieva insieme a lui le foglie cadute dei faggi, poco prima di veder arrivare sua madre con un diavolo per capello, lui le disse una frase che sarebbe rimasta per sempre indelebile nella sua memoria. Essa fu una risposta semplice, eppur efficace, al perché lavorasse come becchino dopo tutte le cose che aveva visto.

“Gli esseri umani si distinguono dagli animali per la cura con la quale seppelliscono i loro morti, giovane signorina. L’aver un cuore porta ognuno di noi a riservare un trattamento speciale a questi involucri vuoti e insensibili. Perché lo facciamo? Perché abbiamo amato e non possiamo smettere di farlo anche quando tutto è finito.”

Non aveva più incontrato quell’uomo, né aveva avuto modo di sapere la sua sorte.

Quell’insegnamento, però, se lo sarebbe portato con sé per sempre.

 

Un insegnamento che, alla luce di ciò che aveva visto, non poteva che tornarle alla mente.

Non poteva smettere di riflettere sul fatto che, meccanicamente, Drei stesse cercando di dare una degna sepoltura a Eins. Aveva continuato a solcare il terreno fino a distruggersi le mani, sotto agli occhi attoniti della legionaria, emettendo versi disumani e colmi di dolore, fino a che del mostro riverso al suo fianco non era rimasto più nulla.

A quel punto si era immobilizzato, senza dar segno di voler esternare alcuna emozione e s’era alzato, barcollando per la piana come un’anima in cerca di una compagnia affine, costringendo Nina a scendere da quel tetto e tornare in sé.

Non aveva riportato nemmeno una riga dell’accaduto sul suo quaderno.

Non avrebbe saputo come farlo e poi, senza dubbio, non avrebbe cancellato dalla mente nemmeno un dettaglio dell’accaduto. Era quindi superfluo.

Cosa avrebbe dovuto pensare? Che conclusioni trarne?

Drei non era un anomalo, anzi. I suoi atteggiamenti erano sempre rientrati nei parametri di norma che aveva studiato in accademia e poi osservato sul campo; non era particolarmente curioso, né si avventurava troppo vicino alla borgata.

Quindi? Cosa pensare?

Nina non poteva pensare che ciò che aveva visto fosse l’esternazione di un sentimento forte quale il dolore. Non poteva farlo perché ciò avrebbe indicato che i giganti potevano provare dei sentimenti. Ciò avrebbe comportato una serie di complicazioni e domande sul piano morale, alle quali lei non voleva pensare nemmeno per un istante.

I giganti sono mostri.

I giganti mangiano le persone.

E loro dovevano capire la loro origine per poterli annientare tutti.

 

Se da una parte c’erano questi pensieri a levarle il sonno, dall’altra c’era invece la testimonianza di Daniele Vitalevi. Non c’era molto da dire, perché lei non era una linguista e la maggior parte del trattato era pieno di tecnicismi filologici che lei poteva capire solo parzialmente. Sul piano storico, invece, era tutta un’altra musica.

Qualche paragrafo illustrava la condizione di quello che Vitalevi chiamavano l’Impero Germanico durante una serie di guerre di conquista lunghe e deterioranti contro gli Stati Iberici e Franchi Uniti. Parlava della vittoria del medesimo sul Regno d’Italia e della sua annessione all’Impero. L’esigenza di una lingua comune – quella parlata all’interno delle Mura, la loro lingua- era diventata impellente proprio per permettere a coloro che vivevano sui terrori occupati di comprendere il volere dei nuovi dominatori. 

Nell’ultimo capitolo c’era una sorta di premonizione dell’autore circa le battaglie in corso a lui contemporanee con il Regno Unito, nella quale Vitalevi spiegava il grande contributo che i territori britannici avrebbero portato all’Impero, soprattutto in vista dell’epilogo della guerra. Nel brano si parlava anche di un progetto scientifico portato avanti per l’utilizzo di nuove armi e attrezzature belliche, ma il tutto era stato velatamente celato dietro a frasi vaghe.

Purtroppo, lo scrittore per quanto zelante, dava tutto per scontato, come se il lettore avesse già di per sé un quadro storico completo e quel trattato dovesse solo spiegare i motivi per cui si era vista necessaria una lingua e, in modo particolare, come essa era stata creata. Nina era arrivata alla conclusione che quelle dovevano essere le civiltà a loro precedenti; prima delle Mura e della venuta dei giganti esistevano tanti popoli in guerra fra loro e quello era un dato di fatto.

Come poteva dirlo? Le Mura non erano mai citate. Nemmeno una volta.

Non vi era menzione nemmeno dei giganti. Si parlava di armi, soldati e stanziamenti.

Porzioni di mondo così ampie da sembrare sconfinate.

Un mondo libero da ogni barriera, eppure grigio e distrutto dalle guerre logoranti.

Un Paradiso.

Quando arrivò all’ultima pagina, Nina lesse che essa si concludeva con la citazione di una poesia di un tale Ilya Welleröither, in una sorta di augurio alla pace, in mezzo a così tante considerazioni sulla guerra;

 

‘La vita è oggi, la sola vita di cui noi possiamo essere certi.

Vivi cercando di goderne al massimo delle tue possibilità’.

 

Seduta sulla solita staccionata, con il modulo ancorato ai fianchi e una mela nella mano, Nina guardava il sole tramontare lontano riflettendo su quella frase che, ad un occhio superficiale, sembrava quasi inopportuna.

Un saggio così elaborato non avrebbe dovuto lasciarsi andare a certi sentimentalismi, ma nelle note scritte qua e là a mano fra le pagine – che lei aveva intuito essere dell’autore stesso- le avevano fatto comprendere che dietro a tanto lavoro c’era anche l’esigenza di appartenere a qualcosa.

Lei aveva sentito quel bisogno spesso, nella sua vita. Daniele non doveva essere da meno.

Staccò con un morso un pezzo del frutto, sgranocchiandolo pensierosa, prima di notare con la coda dell’occhio che non era più sola. Con passo un po’ tentennante e per niente fiducioso, il cavallo che tanto le aveva dato pena nei giorni precedenti le si era accostato, annusandole rumorosamente i capelli e la spalla, attirato probabilmente dall’odore del frutto.

Lei lo guardò quasi divertita girarle attorno, allontanandosi solo per sorpassare la recinzione che si apriva qualche metro alla sua destra, notando anche che era una cavalla.

“Non mi dirai che dopo avermi presa in giro, vuoi anche da mangiare” le disse, spostando la mano che reggeva l’oggetto di interesse, facendo sbuffare l’equino che alzò di poco il capo, tirando indietro le orecchie. A Nina sfuggì una leggera risata di fronte a un nitrito risentito, forse sentendo addirittura il bisogno concreto di avere attorno un essere vivo che potesse a modo suo comunicarle qualcosa.

Qualsiasi cosa.

Era troppo tempo che se ne stava lì fuori da sola.

“D’accordo, hai vinto” disse alla cavalla, avvicinandole la mela e lasciando che lei iniziasse a morderla avidamente, ma senza strappargliela dal palmo. La giovane alzò una mano, accarezzandole il crine biondo annodato sulla fronte, prima di appoggiare si afferrare la testiera rotta, sfilandogliela dal muso per liberarla.

Quando finì di mangiare, la bestia non diede più nessun segno di interesse e si allontanò con pacata indifferenza, brucando un po’ l’erba di fronte a Nina, quasi come se anche lei cercasse un poco di compagnia.

Per poco, perché poi fu presa da un guizzo di vitalità che la portò a correre via, verso il campo.

Nina sorrise a quella scena, che rievocava in lei l’immagine più pura della libertà.

Forse era giusto che quella cavalla rimanesse libera, chissà quante cose orribili aveva visto servendo per la Legione. Meritava quei pascoli e quel silenzio. 

Con un saltello, scese dalla staccionata, tenendo in mano la testiera. Decisa a buttarla dietro a un cespuglio, le dedicò un’occhiata rapida. Doveva essere viola, un tempo, ma ormai era sbiadita. Nonostante ciò notò qualcosa nel rivestimento interno.

Ricamato in modo goffo, con i punti storti e irregolari di un giallo paglierino appena visibile, c’era un nome.

Lola.

Possibile che fosse il nome del cavallo?

“Questo sì che è strano…

Da quando era costume fra i soldati ricamare le testiere?

E se non fosse stata un cavallo della Legione? Impossibile.

Da quale altro luogo sarebbe potuta venire, se non dalle Mura?

 

Domande.

Solo domande a causarle una brutta emicrania e così tanti dubbi da levarle il sonno per mesi.

Si sentiva frustrata dall’assenza di risposte.

Ogni giorno un nuovo mistero si palesava.

Fino che punto sarebbe arrivata a confondersi?

 

 

 

Whether near or far
I am always yours
Any change in time
We are young again

Lay us down
We're in love

 

 

Anno 845

Giorni immediatamente successivi alla più grande sconfitta che l’umanità ha subito.
Il crollo del Muro Maria e la perdita delle terre interne alla prima cerchia.

