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Autore: mikimac    13/11/2016    2 recensioni
Sherlock è morto, si è ucciso, lasciando solo John, in un mondo freddo e senza sole. Fino al giorno in cui Sherlock torna a bussare alla porta di John. Nulla, però, può cancellare il tempo trascorso né le conseguenze di un atto compiuto per amore.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Una dolorosa scoperta
Londra non era mai stata così fredda. Non per lui. Anche quando nevicava o si formava il ghiaccio nei laghetti dei suoi parchi, Sherlock Holmes sentiva che Londra gli scaldava il cuore. Eppure, quel giorno non era così. John lo aveva allontanato da sé. Non lo aveva accolto a braccia aperte, come aveva a lungo sognato. Non gli aveva lasciato il tempo di raccontare quello che aveva fatto. Di spiegare come fosse stato possibile inscenare il proprio suicidio. Di confessare ciò che aveva scoperto di provare per lui.
Per John.
Forse era stato meglio così. Non era sicuro di come avrebbe reagito John Watson non-sono-gay alla scoperta che lui, Sherlock Holmes l’uomo-senza-cuore-per-cui-i-sentimenti-sono-solo-una-reazione-chimica-difettosa, fosse arrivato alla conclusione di essere innamorato del suo compagno di avventure, del suo blogger, del suo unico amico.
Di John.
Probabilmente John avrebbe usato quel tatto e quella delicatezza, che solo lui sapeva dimostrare verso tutti, per fargli capire che non provava gli stessi sentimenti. Che non lo avrebbe mai ricambiato. Che lui cercava una compagna, con cui formare una famiglia, non un ragazzino viziato da accudire. Che doveva smettere di amarlo, per non soffrire. Avrebbe potuto decidere di non vederlo più, per non alimentare in lui la speranza di poterlo conquistare od aumentare la sofferenza per essere stato respinto. Forse era meglio essere il migliore amico di John Watson, che il suo mancato amante. Forse. Eppure, nel profondo del proprio cuore, Sherlock sentiva che avrebbe dovuto trovare il coraggio di essere sincero con il dottore, perché se c’era qualcuno che avrebbe potuto accettarlo senza riserve, quello era John. Come aveva sempre fatto. Forse lo avrebbe anche ricambiato. Forse. Troppi forse. I sentimenti erano sempre stati difficili da gestire, perché lo facevano sentire esposto e vulnerabile. Eppure anche lui meritava di essere felice. Doveva riflettere attentamente sulla prossima mossa, che avrebbe potuto portarlo a raggiungere il cuore di John. Intanto, Sherlock era pronto a riprendere il proprio posto nel mondo dei vivi.


Una dolorosa scoperta


La giornata all’obitorio del Bart’s era finalmente terminata e Molly Hooper si stava dirigendo verso lo spogliatoio, per cambiarsi ed andare a casa. Aveva eseguito alcune autopsie di routine.
Sherlock avrebbe sbuffato definendole noiose.
Persone anziane morte per cause naturali, nei loro letti. Avrebbe dovuto firmare i rapporti e compilare un paio di moduli, ma potevano attendere il giorno dopo. Era questo il bello di lavorare con i morti. Non  si lamentavano delle cure né del in modo in cui venivano trattati né dei tempi di attesa. Nei due anni in cui Sherlock era stato assente, le cose erano state tranquille. Nessuna incursione nel cuore della notte né asportazione di pezzi di corpi per gli eccentrici esperimenti dell’unico consulente investigativo del mondo. Non  sarebbe durata ancora molto. Negli ultimi giorni, i giornali si erano riempiti di lunghe ritrattazioni e di dettagliate spiegazioni di come fossero stati tutti ingannati da un geniale e malefico signore del crimine. Molly li aveva letti con un certo disgusto, perché ricordava ancora perfettamente i velenosi attacchi che gli stessi giornali avevano portato a Sherlock, nel periodo in cui James Moriarty aveva deciso di distruggerlo. Quella strana attività, però, poteva voler dire solo una cosa: Sherlock Holmes stava per tornare. Se non fosse stato così, il fratello non avrebbe mai permesso che vi fosse un’esposizione mediatica di quel tipo, con il rischio di mettere in pericolo Sherlock e la sua missione. Presto lo avrebbe rivisto. Era sicura che quanto prima Sherlock sarebbe riapparso in pubblico e tutto sarebbe tornato come era due anni prima.