 

 

 

Le grida, le lacrime e il panico lo investirono intaccando i suoi nervi messi già a dura prova, mentre con le mani tremolanti cercava di tener stretti i comandi del modulo per lo spostamento tridimensionale. I civili correvano persi attorno a lui, cercando di raggiungere il più velocemente possibile le porte di Trost, a qualche miglia verso nord rispetto al punto in cui lui e i pochi cadetti rimasti si trovavano.

Non era pronto a tutto ciò.

Doveva ancora completare il terzo anno di accademia, mancavano ancora un paio di settimane, eppure quel battesimo del fuoco gli era stato imposto impietosamente dalla Sorte e lui non aveva avuto modo di sottrarsi agli ordini diretti dei capitani della Guarnigione. Il muro Maria era caduto ormai da un giorno e mezzo, eppure l’opera di sgombro delle terre perdute non era ancora terminata ma anzi, procedeva sempre più a rilento. I villaggi posti a distanza rispetto i distretti erano ancora in parte popolati da coloro che, seppur spaventati, faticavano ad entrare nell’ottica che quelle case ora non gli appartenevano più.

Erano dei giganti e nessuno poteva porvi rimedio, nemmeno l’esercito intero o il re in persona.

Il pensiero di dover rinunciare alla propria vita, di doversi piegare di nuovo alla differenza schiacciante di forza che quei mostri avevano rispetto al genere umano era di certo la realizzazione più terrificante.

Impotenti, gli uomini non potevano far nulla se non scappare e cercare di sopravvivere, braccati come animali.

I soldati non riuscivano a contenere il panico che serpeggiava fra le loro file, figurarsi quello lacerante della popolazione civile. Gli ordini arrivavano frammentari, poiché chi doveva detenere il potere non riusciva a far fronte a quel gran dispiegamento di risorse umane. Il territorio su cui erano distribuiti era troppo ampio e ciò rendeva ancor più artificiose le comunicazioni. La Guarnigione e la Legione si alternavano in un costante avanzamento verso l’area da cui tutto aveva avuto origine, ovvero il distretto di Shigashina.

A quanto dicevano le voci, un solo gruppo però era riuscito ad arrivare abbastanza avanti da sparire completamente dal raggio di diffusione delle notizie: la Squadra Uno della Legione esplorativa, sotto le direttive di un soldato semplice di nome Levi, noto fra i militari perché aveva la fama d’essere invincibile già a quel tempo.

Loro non potevano ambire a così tanto.

Sarebbero stati fortunati a tornare a casa a fine giornata.

“Dobbiamo muoverci, rimanere fermi qui è un suicidio.”

Kaithen era atterrato a pochi metri da lui, sistemando i comandi del movimento nelle fondine, con lo sguardo perso di chi non sa cosa fare, ma allo stesso tempo è consapevole di non poter rimanere fermo con le mani in mano.

Lui l’aveva guardato in tralice, “Lutz e Claymore?” chiese con tono basso e dimesso, tenendo già la risposta. Essa non arrivò, sostituita da una negazione fatta col capo e gli occhi ben piantati sul pavimento.

Erano rimasti in due su una squadra di dodici reclute. Il loro leader era stato il primo a morire, divorato. Degli altri quattro, lui non sapeva nulla, solo che erano caduti per combattere una guerra che nemmeno gli esperti sapevano come vincere. “Ripieghiamo, allora.”

Non avevano più i cavalli.

Avevano peccato di presunzione, attaccando due giganti che incombevano su un gruppo di civili in fuga e non solo ci avevano rimesso in vite dei compagni, ma non s’erano nemmeno curati delle loro cavalcature, probabilmente rubate da qualche persona disperata in cerca di una fuga più veloce, o magari scappati a causa della gran confusione attorno a loro.

Nemmeno il destriero più addestrato poteva far fronte a quel caos. Persino loro, che di raziocinio dovevano averne per forza, non potevano impedire alle loro ginocchia di tremare e tremare ancora.

L’odore della paura era così intenso da coprire quello del sangue e loro ne erano impregnati.

Avevano chinato il capo, iniziando la loro lunga marcia verso nord, al seguito dei carri e dei civili che in massa muovevano verso la salvezza delle Mura. Lui, in prima persona, si era sentito impotente di fronte a quei volti sconsolati, atterriti quanto il suo. Si era sentito inutile, come se quegli anni in accademia non l’avessero preparato abbastanza per poter essere utile.

Si era ritrovato catapultato in quel mondo all’improvviso, si sentiva intorpidito e incredulo, come dopo il brusco risveglio da un incubo. Quello però non era un sogno e, se lo fosse stato, si sarebbe ritrovato ancora lontano dal poter riaprire gli occhi.

“Un gigante! Corre verso di no!”

“Moriremo!”

Le persone ripresero a correre spaventate attorno a lui, scansandolo e urtandolo, facendo ricadere sulle  sue spalle l’onere di dover fare il suo dovere, seppur con meno gas che esperienza. Strinse i comandi fra le mani e gliene sfuggì uno mentre accanto a sé sentiva Kaithen pregare le Dee delle Mura di risparmiarli.

Forse dovevano averli ascoltati perché, mentre lui stava ancora raccogliendo goffamente il comando, una figura si contrappose al sole, arrivando da non si sa dove e abbattendo quel gigante con un unico taglio netto alla collottola. Il tonfo fu forte e la polvere che si sollevò gli impedì di vedere bene per qualche interminabile secondo.

Quando il polverone si diradò, in piedi accanto a quella carcassa che stava man mano svanendo in un intenso fumo grigio, c’era una figura magra, aggraziata. Stava sistemando le lame al loro posto, senza staccarle dal comando direzionale mentre, sulle sue spalle sventolava una mantella. Le Ali della Libertà.

“La Legione” sussurrò con un fil di voce Kaithen, “Siamo salvi! Per le Mura, siamo salvi!”

Lui però non aveva nemmeno un fiato da esalare. Pietrificato, mise meglio a fuoco la salvezza, notando una treccia di lunghi capelli biondi caderle sulla schiena. Lo scalpitio dei cavalli arrivò alle sue orecchie immediatamente dopo e nel suo campo visivo apparvero altri legionari.

Una donna si avvicinò alla giovane che aveva schiantato il gigante, porgendole le briglie di un destriero dal manto marroncino, mentre un altro dai lunghi capelli rossi conduceva un carretto sul quale sedeva un quarto uomo dai capelli argentati e gli occhi pervinca.

“Il campo base è stato spostato oltre la collina.”

“Lo so, Nifa. Andate là e dite ad Hanji che io ho scelto di avanzare. Devo provare a raggiungere Levi, è partito da un paio di ore e non possono essere andati molto lontani.”

L’uomo sul carro prese la parola “Non puoi andare da sola” pregò la bionda con tono supplice, mentre questa prendeva due bombole che l’ometto argentato le stava porgendo senza opporsi, contrariamente ai colleghi.

Lei le sostituì, notando solo in quel momento le due reclute “Non andrò sola” concluse, facendosi lasciare altro gas. “Ora andate, il paese di Pertz è qui vicino e a quanto ho sentito dire dall’avanguardia della Guarnigione non hanno ancora iniziato le evacuazioni. Ci sarà bisogno di tutti i legionari possibili. Io starò bene, lasciatemi un cavallo in più e farò tutto ciò che devo per trovare mio fratello.”

“Pascal, dille qualcosa tu.” La piccola donna che si chiamava Nifa non scese da cavallo, limitandosi a guardare la collega contrita.

L’uomo sul retro del carro parve pensarci “Considerando la capacità tecnica di Nina e la sua resistenza fisica, ha circa il quarantacinque per cento di possibilità di arrivare viva a Shigashina. È comunque il doppio rispetto alle nostre aspettative di sopravvivere alla fine della giornata.”

“Consolante.”

Fabian, Nifa. Starò bene. Ho bisogno però che voi andiate ora, riportate ad Hanji ciò che vi ho detto.” Non attese di vederli rimettersi in marcia. Prese le quattro bombole legate fra loro con una mano e le briglie delle due bestie con l’altra e si avviò verso le due reclute, portando gli oggetti senza la minima fatica. “State bene?” domandò, guardandoli scattare entrambi sull’attenti, come risvegliati da un torpore all’improvviso. Depose le bombole di fronte ai due giovani.

Kaithen Hess, ottava squadra del  novantanovesimo corpo di addestramento reclute” recitò il morettino dalla pelle olivastra, sciorinando quelle parole con lo sguardo falsamente sicuro e la mano ben stretta  a pugno sul petto. Non sentendo la voce del compagno, si affrettò di aggiungere “Lui è Oluo Bossard.”

L’ufficiale li guardò attentamente, prima di far segno loro di mettersi a riposo “Io sono il sergente Nina Müller della Legione esplorativa e sto per farvi una domanda molto semplice” passò lo sguardo nel loro. Oluo notò subito che aveva gli occhi diversi e, non appena lo realizzò, avvampò, scostando subito i suoi sul manto erboso. “Sto andando a sud e avere un paio di mani in più potrebbe servirmi. Non vi costringerò a farlo, quindi scegliete se tornare indietro con questo cavallo o avanzare con me.”