Non proprio tutto.
Molly non aveva frequentato molto John, nemmeno dopo l’incidente. Si sentiva in colpa. Non aveva potuto dire di no a Sherlock, soprattutto vedendolo così disperato. Lo aveva aiutato ad inscenare il proprio suicidio e non se ne pentiva, perché avrebbe fatto qualsiasi cosa per Sherlock e perché aveva protetto degli innocenti. Questo, però, non la faceva sentire meglio. Quando vedeva John, non riusciva a non pensare al fatto che il dottore non sarebbe tornato nell’esercito, se non avesse creduto che Sherlock fosse morto. Se non fosse tornato nell’esercito, non avrebbe avuto l’incidente. Molly si chiese cosa sarebbe accaduto, con il ritorno di Sherlock.
Era arrivata nello spogliatoio ed aveva aperto lo sportello del proprio mobiletto, quando nello specchio vide il riflesso del viso di Sherlock. Molly si voltò, per essere sicura che non si trattasse di una allucinazione provocata da quello a cui stava pensando. Sherlock era lì, davanti a lei. Sano e salvo. Più magro e pallido del solito. Però, vivo. Molly gli buttò le braccia al collo e lo abbracciò con trasporto. Solo due anni prima non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo, ma le cose erano cambiate. Non le importava se Sherlock la avrebbe insultata od avrebbe sbuffato o fatto qualche commento velenoso. Era tornato. Era vivo. E le importava solo questo.
“Anche io sono contento di vederti,” mormorò Sherlock.
“Davvero?”
“Certo! Perché dovresti dubitarne? Moriarty è stato sconfitto nel momento in cui non ha capito che anche tu facevi parte delle persone a cui io tenevo. Ha sottovalutato il nostro rapporto. Non ha compreso che aveva lasciato fuori la persona più importante.”
Molly lo lasciò andare, arrossendo, imbarazzata, ma felice. Non avrebbe mai pensato che un giorno avrebbe sentito quelle parole uscire dalla bocca di Sherlock Holmes. Rivolte a lei!
Chissà cosa hai passato in questi anni. Quanto ti sei sentito solo. Avrei fatto qualsiasi cosa per te. Qualsiasi. Anche seguirti in capo al mondo ed aiutarti nella tua missione.
“È un uomo fortunato,” sorrise Sherlock.
“Chi?”
“Quello che ti ha messo al dito l’anello.”
Avresti potuto essere tu. Avresti dovuto essere tu. Se non fosse arrivato John…
“Si chiama Tom e non è uno psicopatico. Lestrade lo ha rivoltato come un calzino, quando si è accorto che stavamo facendo sul serio.”
“Era giusto che trovassi qualcuno che potesse renderti felice. Te lo meriti, Molly Hooper. Grazie per quello che hai fatto per me.”
Con un gesto inconsueto, Sherlock si abbassò e lasciò un tenero bacio sulla guancia di Molly. Mentre se ne andava, la giovane donna lo osservava. Era sicura che non sapesse nulla di John o non sarebbe stato così tranquillo e tenero. Con un sospiro, si tolse il camice, chiedendosi se Sherlock avrebbe mai capito di amare John e trovato il modo ed il coraggio di confessarlo. Soprattutto al diretto interessato. Prima che John entrasse nella vita del giovane Holmes, Molly aveva desiderato che Sherlock si innamorasse di lei, ricambiando i suoi sentimenti. Aveva dolorosamente compreso di non avere speranze la prima volta in cui aveva visto il dottore con il consulente investigativo. La sua pazienza, la sua tolleranza, il modo in cui John, con uno sguardo, faceva capire a Sherlock quello che pensava, la avevano infastidita. Inoltre, Sherlock non lo insultava, come faceva con il resto dell’umanità, ma parlava con lui, come se fosse l’unica persona presente nella stanza. L’unico di cui gli importasse. Molly, avrebbe voluto che quello stupido, insignificante e banale uomo sparisse dalla faccia della terra, affinché Sherlock si accorgesse di lei. Non era accaduto. E Molly aveva capito. Forse non gli altri. Sicuramente non Sherlock né John. Lei sì. Sherlock si era innamorato. Di John. Dell’uomo che aveva saputo trovare la strada per raggiungere quel cuore, che Sherlock teneva  celato al mondo intero. Ed ora lo aspettava una prova terribile. La verità sarebbe stata devastante. Nessuno poteva prevedere come avrebbe reagito Sherlock.