I due giovani si scambiarono uno sguardo.

Poteva sembrare un azzardo, ma anche rischiare di tornare e abbandonare un ufficiale non era saggio.

Si  munirono così di coraggio, afferrando le briglie del cavallo subito dopo aver sostituito le bombole con quelle piene.

 

Oluo non riusciva a muoversi né a parlare. Tutto ciò che poteva fare era fissare con gli occhi spiritati quel poco che rimaneva di Kaithen, un braccio e una porzione di spalla, caduti dalle fauci del gigante che ora stava dissolvendosi a pochi metri da lui.

Di tanto in tanto alternava quella macabra visione a quella del sergente Müller, seduta su una radice d’albero e circondata da garze sporche del suo stesso sangue, mentre cercava inutilmente di medicarsi la gamba solcata da un lungo taglio.

Era successo tutto così in fretta da rendergli impossibile la comprensione di come erano arrivati a quel punto, soli in mezzo al nulla, con un solo cavallo e con il soldato più abile fra i due ora privo dell’attrezzatura per combattere.

Non era andata bene per niente.

Avevano compiuto poche miglia quando due di quei mostri erano apparsi sulla loro strada, sbucando dal bosco e cogliendoli impreparati. Il più rapido aveva afferrato il cavallo del sergente nel tentativo di divorare la donna e uccidendo sul colpo l’animale, prima di venire abbattuto dalla bionda che s’era alzata a mezz’aria appena in tempo per schivare l’enorme mano. L’altro, invece, era stata premura dei due cadetti. Oluo era riuscito a scendere da cavallo, trovando appoggio su un albero alto, mentre l’amico si batteva, colpendo la collottola del mostro ma non riuscendo a reciderla. Il sergente, venuta in soccorso del ragazzo, si era scontrata con lui e Kaithen, che brandiva in modo errato le lame, l’aveva ferita, aprendole il taglio sulla coscia.

Mosso da qualche strano istinto di sopravvivenza, Oluo aveva agito. Aveva abbattuto il gigante con un colpo secco, pulito, come mai era riuscito a fare con i fantocci durante l’addestramento.

A grandi linee, questo era ciò che il ragazzo riusciva a ricordare, ma fra un’immagine e l’altra intercorreva un oceano di domande. Come ci era riuscito? Ad esempio.

“Ti devo la vita.”

Oluo la guardò, come se l’ufficiale avesse appena detto di aver visto piovere rane poco più a nord “…Cosa?”

“Mi hai salvata, Bossard” ricantò lei, prendendo la borraccia e versandovi dentro delle erbe triturate, depurative, al fine di disinfettare il taglio “Se non ci fossi stato tu a prendermi, sarei sicuramente morta nella caduta.”

Aveva fatto anche questo?

“Non so cosa sto facendo” la voce uscì più alta di qualche ottava, seppur appena sussurrata. Negli occhi aveva ancora lo stesso terrore di prima, come se quella miserabile vittoria personale si fosse rivelata del tutto ininfluente per lui “Non so cosa fare, sono morti tutti. Sono morti tutti.”

Nina abbassò lo sguardo sull’arto leso, prima di sospirare piano. Cosa bisogna dire ai cadetti che vedono per la prima volta la morte negli occhi?

“Il tuo amico non era pronto” iniziò, cercando di mantenere un tono morbido, da madre, mentre versava un po’ di liquido su una garza. Prese a tamponare piano la linea lunga della ferita, che arrivava sin quasi all’attaccatura della gamba col busto, estendendosi da pochi centimetri sopra al ginocchio. Fortuna che non era profonda o l’avrebbe uccisa “Era determinato, magari. Però non era pronto. Non sapeva impugnare bene le lame e ora io ho le cinghie rotte e non posso più usare il modulo per lo spostamento e quindi combattere. Tu, invece, non sei determinato affatto, ma quel colpo non è stato niente male” gli sorrise, un po’ pallidamente a causa del male e della ben poco consolante situazione nella quale si trovavano, ma riuscendo a farlo sentire un po’ meglio “La paura ti tiene vivo, Bossard. In qualsiasi corpo finirai - perché oggi tu tornerai a casa-  ricordati sempre di cosa è successo qui fuori. Non sottovalutare le tue potenzialità, sei una recluta, sai cosa fare in situazioni di pericolo molto meglio di me, che dell’addestramento ricordo poco o nulla.”

Una folata di vento spettinò i capelli riccioluti di Oluo, spostandoli sulle spalle. Quella donna era forse la persona più forte che avesse mai incontrato. Aveva detto di essere la sorella del nuovo Comandante della ricognitiva e che stava cercando in ogni modo di raggiungerlo. La paura e l’orrore dovevano paralizzarla nel saperla lontana da lui, senza sue notizie dal crollo del Muro Maria, eppure manteneva la calma e il sangue freddo. Perdeva addirittura del tempo a consolare un miserabile come lui.

Doveva rimettere insieme se stesso e aiutarla, perché lei poteva anche essere stata salvata da lui, ma Oluo grazie a lei aveva forse compreso quale sarebbe dovuto essere il suo posto.

“Cosa posso fare per essere utile?”

Nina ci pensò su, guardandosi attorno per capire le poche risorse che avevano con loro. Appoggiò l’ennesima garza inutilizzabile a terra, adocchiando il boschetto alla sua destra. Per quanto quel piano non le piacesse per niente, non aveva alternative.

“Non possiamo rimanere fermi allo scoperto” gli disse infine, “Tu devi prendere il cavallo e andartene. Presto, coloro che sono stati sfollati dai villaggi ad est passeranno di qua e io posso chiedere un passaggio su un carro.”

“Lasciarla qui, sergente?” lui non parve affatto convinto “Non posso. Possiamo salire sul cavallo insieme.”

Se aveva retto lui e Kaithen, poteva anche reggere la figura sottile della giovane donna.

“Non posso né cavalcare né camminare” rispose subito lei, non curante, prendendo in mano un coltello e recidendo le cinghie che penzolavano rotte sul fianco. Tagliò anche il pantalone attorno alla ferita, buttando a terra la stoffa bianca impregnata di sangue e terra, “In queste condizioni, posso solo nascondermi. Non sarò un peso per te, devi tornare immediatamente in città, ma prima aiutami a mettermi fra quelle fronde.”

“Allora porterò dei soccorsi.”

Il bosco l’avrebbe protetta alla vista dei giganti, ma sarebbe stata comunque in grado di uscirvi da sola una volta applicati dei punti di sutura. Oluo la depose contro a una quercia, andando poi a prendere il modulo e le provviste mediche per appoggiarle accanto a lei.

“Fa attenzione” gli disse Nina, appoggiandogli una mano sulla spalla mentre lui si inginocchiava di fronte a lei, promettendole nuovamente che sarebbe tornato con qualcuno “Non sprecar tempo a combattere, cerca di seminarli. Nel caso dovesse succedere, però, cerca di rimanere vicino agli alberi, non cavalcare nelle piane a meno che non sia strettamente necessario. Prendi le mie lame e i razzi di segnalazione. Cerca di riunirti a un’unità.”

Oluo fece come gli venne detto, guardando il volto del sergente un’ultima volta prima di alzarsi, marciando verso il cavallo. Nina lo guardò andar via, prima di appoggiare pesantemente il capo contro la corteccia dell’albero. Chiuse gli occhi, portando una mano alla tempia e lasciando andare quel ringhio di frustrazione e disperazione che aveva incamerato dentro al petto sino al quel momento.

Poi disse la sola cosa che, ne era certa, le avrebbe detto anche Levi.

“Merda. Sono fottuta.”

 

Applicarsi così tanti punti da sola aveva richiesto un impegno non indifferente. Il dolore era forte e Nina sapeva di non potersi permettere il lusso di un anestetico, in primo luogo perché non avrebbe portato a termine il lavoro e poi perché doveva rimanere lucida e presente.

Quelle ora erano le terre dei giganti. Non era al sicuro, nemmeno un po’.

La buona volontà però venne meno quando, una volta fasciata con le poche bende che le erano rimaste la gamba, si sentì intorpidita dal dolore. Fu come se tanti piccoli aghi si fossero annidati sotto pelle, ferendola ad ogni movimento, mentre le palpebre, troppo pesanti per rimanere aperte minacciavano di farla cadere addormentata.

Visse per tanto in uno stato di dormiveglia, perennemente in allerta, ma non lucida, per diverse ore.

Il sole si era spostato parecchio in cielo quando riuscì a ritornare padrona del suo corpo. Spiò la luce oltre le frasche degli alberi, chiedendosi perché non era ancora passato nessuno o perché Oluo non era ancora tornato. Forse l’avevano trattenuto alle Mura Rose, avevano chiuso le porte e quindi ormai il problema era solo suo.

Per quanto potesse essere deprimente, quella era una constatazione ovvia. Logica.

Si mise seduta diritta, avvertendo uno spostamento attorno a sé. Qualcuno si stava addentrando nel boschetto, seguito da sonori passi che rimbombavano per la piana, facendo tremare la terra.

Nina aveva già preso in mano la spada del modulo che le giaceva accanto, quando da dietro un rovo di bacche di rosa canina, graffiato sul viso e sulle braccia dalle spine, apparve un bambino. Lui non si aspettava di trovare qualcuno sul suo cammino e la sorpresa fu tanto grande che, una volta incontrato lo sguardo di Nina, cadde a carponi sull’erba, mettendo un piede in fallo. Nina sentì un tuffo al cuore quando i suoi occhi affondarono in quelli del piccolo; all’interno di quelle iridi castane, calde, non c’era nulla se non l’orrore a cui essi dovevano aver assistito. La paura. L’abbandono.

I passi, però, non cessarono di riecheggiare.

La giovane donna spiò attraverso i rami, constatando che sì, c’era un gigante, ma se fossero rimasti in silenzio sarebbe andato tutto bene. La vegetazione era fitta a sufficienza da nasconderli. Per scrupolo, si schiacciò di più contro il tronco dell’albero, laddove esso incontrava un cespuglio di ginepro. L’odore delle bacche mature li avrebbe coperti.

Allungò una mano verso il bambino, sollevando l’altra per appoggiare un dito alle labbra, chiedendogli di rimanere in silenzio. Lui tentennò poi, a fatica, si alzò sulle gambe tremolanti. Si strinse al petto di Nina, mozzandole il fiato in gola quando le si sedette di peso sulla gamba ferita. Lo strinse a sé ugualmente, appoggiandogli sulle spalle la mantella verde e nascondendogli così la vista del gigante, che ora si vedeva ancor meglio fra capolino in alto, sui loro capi. Alzò il cappuccio sulla testa castana del bambino, appoggiandovi poi sopra la mano e attendendo.

Qualcosa attirò l’attenzione del mostro dopo diversi minuti di atmosfera tesa, perché questi si voltò rapidamente, allontanandosi da loro. Quando i passi furono sufficientemente lontani, Nina sospirò, rilassando le spalle.

Solo allora si rese conto che quel bambino non solo stringeva le mani piccole attorno alla sua giacca di rappresentanza come se temesse che venir portato via dal vento. Aveva iniziato a piangere silenziosamente, con gli occhi sgranati piantati sul manto erboso.

 

Nina cercò di non essere opprimente mentre faceva delle domande a quel bambino, venuto da chissà dove, ma insistette abbastanza da strappargli il suo nome: Mathias.

Non disse molto altro, ma fece intendere che la sua famiglia non c’era più. Ogni volta che lei chiedeva se fosse sopravvissuto qualcuno, nel suo villaggio, lui scuoteva il capo, stringendo le ginocchia contro il petto e rimanendo sprofondato in quel silenzio dettato dal trauma subito. Alla ragazza non ci volle molto per capire cosa doveva essere successo: il suo villaggio era stato spazzato via per interno e lui aveva visto la sua famiglia morire.

“Quanti anni hai, piccolo?”

Con la mano, Nina andò a parare via un ricciolo castano che gli ricadeva sulla fronte mollemente, ottenendo come solo risultato quello di farsi nuovamente abbracciare. Lei non si tirò indietro, sorridendogli con calore, per cercare di metterlo a suo agio. Di farlo sentire sicuro.

“Puoi parlare con me. Non permetterò ai mostri di farti male.”

“Nove.”

Sarebbe cresciuto con il peso di essere sopravvissuto alle persone che amava. Con quelle immagini negli occhi…

Passò il braccio attorno alle sue spalle, stringendolo piano a sé “Sai, tu mi ricordi tanto un mio amico.”

Fu solo al termine della frase che Nina realizzò.

Fritz era a Briemer.

Rimase ammutolita, prima di ricordare che, se tutto era andato come le aveva raccontato nell’ultima lettera che si erano scambiati, un mese prima, l’amico di infanzia aveva fatto già il suo ritorno a Nedlay. Confondeva le date, in quel momento la sua provvidenziale memoria faceva un po’ acqua, ma aveva come il sentore che stava tralasciando qualcosa.

In ogni caso, anche se si fosse trovato a Briemer, Nina era certa che tutti i distretti erano in fase di evacuazione così come i villaggi.

“Il signor Herikson era della Legione.” La voce del bambino la riportò alla realtà, sottraendola a quella preoccupazioni asfissianti. Abbassò gli occhi e vide che Mathias stava guardando con determinazioni le Ali della Libertà, cucite sul taschino della giacca, “Ha cercato di salvare la mia mamma e mia sorella.”

L’epilogo della storia non doveva essere positivo, se il bambino era giunto fino a lei da solo. lo strinse meglio, baciandolo sui capelli “Dobbiamo tornare alle Mura” sussurrò poi “Sento delle voci, qualcuno si avvicina.”

Ed era così. Mathias uscì dal boschetto circospetto, per poi tornare da lei dicendole che una carovana di persone stava attraversando la campagna, verso nord. La aiutò come poteva, prima di uscire dalla vegetazione andando incontro a quel gruppo di indigenti dai volti stanchi e spaventati.

Una volta al limitare del bosco, Nina si appoggiò a un albero, “Non lasciare la mia mano.”

Lui annuì velocemente, stringendosi addosso la mantella e chiudendo la mano piccola attorno alle dita lunghe del soldato.

L’avrebbe portato in città, ma poi?

Guardare quella folla incidere verso Trost, appesantita dalla paura e dalla consapevolezza che avevano perso tutto le fece comprendere che, per Mathias così come per lei, forse non esisteva un futuro.

Era caduto con Maria.

 

La pioggia aveva preso a cadere fina, imperlandole i capelli e decorandoli con lucenti goccioline di condensa, che riflettevano la luce del cielo alla volta del tramonto.

S’era messa seduta sul carretto, ringraziando nuovamente con un sorriso una bella donna di mezza età che, dopo aver pregato il marito di aiutare lei e Mathias, aveva fatto spazio fra i loro pochi averi per offrire loro un passaggio fino a Trost. Il bambino seduto accanto a lei fissava con gli occhi sgranati le assi di legno, immobile, di nuovo chiuso nel suo mutismo. Pareva che non respirasse nemmeno. Il solo momento in cui lo vide alzare gli occhi fu quando, finalmente, attraversarono la galleria di accesso della saracinesca, ritornando al sicuro, nelle Mura Rose. Vennero fatti sistemare di lato al grande spiazzo che dava sulla via fluviale. Nina aveva atteso che il carro arrestasse il suo lento andare, prima di farsi forza, alzandosi in ginocchio e poi in piedi, saltando giù da quel mezzo di fortuna, ma solo dopo essersi guardava bene attorno, nella moltitudine degli esuli.

Accalcati e relegati fuori dalle file delle vie che si perdevano in un dedalo difficile da districare all’interno dell’intera cittadina, coloro che avevano perso tutto non avevano avuto nemmeno la premura di un alloggio di fortuna. Sedevano in terra, appoggiati ai loro carri e stretti alle loro famiglie.

Ormai tutto ciò che rimaneva a quelle persone era la vita stessa, infame e crudele, così come il Fato l’aveva destinata loro.

C’erano soldati e civili feriti ovunque, come tanti garofani in fiore, sbocciavano rossi sul corpo o sul capo. Aveva continuato a cercare un volto amico, fino a che il suo sguardo non s’era incatenato ad un paio di iridi di un verde smeraldino così preziose da parer finte. Seduto fra due coetanei, un bambino la fissava in muto silenzio. L’aveva già visto altre volte, spesso ad accogliere la Legione decimata al ritorno alle porte di Shigashina, ma in quel momento il suo sguardo non brillava.

Negli occhi portava la morte e sul pallido volto una richiesta.

Che giustizia venisse fatta.

“Rimani con me” sussurrò a Mathias, tendendogli la mano per farlo scendere dal carro, decisa a non  lasciarlo solo con gli altri orfani. Lui non si fece pregare, trovando nel sergente Müller qualcuno a cui aggrapparsi. Qualcuno che avrebbe potuto badare a lui, almeno in quel momento di dolore.

Sfilarono insieme fra le file di miserabili e Nina di tanto in tanto si fermava, sentendo il polso di qualche ferito grave e decretando il decesso di qualche meno fortunato.

“I morti vanno portati via subito o si scateneranno delle pandemie” aveva detto a Ian Deitrich, uno dei Capitani della Guarnigione della città, quando l’aveva incontrato al limitare della zona abitata “In più, occorre disporre con rapidità di un’infermeria. Queste persone stanno male, vanno aiutati o la conta dei decessi accrescerà.”

Lui annuì grave, tenendo le braccia incrociate sul petto e gli occhi sulla folla “Farò quanto in mio potere, sergente. C’è un forno, in fondo alla via. Chiederò di farlo sgomberare e poi ci arrangeremo con qualche tenda.”

“Grazie, Ian.”