Molly chiuse l’armadietto. Tom la aspettava a cena. Il rassicurante, solido e concreto Tom.
E se…
Scosse la testa. Basta con i “se” e con i “forse”. Poteva essere amica di Sherlock. Nulla di più. Doveva farselo bastare.


Il parcheggio era poco illuminato. Freddo. Silenzioso. L’uomo alto, con i capelli brizzolati, si fermò, guardandosi intorno. Non c’era nessuno, quindi poteva accendersi una sigaretta senza dovere sopportare lo sguardo di disapprovazione di qualcuno. Aveva provato più volte a smettere di fumare. Aveva usato anche i cerotti alla nicotina. Niente. Non era riuscito a smettere. Per quanto sapesse che non fosse salutare, fumare gli scaricava i nervi meglio di qualsiasi altra cosa. Meglio di una bella sbronza. Meglio di una sfuriata. Meglio di… meglio di qualsiasi cosa. Gregory Lestrade aveva ripreso a fumare dopo il suicidio di Sherlock Holmes. Doveva esserci stato qualcosa di inconscio, in quella decisione. Se fosse andato da un terapista, probabilmente gli avrebbe detto che fumare fosse un modo indiretto per punirsi della pessima decisione che riteneva di avere preso, dando retta a Donovan ed Anderson, quando avevano accusato Sherlock per il rapimento dei due ragazzini.
Al diavolo i terapisti! Non ho tempo né soldi per andare da loro e sentirmi dire delle stupidaggini.
Lestrade era sicuro che tutto dipendesse dallo stress provocato dall’aumento di lavoro. Gli mancava Sherlock. La sua mente brillante. Il modo in cui risolveva i casi, tra sbuffi infastiditi ed insulti diretti. Non si era mai sentito veramente offeso. Greg era affascinato dall’intelligenza di Sherlock e lo rispettava. Gli dispiaceva che fosse morto, credendo che lui lo ritenesse un imbroglione. Se avesse potuto tornare indietro, gli avrebbe fatto sapere che lui aveva fiducia nelle sue capacità intellettive ed investigative, superiori a quelle di chiunque l’ispettore avesse mai visto all’opera. Lestrade estrasse il pacchetto di sigarette dalla tasca del lungo cappotto scuro e ne fece scivolare fuori una, infilandosela in bocca. La fiamma dell’accendino gli scaldò il viso per il tempo necessario ad innescare la combustione della carta e del tabacco. La prima boccata… la prima boccata fu qualcosa di fantastico, atteso e desiderato da ore. Qualcosa che attivò i suoi sensi del piacere.
Immerso nella sensazione di pace e abbandono che gli dava la sigaretta, non sentì i passi avvicinarsi. La voce, calda e profonda, lo colse completamente di sorpresa: “Quella roba ti ucciderà.”*
Lestrade si bloccò. Non poteva credere alle proprie orecchie. Quella voce… se la era immaginata. Lui era morto. Aveva visto il suo cadavere sul tavolo di freddo acciaio della morgue. Più di due anni prima. Si stava immaginando di sentirla. Non poteva essere…
Si voltò di scatto, sentendo un lievissimo rumore di passi provenire da dietro. E se lo trovò davanti, avvolto nel suo immancabile cappotto nero. Alto, magro…
Sempre più magro… cosa hai passato in questi due anni, Sherlock? Cosa hai fatto? Cosa ti hanno fatto?
Non riuscì nemmeno a meravigliarsi del fatto che Sherlock Holmes fosse lì, davanti a lui, vivo e vegeto. Erano mesi che Anderson lo frastornava con le sue teorie assurde su come avesse fatto a salvarsi e su cosa stesse facendo: “Oh, che bastardo!”* sbottò con gioia. Buttò le braccia al collo di Sherlock, stringendolo a sé con forza, per essere certo che non fosse un’allucinazione. Un fantasma.