Concluse le trattative con la Guarnigione, a furia di vagare, riuscì anche ad incontrare un paio di volti amici.

“Come sei arrivata fin qua?”

Mike la prese sotto braccio, facendo sì che non si sforzasse nel camminare, mentre Nababa lanciavano uno sguardo veloce al bambino che seguiva il medico. Appoggiò una mano sul capo del piccolo, che però si ritrasse, schiacciandosi contro il fianco del sergente  “Levi si incazzerà” proferì la donna alta, non riferendosi al piccolo, ma alla situazione.

“Levi si incazza sempre” reggendosi all’amico, Nina alzò lo sguardo incontrando la pioggia, che ormai cadeva più decisa, non può solleticando il loro volti, ma pronta a trasformarsi in un acquazzone. Persino la natura era contro di loro “Stanno sgomberando una bottega, poco più avanti. Aiutami a raggruppare coloro che necessitano di cure mediche.”

Per prima cosa doveva trovare un antidolorifico e poi sistemare Mathias su un letto caldo.

Non avrebbe permesso di vederlo andare via, in mezzo agli altri orfani, ad appesantirsi il cuore di tristezza. Avrebbe fatto il possibile per tenerlo con sé, fin tanto che poteva. Per cui gli porse la mano nuovamente, come aveva fatto sul limitare di quel bosco, guardandolo afferrarla in fretta, senza esitazione.

Aggrappandosi ad essa e sperando. Quel bambino le dava forza di guardare avanti e non fermarsi. Gliene diede molta anche quando, entrando nella bottega del panettiere dove avrebbero allestito il campo medico, adocchiò un gruppetto di legionari, seduti a qualche metro, sull’erba di una aiola.

Erano Schäfer e i suoi uomini, da Shigashina.

Fra loro non vide Shadis o i pochi uomini di Trost che avevano accettato di accompagnarli nella prima missione del nuovo Comandante.  

Cosa più importante, non c’era nemmeno Erwin, né tanto meno Levi.

 

La pioggia aveva reso scivoloso quel tetto, ma infondo Erwin non dava segno di volersi muovere.

I capelli, appiattiti sulla fronte e sul capo a causa del violento acquazzone di cui era stato testimone poco prima iniziavano già da asciugarsi, scaldati dagli ultimi raggi del sole morente. Esso stava per scomparire, oltre le Mura, alle sue spalle.

Erwin non riusciva a vedere altro se non la breccia di otto metri che apriva il loro mondo all’orrore della morte. Non vedeva niente se non l’impronta marcata di quello che sentiva già come un suo fallimento personale. Erano dentro al distretto di Shigashina mentre l’inferno si riversava in terra, ma anche se si fossero trovati altrove, non avrebbe fatto alcuna differenza. A nulla erano valsi i loro sforzi; i giganti avevano preso possesso della città e ora vagavano liberi di seminare distruzione nelle terre di Maria.

Quella consapevolezza lo teneva paralizzato lì, a quello che era diventato nient’altro che un altro terreno in cui guardarsi le spalle, incredulo. L’osteria del Gallo d’Oro dove andavano a bere prima di uscire in missione all’esterno, l’officina del fabbro Helchin dove facevano scorta di lame, la tessitoria nella quale compravano metri e metri di stoffa per i teli che poi avrebbero riportato i loro caduti…

Era tutto finito.

La città era vuota, non si udiva più nulla, se non il rombo dei passi dei giganti e qualche grido in lontananza.

Forse Erwin se le stava immaginando, quelle urla. Forse gli erano rimaste impresse a fuoco nella mente e nelle orecchie, per quante ne aveva sentite in quei due giorni.

In un breve sprazzo di lucidità si domandò dove erano finiti gli altri. Che fossero morti tutti?

La cosa più sensata da pensare, seppur di logico non vi fosse nulla in tutto ciò che era accaduto nelle ultime ore, era che forse erano tornati a nord. Lui aveva esitato, era rimasto indietro e aveva perso tempo. E loro lo avevano lasciato lì perché aveva iniziato a fissare una voragine di otto metri chiedendosi come poterla chiudere.

Un modo doveva pur esserci, forse Pascal poteva…

“Erwin! Dannazione!”

Uno strattone forte al braccio gli fece perdere l’equilibrio e per poco cadde riverso sulle tegole di mattone cotto. Di fronte a lui, bagnato da capo a piedi e con l’espressione più esasperata che avesse mai visto, c’era Levi.

Non riuscì a dirgli nulla, incrementando la sua irritazione “Sono cinque minuti che ti sto chiamando!” proseguì, ingigantendo il tempo “Dobbiamo andarcene tutti e quattro! Adesso smettila di fare l’incantato e muovi quel culo, mi sta venendo un giramento di palle da sentire la nausea!”

Lo chiamò assente, il Comandante, assaporando il suo nome contro il palato come se non credesse davvero di averlo di fronte agli occhi e notando solo dopo che, alle spalle del moro, c’erano altre due persone, che incidevano con passo stanco, malfermo, lungo quello scivoloso cammino.

Lars e Mira avevano faticato parecchio a tenere il passo di Levi, ma se c’era qualcuno che poteva provarci, erano senza dubbio loro due. Facevano parte della squadra di Smith, avrebbero fatto qualsiasi cosa per lui.

Anche rischiare la vita per riportarlo a casa.

“Non posso andarmene” sussurrò ancora il biondo, riportando gli occhi verso la breccia nelle Mura.

L’altro lo guardò, esternando per una volta tutto ciò che pensava in un’espressione di profonda perplessità, mista a un certo sgomento. “Non puoi?” chiese, in un soffio, mentre sentiva la collera ribollirgli nelle vene. Fece un passo verso il superiore, zoppicando sulla caviglia dolorante, con fare minaccioso “Permetti allora che io ti faccia un quadro della situazione, uhm? Siamo circondati dai giganti, siamo in quattro contro chissà quanti di quei mostri, a una mezza giornata di cavallo dal primo luogo sicuro. E siamo senza cavalli!”

Di partenza li avevano, ma a un certo punto combattere era diventata la priorità e li avevano persi.

Entrati nel distretto, si erano ritrovati con poco gas alla ricerca di ciò che rimaneva del Comandante. L’averlo trovato vivo era un autentico miracolo, ma non risolveva la situazione. In qualche modo dovevano tornare e la situazione sembrava parecchio disperata.

“Erwin, non possiamo chiudere quel buco. È troppo grande. Questi terreni sono persi.”

La drammatica realtà dei fatti. Levi non si sarebbe risparmiato nemmeno un commento in merito, se ciò serviva a spronarlo. Aveva promesso a Nina che l’avrebbe riportato, anche a costo di stordirlo e tentare di caricarselo sulle spalle.

Non riusciva però a non pensare che gli facesse una certa pena, con quello sguardo smarrito che non lo rappresentava affatto. Era abituato a vederlo sprezzante, sempre sicuro di sé. Erwin aveva un piano –morale o meno che fosse- per tutto.

Era stato preso in contropiede e non sarebbe stato semplice riprendersi a quel punto. Doveva scendere a compromessi con il fatto che non avrebbe potuto farci niente.

“Levi, perché sei qui?”

Il moro sbuffò. Stavano perdendo tempo a parlare con un uomo poco cosciente. Lanciò un veloce sguardo a Lars, che ricambiò con una certa rassegnazione, prima di rispondere “Per te” gli disse sicuro, prendendogli il polso e tirandolo con forza verso di sé “Sono qui per te, grosso stronzo. Ora muoviti. Fissare quel buco per tutto il cazzo di giorno non servirà a un bel niente e io inizio ad avere fame.”

“Sta per fare buio, possiamo sfruttare a nostro vantaggio la notte e spostarci più a nord possibile” si intromise Mira, stringendo meglio la valvola del gas come per assicurarsi di non avere perdite. Nella sua voce non c’era l’urgenza di Levi, ma più una nota dolce e quasi materna. Si avvicinò, appoggiando una mano sulla spalla del Comandante “Ci hai portati avanti per tanti anni, Erwin. Non abbandonarci ora che abbiamo bisogno più che mai di te.”

A quel momento si unì anche Lars, afferrando la mano della moglie e guardandolo supplice “Dobbiamo riorganizzarci ora, studiare un piano, o non torneremo a Trost.”

“Io a casa non ci torno senza di te, idiota” aggiunse infine Levi, stringendo di più la presa attorno al polso massiccio dell’altro e cercando di guardarlo negli occhi. Ci riuscì, per la prima volta da quando l’avevano ritrovato “Nina mi uccide se non ti riporto. Andiamo, sei troppo pesante per essere portato in spalla e io sono già stanco di queste stronzate.”

Complice quel contatto, che lo univa ai suoi compagni, Erwin rinsavì e lo fece di colpo. Boccheggiò appena, guardandosi attorno e puntando lo sguardo alla breccia per l’ultima volta.

 “Verrò ricordato per sempre come il Comandante che ha perso il Muro Maria” sussurrò con tono spento, ma più netto di quanto avesse fatto in quel momento.

“Allora vorrà dire che correggeremo questa definizione” lo rassicurò Mira con un sorriso sghembo.

“Se vuoi diventare il Comandante che ha preso a calci in culo i giganti fuori da casa nostra, però, devi prima tornare vivo al quartier generale. Non vorrai cedere il posto a Schäfer, vero?”

Un piccolo sorriso, timido, nacque sulle labbra di Smith, mentre Levi finiva il suo discorso non troppo motivazionale “No, decisamente no. Troviamo delle torce, cammineremo tutta la notte verso casa.”

Avevano ragione loro.

Doveva sopravvivere e poi, un giorno, sarebbe tornato.

E si sarebbe ripreso ciò che appartiene di diritto all’Umanità.

 

 

All’alba del terzo giorno dalla caduta del Muro Maria, la città di Trost era al collasso.

Le milizie cittadine della Guarnigione non riuscivano a far fronte al grande affollamento di esuli, che erano arrivati ad invadere le stradine della città come tante formichine. Lo spiazzo di fronte alla porta del Muro Rose era così pieno da riuscire a stento ad oltrepassarlo a piedi e lungo tutta la via fluviale erano sbocciate delle piccole costruzioni di fortuna, per lo più consistenti in bastoni e tende regalate dai cittadini della città.

Rheva era arrivata la sera precedente, rispondendo all’appello dei legionari di Irsee, suo paese natale, che domandavano aiuti per spostare le persone e occuparsi dei tanti, troppi feriti.

L’aveva fatto con un sacco pieno zeppo di farinata d’avena e un altro con delle ciotole di zucca essiccata che sapeva non avrebbe più rivisto. Suo zio, Peter, era rimasto a casa, perché l’età e l’anca non avevano permesso di andare a sua volta a dar una mano.

Non importava, perché Rheva valeva per dieci, quando si impegnava.

Con un gesto secco si sistemò gli occhiali sull’attaccatura del naso, camminando rapida verso l’infermeria improvvisata.

Aveva giusto preparato un pentolone di farinata e sapeva benissimo chi non aveva ancora mangiato niente di decente.

La prima persona che incontrò sul suo cammino fu Hanji. Dopo averla rimpinzata come si doveva  -doveva tenerli d’occhio, quegli stacanovisti, o non avrebbero mangiato nulla per proseguire il lavoro- andò avanti, lungo le fila di tavoli pieni zeppi di oggetti medici dall’aria ben poco rassicurante e feriti.

Trovò la persona che stava cercando ferma in un corridoio di tavolate, con lo sguardo stanco, perso per chissà quale parto mentale. Le si avvicinò urtando il legno di uno spigolo con i fianchi ampi, non era magra come quella ragazza Rheva e non avrebbe voluto esserlo, chiamandola un paio di volte a gran voce.

Quando si accorse di non essere stata udita, passò all’azione diretta. Le ficcò con prepotenza il cucchiaio contro il fianco, sul costato, facendola praticamente saltare sul posto.

“Nina, sveglia! Sono qui perché- quello è un braccio?”

Il medico la guardò stupita, non si aspettandosi di trovarla lì attorno. Poi abbassò gli occhi sull’avambraccio che reggeva nella mano libera, alzandolo e mostrandolo alla donna, che storse il naso disgustata, ma ben poco impressionata “Gangrena” le fece sapere, buttando l’arto sul tavolino alla sua sinistra e lavandosi poi le mani vermiglie di sangue in un catino “Rheva cosa ci fai qui? È l’inferno.”

“Lo vedo bene” la ripresa la donna più matura, scrollando il capo dei liscissimi capelli di grano,  diversi dai boccoli lucidi di Nina. Le due donne non sarebbero potute parere più diverse, visto che la sola cosa che parevano avere in comune era l’altezza. Rheva non era bella nel significato più puro del termine; era provocante, osava con corsetti che le mettevano in mostra il seno prosperoso e truccava gli occhi verde bottiglia per farli sembrare più grandi e meno allungati. Persino in quella situazione tragica, manteneva una certa compostezza, al contrario della giovane donna che aveva di fronte. Nina era spenta. Sicuramente, si disse Rheva, doveva sentirsi distrutta. Chissà da quanto non dormiva o non mangiava decentemente.

Per ottemperare almeno a quel danno le ficcò fra le mani ancora umide una ciotola di farinata. Nina la guardò spiritata, sgranando gli occhi solcati da pesanti occhiaie nere “No, ti prego” le disse fiacca “Il solo odore mi mette la nausea. Non hai idea di quanta ne ho mangiata durante gli allenamenti con Levi.”

“Poco mi importa.” Rheva era irremovibile. Puntò l’indice contro di lei minacciosamente e l’altra non potè far nulla se non chinare il capo,  sedersi sulla tavolata, portando al contempo il primo cucchiaio di quella sbobba alle labbra “La odio” fu la sola cosa che disse, dopo aver ingoiato il boccone, consapevole però che aveva bisogno delle poche energie che quel misero pasto le avrebbe offerto. Poi non voleva contraddire l’amica, né fare la schizzinosa in un momento così drammatico.

Aveva visto Rheva molte volte, nell’osteria di suo zio Peter dove lavorava ogni sera, prendere a pedate chiunque provasse ad alzare le mani verso il suo seno prosperoso e in bella mostra. Soprattutto se soldati.

Nina aveva più e più volte pensato che calciasse più forte di Levi.

Un’ombra le passò sul viso, tanto che lo abbassò, tenendo il cucchiaio di legno fra le labbra.

Ah, dannazione…

“Che stai pensando, zucchetta?” le chiese subito l’altra, non perdendo di vista la ciotola ancora per lo più piena.

“Levi e Erwin non sono ancora tornati. Sono passati tre giorni, Rheva.”

Lei non seppe che dirle. In tanti, troppi non avevano fatto ritorno. Mike stava facendo la conta dei caduti, fuori dalla tenda, ma non era nemmeno paragonabile a quella dei dispersi. La Legione, da sola, contava come scomparse ben quattro unità. Intere.

Quattro squadre scomparse nel nulla.

“Se sono morti…. Se non dovessero tornare, io come faccio?”

Il cucchiaio cadde nella ciotola con un piccolo tonfo umido, mentre il medico portava la mano chiusa a pugno sulla bocca per soffocare un singhiozzo. Strinse gli occhi, Nina, lasciando scivolare in avanti i capelli per coprirsi il viso.

Era stanca e spaventata. Andava tutto bene, mentre si occupava dei feriti: lavorava, rimaneva concentrata sul suo lavoro e in qualche modo accantonava le preoccupazioni. Quando però si fermava, anche solo un istante, si sentiva sopraffatta.

Rheva le si avvicinò, prendendole la ciotola e appoggiandola sul tavolo accanto a sé. Poi portò la mano sulla nuca della ragazza, facendole appoggiare il viso sulla sua spalla. Nina la abbracciò scoppiando a piangere.

“Brava, zucchetta, sfogati. Quando ti sarà passata potrai tornare a segare le ossa. Ti piace tanto, no?”

A Nina sfuggì una piccola risata fra le lacrime. Quella donna, che non era poi di molto più grande di lei, le stava ridando un poco di allegria senza nemmeno darsi troppa pena nel riuscirci.

Fece come le venne detto, si sfogò un po’ prima di rimettersi seduta diritta, con gli occhi arrossati e il mal di testa. Accettò di buon grado il fazzoletto di cotone grezzo che le venne porto, andando ad asciugarsi così le guance “Grazie. Ne avevo bisogno. Sarei esplosa.”

“Eccome se saresti esplosa” Rheva si riprese il fazzoletto, mettendole fra le mani la ciotola di farinata e facendole quindi presente che sì, l’avrebbe terminata.

Nina scosse piano il capo, vagamente divertita nonostante la situazione e l’assenza di sonno e mandò giù altre tre cucchiate, rendendo il contenitore ripulito per bene all’amica “Portane un po’ a Pascal. Sta aiutando a costruire delle tende qua fuori e non mette qualcosa di decente nello stomaco da due giorni.”

“Sarà fatto” Accettò di buon grado la carezza che Nina le fece sul braccio, dentro alla quale c’era tutto il riconoscimento del medico nei suoi confronti. Non aveva però ancora finito con lei “Zucchetta?” attirò la sua attenzione mentre questa stava già per tornare dai suoi pazienti. Attese di vederla voltarsi verso di lei, parlando “Ti conosco dal tuo primo giorno di leva, sei cresciuta parecchio e velocemente, Nina. Sei una donna forte, non ti serve un uomo, che sia  un fratello o un amante. Troverai un modo per far quadrare tutto e andare avanti, se fossi costretta a farlo.”

Nina la ringraziò con un cenno del capo, poiché il magone le impediva di proferire parola.

Rimasta di nuovo sola, prese in mano la sega chirurgica, asciugandola dal disinfettante con uno straccio bianco.

Nel mentre, rimuginava su quanto le era stato appena detto e cercava in ogni modo di credere che ci sarebbe riuscita per davvero.