Sherlock rimase fermo, fra le braccia di quell’uomo che gli aveva sempre dato fiducia e credito. Non gli importava che si fosse lasciato ingannare da Donovan ed Anderson. Poteva capire che fosse caduto nella trappola di Moriarty. Poteva accettare che avesse dubitato di lui e delle sue capacità, anche se solo per qualche secondo. Minuto. Ora. Giorno. Sherlock aveva sempre saputo che Lestrade non lo ritenesse un imbroglione.
“Come… quando… dove…”
“Sarebbe utile che tu finissi almeno una domanda, Graham, così saprei cosa tu voglia sapere.”
“Greg.”
“Greg.”
“Non importa come tu abbia fatto ad inscenare la tua morte, quando tu sia tornato o dove sia stato in tutto questo tempo. L’importante è che tu sia tornato. Intero. E che tu stia bene. Perché stai bene, vero?”
Sherlock si lasciò sfuggire un sorriso triste. Quelle erano le parole che aveva sperato di sentire da John, non da Lestrade. Se al posto dell’ispettore ci fosse stato il suo amato dottore, Sherlock sarebbe stato un uomo felice, ma non era stato così. Non sapeva che tipo di benvenuto aspettarsi da Lestrade, ma questo gli stava piacendo: “Se per te non è un problema, vorrei riprendere la mia collaborazione con Scotland Yard… e con te. Il mio nome è stato completamente riabilitato, quindi la mia presenza non inficerà le tue indagini.”
“Nulla mi farebbe più piacere che riaverti come consulente. Non posso credere che Anderson avesse ragione,” ridacchiò Lestrade, incredulo.
“Anderson? Cosa c’entra quell’idiota di Anderson, ora?” Domandò Sherlock, seccato.
“Non è poi così idiota come credi tu. Dopo un primo momento di euforia, per essersi liberato di te, Anderson ha iniziato a riflettere su ciò che era accaduto. Forse si è sentito responsabile del tuo suicidio, forse ha notato delle sbavature nella storia montata da Moriarty, non lo so, non lo ho mai veramente capito. Qualsiasi sia stato il motivo, Anderson ha iniziato a dire a tutti che tu fossi vivo e che non fossi un imbroglione. Spendeva ogni secondo del suo tempo libero, per dimostrare che tu fossi in qualche parte del mondo a sgominare bande criminali e smascherare persone corrotte. Ci ha rimesso il lavoro. Vorrei vedere la sua faccia quando scoprirà che aveva ragione!”
“Forse, a forza di starmi vicino, Anderson è stato contaminato da un po’ della mia intelligenza.”
Lestrade scoppiò in una risata felice: “Forse. Quando riprenderai il lavoro con noi?”
“Devo trovare dei terroristi per mio fratello, ma direi che basteranno pochi giorni. Se hai qualcosa, che sia veramente interessante, chiamami. I miei numeri saranno riattivati tutti entro stanotte.”
“Lo farò, stanne certo.”
Lestrade sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, ma serrò la bocca velocemente, come se avesse deciso di soprassedere. Sherlock si chiese cosa volesse dire, ma non diede troppo peso alla cosa. Con un cenno del capo salutò Lestrade e se ne andò. Greg lo osservò allontanarsi, la figura elegante messa in risalto dal lungo cappotto, che svolazzava indolente.
Greg avrebbe voluto chiedere a Sherlock se avesse già incontrato John, ma si era trattenuto. Non aveva dubbi sul fatto che John fosse stata la prima persona a cui Sherlock avesse annunciato il proprio ritorno nel mondo dei vivi. Se Holmes era così calmo e pronto a tornare al lavoro, poteva significare solo che, in qualche modo, John fosse riuscito a tenergli nascoste le proprie condizioni. Non sarebbe certo stato lui a rivelare il segreto del dottore.
Ognuno di noi ha fatto le proprie scelte, per motivazioni che possono essere nobili od egoistiche. Ogni decisione, però, ha portato a delle conseguenze, che hanno influenzato la vita delle persone coinvolte. Arriverà anche per Sherlock il momento di affrontare ciò che ha provocato. Che si goda un po’ di pace, ora. Sono sicuro che se lo sia meritato.


Baker Street non era cambiata. I palazzi erano sempre gli stessi. I negozi anche. Anzi, no. La merceria non c’era più. Al suo posto, c’era un negozio pieno di quelle cianfrusaglie che attiravano solo i turisti. La sera era calata e si era trasformata quasi in notte. La luce al 221A era ancora accesa.
La signora Hudson sta lavando i piatti. Ha avuto ospiti, stasera.
Sherlock alzò gli occhi. Le finestre del 221B erano buie. I lampioni della strada illuminavano le tende scure e pesanti.
Probabilmente piene di polvere. Mycroft ha fatto in modo che la signora Hudson non affittasse l’appartamento a nessuno. John avrebbe dovuto essere lì ad aspettarmi. Invece…
La mano, infilata nella tasca del cappotto, stringeva la chiave del 221B. Fredda. Rigida. Quasi tagliente. Non vi sarebbe stato nulla di accogliente, in quell’appartamento gelido e pieno di polvere, perché mancava ciò che gli aveva sempre dato calore.
John.
Erano entrati insieme, in quella casa. Vi avevano riso e discusso. Si erano coperti le spalle a vicenda prima ancora di conoscersi. Avevano imparato a rispettarsi. A capirsi al volo. John aveva aperto Sherlock al mondo, insegnandogli a vederlo attraverso i suoi occhi. Sherlock non aveva cambiato idea sulla stupidità dell’umanità, ma aveva imparato a tollerarla. Poi, era stato costretto ad abbandonare John. Per proteggerlo.
Lo capirai, un giorno? Mi permetterai di spiegarti perché io abbia dovuto farlo? Oppure mi punirai per il resto della mia vita, negandomi la tua compagnia? Tu non sei così. Non tieni il broncio tanto a lungo. Un paio di giorni… un paio di giorni e potrò spiegarti… raccontarti… riaverti al mio fianco…
Infilò la chiave nella serratura e la fece scattare. La signora Hudson apparve sulla porta del 221A con i guanti di lattice ed una padella in mano. Trovandosi davanti Sherlock, iniziò ad urlare, con tutto il fiato che aveva in corpo.
“Signora Hudson, la smetta, le verrà un infarto e sveglierà i vicini!” Sherlock le fu accanto in pochi secondi.
“Se qualcuno mi farà morire, quello sarai tu! Sei vivo! VIVO!”
“Direi di sì, signora Hudson. Sono abbastanza sicuro di poter essere annoverato fra i vivi.”
La padella tremò violentemente nella mano della donna. Ripresasi dallo spavento, una insolita rabbia apparve nei suoi occhi: “Ti sembrano scherzi da fare ad un’anziana signora come me? Dovrei usare questa padella per metterti un po’ di buon senso in testa!”
Con molta delicatezza, Sherlock prese la padella dalla mano della signora Hudson, entrò in casa e la mise nel lavello della cucina.
“Siediti. Ti faccio un tea,” ordinò la donna.
Sherlock non osò disobbedire. Senza levarsi il cappotto, si sedette al tavolo.
“Due anni. Ti sei fatto credere morto per due anni.”
“Ho dovuto farlo per proteggere lei…”
“Non si fanno queste cose Sherlock Holmes, per nessun motivo,” lo interruppe la signora Hudson, sbattendo il bollitore sul fuoco.
“Non ho avuto altra scelta.”
“Fingere di suicidarsi davanti al povero John. Il dolore che gli hai provocato era vero e lo ha quasi distrutto! E quello che...” La signora Hudson si fermò di colpo, si voltò verso Sherlock, con gli occhi pieni di pena. Sembrava non trovare le parole.
“Non avrei mai voluto causarle tanto dolore, signora Hudson, ma dovevo proteggere le persone che Moriarty stava minacciando. Sono tornato perché siete al sicuro e non farò mai più una cosa come questa. Posso assicurarglielo. Se per lei va bene, riprenderei il mio vecchio appartamento. Tra qualche giorno tornerà anche John…”
“Anche John? Lo hai visto?”
“Sì. Ora è furioso con me, ma anche lei sa come John si arrabbi facilmente. Quando gli sarà passata, capirà che deve lasciare l’esercito e tornare a casa. Da noi. Non è un problema se porta con sé il cane, vero? Sembra che vi sia molto affezionato.”