 

Le ore passavano, i pazienti aumentavano e i medici diminuivano.

Nina conosceva qualcuno a Trost e qualcuno di Shigashina. Tutti coloro a cui venne chiesto aiuto si prodigarono per aiutarla, ma verso il meriggio del terzo giorno erano tutti molto stanchi. Per di più, alcuni dottori come Paul Karson e Grisha Jaeger, entrambi del distretto caduto, erano segnati nella lista dei civili dispersi, lasciando un enorme vuoto.

Qualcuno con la loro esperienza sarebbe servito in quella situazione.

Stremata, Nina aveva provato a dormire un po’, mettendosi nel letto nel quale aveva sistemato Mathias il giorno prima e crollando non appena chiusi gli occhi. Era stata però destata di soprassalto da Moblit, a causa di un’emergenza. Una donna incinta, ferita a una gamba, che perdeva molto sangue.

Inutile dire che lei non era un’ostetrica, non ne aveva le conoscenze e alla fine dell’interno, aveva perso sia la madre che il figlio.Nessuno la incolpava, l’emorragia era in fase troppo avanzata e lo shock per l’enorme perdita ematica, misto anche allo stress di quei giorni, erano stati elementi determinanti.

Con le braccia sporche di sangue fino al gomito, Nina cadde seduta su i gradini di accesso al forno. Prese con la mano tremolante e sporca di umori una sigaretta dalla custodia di latta, ficcandosela fra le labbra.

“Cadetto?” chiamò uno dei giovani appollaiati sul muretto li fuori. Questi la guardò e non ebbe bisogno di sapere altro, visto che le si avvicinò, usando un fiammifero per accenderle la sigaretta. Nina sbuffò il fumo dalle narici, ringraziandolo, prima di ricadere nel mutismo. Appoggiò la tempia al cemento freddo della soglia, chiudendo un istante gli occhi. Solo quando qualcuno le si sedette di fronte, togliendole la sigaretta delle labbra e spegnendola sul gradino, tornò cosciente. “Moblit” lo chiamò stancamente, mentre lo guardava immergere un panno nel catino che recava con sé, per poi strizzarlo “Non farmi questo, ne ho bisogno per andare avanti.”

“Quella di fumare è una pessima abitudine” la riprese lui subito, con il solito tono da mamma chioccia, mentre senza chiederle il permesso prendeva con delicatezza la sua mano, iniziando a lavarle il braccio. L’acqua del catino si tinse in fretta di un color rosato.

“Perché lo fai?” chiese di punto in bianco Nina, guardandolo con riconoscenza e curiosità attraverso gli occhi vitrei.

Lui abbozzò un sorrisetto, prima di ricambiare lo sguardo, che pareva altrettanto stremato “Mia madre era molto malata” le disse, strizzando lo straccio per la terza volta e passando a pulire lo spazio di pelle fra le dita del medico “Eravamo soli, noi due e mi sono sempre preso cura di lei da quando ho otto anni. Una volta che è morta, cinque anni fa, io mi sono ritrovato solo, così mi sono arruolato. Mi viene spontaneo dare una mano, occuparmi delle persone.”

“Sei troppo buono per questo mondo, Moblit.”

“Ah, smettila Nina.”

Una volta terminato, passò un panno asciutto sulle braccia della ragazza, sistemando poi tutto e ripiegando le stoffe con precisione certosina. Una volta fatto, si sporse, baciandola sulla fronte “Porto dentro il catino e torno a prenderti, devi dormire.”

“Posso camminare” lo informò lei, ma il compagno di squadra non le diede segno di aver sentito.

Nina tornò ad appoggiarsi con la tempia al muro freddo, trovandolo ristorante. Nonostante il brusio di sottofondo, sentiva che sarebbe potuta cadere addormentata così, semplicemente.

Uno scossone la fece riprendere all’improvviso e, aperti gli occhi, trovò Mike chino su di lei.

“Cosa-”

“Sono tornati.”

Non le servì altro per schizzare in piedi, avvertendo una fitta ai punti freschi sulla coscia. Non le importava.

“Dove sono?”

“Stanno arrivando dalla piazza.” Mike si offrì di aiutarla, ma lei non ebbe il cuore di attendere. Partì di gran carriera, zoppicando e trascinandosi dietro la gamba ancora sofferente, uscendo dal corridoio di tende che dall’ingresso del forno portava all’esterno, fra le file di brande occupate. Si affacciò, appoggiandosi a una delle travi di sostegno della precaria struttura, portando una mano alla fronte per schermarsi dai raggi del sole del mezzogiorno.

La prima cosa che vide fu Erwin, che camminava stanco accanto a Nababa e a Fabian. Dietro di lui c’erano Lars, che teneva in mano due moduli per lo spostamento tridimensionale e, a qualche passo, Hanji e Alana che sostenevano Mira.

Solo dopo aver mosso un paio di passi verso di loro, Nina vide che sulle spalle Erwin portava Levi.

Non si diede il tempo di formulare ipotesi alcuna. Si mosse velocemente, sentendo la presenza di Mike accanto, pronto a tirarla su nel caso in cui fosse caduta in quel patetico tentativo di corsetta che stava facendo.

Arrivò dinnanzi a Erwin, leggendo il sollievo sul volto distrutto dalla lunga marcia del fratello e gli buttò le braccia al collo, aggrappandosi alla sua nuca con una mano e stringendo forte la camicia sulla spalla di Levi con l’altra, prima di scoppiare in un nuovo pianto liberatorio.

Nina…” la chiamò piano il Comandante, appoggiando il capo nell’incavo del collo della sorella, mentre la mano di Levi si alzava fino ai capelli della giovane, passandovi le dita attraverso in un gesto lento, nel quale probabilmente raccolse tutte le ultime forze che gli erano rimaste.

Erano vivi ed erano di nuovo con lei.

Tutto il resto si poteva aggiustare.

 

“Ho incontrato il Capitano Schimdt mentre portavo le notifiche degli ordini di Zacharius a nord. Lui ha detto che stava venendo qui per parlare con te, ma ha subito fatto marcia indietro.”

“Grazie per esserti preso a carico di questo viaggio, Fabian.”

Il rosso batté il pugno sul petto, facendo il saluto formale al Comandante, prima di allontanarsi per lasciarlo solo insieme a Mike, che non attese di vederlo sparire per prendere la parola “Abbiamo fatto gioco di squadra” informò l’amico, seduto su una sedia, nel vorace tentativo di terminare tutta la zuppa. Erwin non mangiava da due giorni e mezzo, e aveva anche preso in considerazione l’idea di sbranare una mucca durante il viaggio di ritorno, tanto forti erano i crampi “Io, Hanji e Gustav abbiamo pensato che fosse intelligente ordinare la ritirata generale. Il soccorso ai civili e l’appoggio alla Guarnigione però avevano la priorità e gli uomini della Legione di Renìn non hanno rispettato questo ordine. Non credo dovresti punirli, ma ho pensato fosse giusto che tu lo sapessi.”

“Hanno abbandonato la popolazione?”

“Erano di stazione nel paese di Kanaise, lontani dal distretto e non l’hanno raggiunto, preferendo tornare al Muro Rose.”

Erwin sapeva che non poteva punirli, ma avevano abbandonato la popolazione. Cosa fare? “Ci penseremo. Notizie da est e da nord?”

“Niente da Pereta” lo informò il suo secondo, passandogli un bicchiere di vino per buttar giù la sbobba. Erwin lo prese, sistemando con la mano libera la coperta che teneva sulle spalle “Dal nord sappiamo solo che stanno lavorando insieme agli stazionari per recuperare quante più persone possibili. Ho paura che Erik uscirà per cercare di raggiungere i suoi a Briemer.”

“Ho paura anche io di questo, ma non possiamo impedirglielo, se lo vorrà fare. Sono i suoi uomini. Le liste delle perdite?”

“Abbiamo quelle di Renìn e Trost. Non ti voglio rovinare la sorpresa, ma abbiamo perso quasi il quaranta per cento degli uomini, la maggior parte dispersa senza lasciar traccia. Di questo si sono occupati Nina, Pascal e Nababa.”

A quella notizia, il Comandante svuotò il bicchiere di vino con un sorso unico. Passò la mano sul viso stanco, pensando.

“Devo andare in Capitale a prendere ordini diretti dalla corte e da Zackley. I nostri protocolli non sono abbastanza aggiornati per far fronte a una simile emergenza.”

Mike tirò su col naso, non abbandonando la sua compostezza “Scordatelo, tu ora ti metterai in un maledetto letto e lo farai senza far storie da signorina. Non puoi andare proprio da nessuna parte con quella faccia.”

“Dormirò in carrozza.”

“Devo chiamare tua sorella?”

Quella sì che era una minaccia, ma sarebbe dovuto andare lui stesso da Nina. Il conteggio delle vittime aveva la precedenza, soprattutto perché doveva stilare un rapporto accurato sulle loro risorse, se sperava di ricevere ordini diretti su come agire.