“Oh, certo che può venire anche Honey! È così dolce ed è bravissima con John. Lo aiuta molto.”
“In cosa può essere d’aiuto un cane?” Domandò Sherlock, quasi stizzito. Gli bruciava ancora che John avesse dedicato più attenzioni al cane che a lui.
La donna si voltò verso il bollitore, che aveva iniziato a sibilare. Lo tolse dal fuoco e vi immerse il tea. Prese dei biscotti, li mise in un piatto e lo portò in tavola: “Mangia. Ne hai bisogno. Sei ancora più magro del solito. Chissà cosa hai passato, povero caro,” sussurrò.
Sherlock non aveva fame, ma decise che non fosse il caso di contraddire la signora Hudson. Dopo quello che le aveva fatto passare, mangiare e bere qualcosa con lei non era un grande sacrificio. La donna versò il tea nelle tazze e si sedette accanto a Sherlock. Il silenzio cadde nella piccola cucina. Si sentiva il ticchettio della pendola all’ingresso, mentre mangiavano i biscotti e bevevano il tea. Sherlock sentì qualcosa che si scaldava all’interno del suo corpo e capì che non era il tea, ma il fatto di essere tornato, finalmente, a casa.


Quando mise piede nel soggiorno, trovò che tutto era rimasto come lo aveva lasciato. Il suo violino era nella custodia, sul tavolino, sotto alla finestra. Il teschio era sulla mensola, sopra al camino. Le due poltrone erano sempre una di fronte all’altra. Sul tavolo della cucina, c’era il microscopio. L’appartamento sembrava un mausoleo, costruito per conservare la sua memoria. Tutto era pieno di polvere, ma a Sherlock non importava. Mancava solo una cosa. John non era lì.
Ci sono dei terroristi da fermare. John tornerà presto.
Si tolse il cappotto ed iniziò a mandare messaggi alla sua rete di senzatetto, mentre appendeva alla parete le immagini di coloro che avrebbe fatto sorvegliare, per capire cosa stesse accadendo. Finito il lavoro, si sedette sulla sua poltrona, le mani congiunte sotto il mento, mentre fissava le fotografie e le poche informazioni che aveva.
Mycroft lo trovò in quella posizione, la mattina dopo, quando lo raggiunse a Baker Street. Sherlock sembrò non notare l’ingresso del fratello, che si sedette nella poltrona di John.
“Un mio informatore mi ha fatto avere un filmato della metropolitana in cui Lord Moran fa una cosa strana. Dovresti tenerlo d’occhio, scoprire dove intenda trascorrere la notte del grande voto. Sono sicuro che ci sia lui, dietro il tuo misterioso attentato. Fossi in te, farei anche controllare le gallerie della metropolitana. Qualcosa di dismesso, che passi vicino al Parlamento.”
“Non hai intenzione di andarci tu? Pensavo che saresti stato curioso di sapere cosa stessero architettando questi attentatori.”
“Noioso,” si lamentò Sherlock, alzandosi dalla poltrona.
“Hai visto John?”
Sherlock si fermò sulla porta della cucina: “Mi ha cacciato. Stai tranquillo, però, non ho preso a pugni nessuno dei militari che mi hanno gentilmente accompagnato all’uscita dell’ospedale in cui lavora.”
Mycroft strinse forte il manico dell’ombrello, come se si aspettasse una sfuriata da parte del fratello, ma Sherlock non aggiunse altro e andò in bagno. L’acqua della doccia iniziò a scorrere poco dopo. Il maggiore degli Holmes estrasse il cellulare e diede istruzioni ad Anthea, per sorvegliare ed arrestare Moran, dopo la perlustrazione delle gallerie della metropolitana. Qualche minuto dopo, Sherlock uscì dal bagno, entrò in camera da letto e ne uscì con abiti puliti.
“Dove stai andando?”
“Ho risolto il tuo caso noioso. Dato che tu non hai più bisogno di me e che Lestrade non ha telefonato per chiedermi di aiutarlo in qualche caso, che non riesce a risolvere, vado da John, per vedere se riesco a farlo ragionare. È stupido che rimanga nell’esercito. Ora sono tornato e devo fargli capire che il suo posto sia qui, a Baker Street, con me.”