E sperava di riceverli, perché per la prima volta nella sua vita, si sentiva totalmente disarmato.

Incapace di studiare un piano.

Forse aveva ragione Mike, doveva dormire.

Si alzò, sentendo la schiena dolergli e le articolazioni faticare ad ingranare i movimenti “Parlo con Nina e poi mi riposerò qualche ora, contento?”

“Tu dovresti esserlo, non io. Non sono tua madre, Smith.”

Passando, Erwin gli lasciò una pacca riconoscente sulla spalle, entrando nel forno senza abbandonare la coperta calda che lo avvolgeva. Tra una affare e l’altro si era fatta di nuovo sera e le candele illuminavano il corridoio fra le brande piene di bisognosi e malati. Molti di loro sembravano paralizzati dall’orrore, altri, non coscienti, forse non avrebbero visto una nuova alba.

Erwin non si sentiva di compatirli.

Morire in un letto, arrabattato alle meno peggio ma comodo abbastanza da dormirci, non sembrava una così brutta opzione giunti a quel punto.

Trovò sua sorella seduta su una di quelle brande improvvisate, china su Levi che dormiva così profondamente da sembrare morto. Erwin si chinò a sua volta su di lui, dall’altra parte della branda, appoggiandosi alla pavimentazione a mattonelle grezze con le ginocchia. Notò che il moro dormiva su dei sacchi e, dopo un esame più attento, il biondo dedusse che dovevano essere pieni di piume. Una fuoriusciva dalla legatura, così la prese fra pollice e indice, soffiandola via.  

“Era così stanco da essere crollato mentre gli applicavo i punti di sutura sul braccio” gli rivelò la bionda, mentre passava i polpastrelli sulla mano dell’amato, accarezzandola “Non l’ho mai visto così, è a pezzi.”

“Se non ci fosse stato lui,  saremmo finiti noi a pezzi.” Erwin appoggiò una mano sulla schiena della sorella, sussurrando per non disturbare il sonno dell’altro “Non è solo rimasto sveglio tutto il tempo, ha anche combattuto da solo. Io e Lars siamo crollati fisicamente a nemmeno metà del tragitto e Mira si è fatta male al fianco, non riuscendo più a usare il modulo. Lui è andato avanti, proteggendoci e usando le nostre bombole.”

Aveva continuato a farsi strada per tre giorni, da Trost a Shigashina e ritorno, senza nutrirsi né dormire. Nina era stupita dal fatto che non si fosse arreso prima, ma ogni tanto anche loro dimenticavano che Levi era soltanto un essere umano fatto di carne e sangue. Esattamente come ogni altro soldato.

Solo più resistente.

“Non avevate mangiato niente” riprese il medico, guardandolo per fargli capire che non era colpa sua se non era riuscito a parare le spalle di Levi “Quindi era normale, per voi, rimanere senza energie. Gli uomini grandi e grossi, poi, hanno bisogno di un sacco di cibo. Forse è per quello che Levi invece va avanti, perché è un nanerottolo.”

“Vi sento, stronzi.” La voce uscì debole e roca dalle labbra del moro, ma perfettamente udibile. Nina rise, portando una mano alle labbra per non disturbare gli indigenti attorno a loro e quando Levi spiò con un occhio solo la sua espressione, lei gli appoggiò una mano sulla guancia per sentire se avesse ancora la febbre “Non parlate come se io non fossi qui.”

“Ovviamente sei qui” lo prese in giro il biondo, dandogli una leggera pacca sulla spalla “Ti sono debitore per le vita.”

“Non vedo la novità. Lo eri anche prima.”

“Dormi, così magari il tuo umore migliorerà” proseguì Nina, sempre a sfottò, cercando lo sguardo complice del fratello.

Per risposta, il moro sfilò la mano da quella della ragazza, girandosi del tutto verso di lei e mettendosi sul fianco per nascondere il viso contro le sue gambe, lontano dalla luce “La faccia di merda deve essere un carattere ereditario, nella vostra famiglia.” furono le sue ultime, nobili parole.

Nina infilò una mano fra i suoi capelli, laddove essi erano più corti, sospirando rumorosamente. Poi tornò seria, lasciando scivolare il sorriso via dalle sua labbra “Cosa facciamo, ora?”

“Non lo so.”

“Queste persone cosa faranno?”

“Non so nemmeno questo.”

La conversazione cadde così, in un silenzio consapevole, poiché di risposte non ve ne erano.

Erwin rimase immobile a guardare Levi che dormiva, profondamente per una volta, chiedendosi cosa poteva fare. Cosa gli avrebbero detto di fare, una volta arrivato a Mitras? Sarebbe stato in grado di farlo?

“Ho paura” Nina parlò di nuovo e lui tornò a guardarla. Lei, però, non stava ricambiando lo sguardo, fisso invece sul profilo di Levi. Scostò una ciocca nera dalla sua guancia, prima di proseguire “Tutte queste persone in un solo luogo, affollato…. Per non parlare della scarsità di viveri. Come minimo inizieranno le epidemie, poi cosa faremo quando il cibo sarà terminato? Non esistono abbastanza campi agricoli nel Muro Rose per sfamare tutta questa gente.”

Erwin portò una mano sul suo mento, costringendola a incontrare le sue iridi chiare, di nuovo decise “Lo supereremo.  Sarà dura, sarà difficile, ma lo supereremo e lo faremo insieme.” Si sfilò la coperta dalle spalle, appoggiandola sul corpo di Levi, che ora gli pareva ancora più piccolo e, per la prima volta, indifeso come quello di un bambino. Poi si alzò “Sistemerò ogni cosa. Tu rimani qui.”

Nina annuì, mentre lui si allontanava ad ampi passi.

Mandò al diavolo ogni progetto di riposo e tornò al piano originale.

Si sarebbe vestito come si confaceva a un Comandante e avrebbe riposato in carrozza, durante il viaggio per la Capitale.

Quella non era la loro fine.

L’Umanità aveva incassato una pesante sconfitta perdendo quella battaglia, ma la guerra era ancora lunga da combattere.

Erwin, questo, lo sentiva.

E lui sarebbe stato uno dei protagonisti di quel conflitto.

 

 

 

Nda.

Lo so, sono ancora in ritardo, ma fra me e word si è messo il Lucca Comics. Dopo cinque giorni di fiera, dove ho portato i cosplay, non ce la potevo fare a scrivere.

Ho dormito senza dignità fino a tardi, rallentandomi.

 

Ora però sono tornata e, prima di salutarvi, vi lascio le solite due o tre noticine finali.

 

Il primo pezzo contiene, al suo interno, uno spoiler ben nascosto dei capitoli del manga che sono usciti negli ultimi due mesi. Per chi non fosse in pari, non c’è problema: a meno che non sappiate di cosa si parla in quei capitoli, non lo troverete mai. Per chi è in pari, invece, vi propongo una sfida.

Trovate il riferimento!

 

La frase di Ilya non è mia, ma è la rivisitazione di Today is life, the only life we’re sure of. Take the most of today, frase conclusiva dell’ultima puntata dell’ultima stagione di CSI New York.

So che non c’entra una rabazza di niente, ma ho sempre amato tantissimo questa citazione ed è molto incalzante per la situazione.

E anche per un evento futuro che non vi spoilero ora, ma che sicuramente vi ricorderete se continuerete a seguirmi.

 

Ho introdotto altri personaggi nuovi.

Lo so, iniziate ad odiarmi, vero?

Mathias è un mio parto mentale, un personaggio che per questa storia ha concluso la sua utilità ma che tornerà nel sequel e anche nella storia che spero di scrivere primo o poi insieme a RLandH. Sua è invece la bella d’osteria, Rheva. Come solito, introduco io i personaggi di Luna (la sua storia la trovate Qui  e vi consiglio di leggerla perché è intramata con la mia in modo inscindibile) e ormai tutti ci abbiamo fatto l’abitudine.

Tranne Luna, mi sa.

 

Posto questo capitolo anche se, devo dirlo, non mi fa impazzire. Non lo trovo con ‘mordente’, diciamo.

Nonostante le mie paturnie, però è indispensabile perché è cambiato tutto.

Ma tutto tutto.

 

La parte che ho preferito scrivere è quella di Levi che va a recuperare Erwin.

Io non shippo Eruri, ma mi è un po’ presa la mano.

Scusatemi.

Riferimenti casuali di slash nelle het.

Sono una persona terribile.

 

Ringrazio le quattro fanciulle che mi hanno commentato come sempre, mando loro baci e abbracci.

Ringrazio anche chi, silenzioso, legge e basta. Ho raggiunto una ventina di persone, che mi hanno inserita fra le seguite e le preferite e a loro vorrei sinceramente chiedere un parere.

Odio chi lesina recensioni, lo trovo molto triste, ma sono curiosa di avere un opinione quindi sentitevi liberi di scrivermi anche un mp!

Mi piace conoscere persone e chiacchierare.

 

Al prossimo capitolo.

Un bacio colossale.

C.L.  

 

 

 

 

 

 

 

  
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