“Perché?”
“Come perché? Non è ovvio?”
Mycroft si alzò, appoggiandosi all’ombrello, e fissò il fratello dritto negli occhi. L’espressione era così seria, che Sherlock quasi si preoccupò: “Sherlock, te lo ho già detto che i sentimenti non sono un vantaggio.”
“Lo dici solo perché tu sei solo. Dimmi, Mycroft, sei sicuro di essere felice?”
“Io non sono solo e il fatto che io sia felice o meno non è il soggetto del nostro discorso. Non sono io quello che si rifugia nella droga, quando le cose non vanno come vorrebbe che andassero.”
“Sono anni che non mi drogo e lo sai anche tu,” sibilò Sherlock.
“Non ti sei drogato solo perché sapevi che John non ne sarebbe stato contento e tu tieni troppo alla sua approvazione. Non puoi sostituire una dipendenza con un’altra.”
“John non è una droga. John è una persona. E, anche se le cose stessero come dici tu, sarebbe decisamente un passo avanti, non credi? Oppure preferisci che torni alle vere droghe?”
“Vorrei che tu crescessi e smettessi di dipendere da qualcosa o da qualcuno. Vorrei che tu fossi forte, indipendente, capace di affrontare il mondo per quello che è: imperfetto e pieno di dolore. Tu lo sfuggi. Ti nascondi dietro la tua superiorità intellettuale, come se fosse uno scudo, capace di proteggerti dai sentimenti che vorresti provare, ma che temi.”
“Mycroft, deciditi! Sembri confuso. Prima mi dici che i sentimenti non sono un vantaggio, poi che devo imparare ad affrontarli.”
“Sapere cosa provi e non farti travolgere dai sentimenti, è l’unico modo che esiste per non farsi governare da essi. L’unico modo per non farsi ferire. L’unico modo per impedire a chiunque di usarli contro di te.”
“E tu vivi così, Mycroft? Senza provare nulla per nessuno? Non credi che sia da vigliacchi?”
“No, se ti permette di essere lucido e di svolgere al meglio il tuo lavoro.”
“E il lavoro è tutto, vero?”
“Non è così anche per te, fratello caro? Non sei sposato con il tuo lavoro?”
Sherlock distolse lo sguardo. Non era più sicuro della risposta a questa domanda. Tutto dipendeva da cosa avrebbe fatto e detto John. Stava correndo un rischio enorme. Poteva essere respinto ed essere ferito, ma doveva farlo. Lo aveva compreso in modo lampante quella notte. La casa vuota, la casa senza John, era qualcosa che gli aveva stretto lo stomaco, tolto il fiato, fermato il cuore. John doveva tornare. Se non fosse stato così… Sherlock si infilò il cappotto e uscì di casa.
Mycroft lo seguì con lo sguardo. Avrebbe dovuto aumentare la sorveglianza su suo fratello, perché la possibilità di una ricaduta nell’incubo della droga era sempre più elevata. Si era sempre chiesto se John sarebbe stato la salvezza o la distruzione per Sherlock. Presto avrebbe avuto la risposta.


L’auto uscì dall’ospedale militare poco dopo le 18. Sherlock aveva atteso nel taxi per buona parte del pomeriggio. Nessuno lo aveva notato. Aveva fatto parcheggiare il taxi all’angolo di una strada di fronte, in modo da vedere, senza essere visto. Riconobbe subito l’auto e l’autista.
“Segui quell’auto,” ordinò al taxista.
“Grande! Come nei film,” sorrise l’autista, entusiasta. L’uomo faceva parte della sua rete di informatori e gli obbedì senza porre domande.
Sherlock sapeva che avrebbe potuto evitare quel pedinamento da film,
da amante geloso
se avesse chiesto a Mycroft di dirgli dove abitasse John. Era sicurissimo che il fratello lo sapesse, ma non voleva che si intromettesse nella sua vita più di quanto non avesse già fatto. L’auto del tenente Eames attraversò Londra, per fermarsi in un tranquillo quartiere di periferia, pieno di casette sicuramente abitate da membri della media borghesia, benestanti e benpensanti, onesti e rispettosi di regole e leggi. Il quartiere era pulito ed ordinato. Era strano che John non vivesse in una base militare, ma era meglio così. Gli sarebbe stato più facile avvicinarlo senza guardie e piantoni, pronti ad intervenire e a cacciarlo via.
L’auto si fermò davanti ad una palazzina di due piani, che non aveva gradini davanti all’ingresso. Guardando la disposizione delle finestre, si capiva che vi fossero appartamenti dal piano terra al secondo. Il taxi si fermò poco lontano. Sherlock avrebbe aspettato che John fosse entrato, per raggiungerlo e parlargli. Il tenente Eames scese dall’auto e corse ad aprire la portiera dalla parte di John. Sherlock non capiva il perché di quella mossa. John non era una dama accompagnata a casa dal suo corteggiatore, dopo una serata trascorsa insieme. Non aveva bisogno di nessuno che gli aprisse la portiera o la porta, per cortesia. Qualcosa di assurdo, un misto fra rabbia e gelosia crebbe dentro Sherlock. Era sicuro che Eames fosse sposato ed anche da poco. Non poteva avere una relazione con John!
Non con il mio John!
Honey fu la prima a scendere dall’auto. Sherlock vide che si fermava sul marciapiede, di fianco alla portiera spalancata e tenuta aperta da Eames. La cosa seguente che apparve, era qualcosa priva di senso. Sembravano delle stampelle. Finalmente apparve la testa di John, seguita dalle gambe. Il sangue si gelò nelle vene di Sherlock. Le gambe di John erano avvolte da dei tutori rigidi. Con estrema fatica, John si mise in piedi, spostò le stampelle leggermente in avanti, poi strisciò i piedi. Lentamente, come se ogni passo gli procurasse dolore e necessitasse di tutta l’energia che il dottore possedeva, John arrivò alla porta, che Eames gli aveva già aperto. Sherlock vide John salutare Eames con un sorriso riconoscente. Il tenente attese che il dottore entrasse e che la porta fosse chiusa, poi tornò alla propria auto e partì. Sherlock non sapeva cosa fare. L’orrore e la disperazione lo avevano travolto.
Cosa è successo, mentre non c’ero? Perché Mycroft non mi ha detto nulla? E io… cosa ho fatto… come ho potuto chiederti di correre con me, per le strade di Londra, a caccia di criminali? Avrai pensato che io sia un mostro… come ho fatto a non capire… a non vedere… io che notavo qualsiasi cosa diversa in te… anche se praticamente invisibile… come ho fatto a non notare che non ti muovevi come facevi prima? Quanto soffri a causa delle tue condizioni? È per questo che mi hai respinto? Pensi che io non possa accettarti? Non hai capito che farei qualsiasi cosa per te? Che accetterei qualsiasi cosa da te, pur di averti al mio fianco? Come posso farti tornare da me, senza ferire il tuo orgoglio e farti pensare che io stai agendo per pietà? Io ti voglio al mio fianco per egoismo. Perché, senza di te, la mia vita non ha più alcun significato.
“Capo, cosa facciamo?” La voce del taxista lo riportò alla realtà.
“Riportami a Baker Street,” ordinò Sherlock. Doveva tornare a casa. Doveva riflettere, per trovare la soluzione e le parole giuste. Doveva convincere John a tornare da lui. Sherlock era sicuro che il salotto di Baker Street gli avrebbe ispirato la soluzione giusta, perché quel posto era pieno della loro essenza e presto li avrebbe rivisti insieme.


Angolo dell’autrice


*Frasi da “The Empty Hearse”

Questo capitolo è soprattutto una sequenza di missing moment, che riguardano Sherlock ed il suo ritorno nel mondo dei “vivi”. Io mi sono divertita ad integrare ciò che vediamo in “The Empty Hearse” e spero che vi sia piaciuto. Allo stesso tempo, il caso non coinvolge Sherlock più di tanto, perché non c’è John, con cui condividere l’avventura.

Grazie ad emerenziano per la bellissima recensione lasciata al capitolo precedente.
Grazie a chi stia leggendo e segnando la storia in qualche categoria.

Ogni commento è sempre benvenuto.

A domenica prossima.

Ciao!
   
 
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