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Autore: Yellow Canadair    22/11/2016    2 recensioni
Sulla piazza era sceso il silenzio, e il sangue che scorreva sul sagrato sembrava avere la stessa voce di un fiume in piena, anche se la scia era lenta e scura.
Fu in quel momento che si fece largo tra la folla un uomo. Uno che non ci avresti scommesso due lire, che zoppicava pure e che chissà per quale ferita non era riuscito a infilarsi nemmeno una delle maniche della giacca.
Quello non era solo un disgraziato appena dimesso: era un agente del CP che aveva parecchia rabbia da smaltire.

Chi l’ha detto che il CP9 è sconfitto? Aspettate poi che metta le mani addosso a Spandam, e vedremo chi ha davvero perso, a Enies Lobby.
Genere: Avventura, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cipher Pool 9, Jabura, Kaku, Kalifa, Rob Lucci
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Dal CP9 al CP0 - storie da agenti segreti'
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Per rinfrescarsi la memoria: qui le Mini-Avventure del CP9 ("Missioni extra-curriculari del CP9"). 

 

 

La fine del temporale

 

I nostri scoprirono con molta facilità il motivo del fitto così basso: l’appartamento era disastrato. Non essendo riusciti a trovare di meglio, però, decisero di rimanere lì, perché difficilmente sarebbero riusciti a trovare una casa altrettanto grande allo stesso prezzo.

Le tre stanze da letto erano provvidenziali, altrimenti non sarebbero riusciti ad accontentare Califa che sbraitava sulle molestie sessuali ogni volta che qualcuno accennava al fatto che avrebbe dovuto dividere la stanza con un uomo: finì che le diedero la più piccola, ma almeno stava da sola; uno dei due letti che c’erano nella sua camera fu preso da Fukuro, che lo spostò nella stanza che avrebbe condiviso con Jabura.

Jabura e Kaku furono subito separati: non ci voleva proprio che cominciassero a litigare nel bel mezzo della notte! Il primo finì in camera con Fukuro, l’altro nella matrimoniale con Kumadori.

Siccome Jabura non la piantava di sfottere Kaku e Kumadori perché avrebbero dovuto condividere il letto, Kaku ribattè che almeno lui un letto per dormire ce l’aveva: Jabura entrò in quella che sarebbe stata camera sua, e si accorse che avrebbe dormito sul pavimento, almeno finché la padrona di casa non gli avrebbe portato un materasso.

Blueno si accontentò del salotto, dove c’era un divano-letto, ma quella che sembrò la scelta più sacrificata si rivelò invece la migliore: aveva tutto lo spazio che voleva e non doveva dividerlo con nessuno.

La postazione di Hattori fu sulla credenza nella cucina (che poi era anche ingresso e salotto). Per i suoi bisogni Kaku gli aveva predisposto una cassetta della frutta piena di vecchi giornali vicino alla stufa, ma il colombo non la usava mai: preferiva spiccare il volo dalla finestra e andare lontano da occhi indiscreti.

La mobilia era frutto di diversi robivecchi e di sostituzioni effettuate in casa della padrona, e attraverso i mobili si poteva ricostruire una sorta di cronologia: il pezzo più antico era il tavolo di marmo bianco in cucina, che fu prontamente soprannominato “la lapide”; poi c’era il letto matrimoniale con la testata in ferro battuto, tutto riccioli, della camera di Kaku e Kumadori; successivi erano i comodini di legno intagliato in camera di Califa, mentre la cucina aveva uno stile molto moderno, era di lacca rossa, e doveva risalire a pochi anni prima. Di età indefinibile (ma vecchio al punto che Kaku dovette sostituirgli tre doghe tarlate) era il baldacchino di Califa. Blueno aveva fatto il suo affare con il divano-letto di manifattura squisitamente settentrionale e lo benediceva ogni volta che andava a dormire.

Un solo bagno da dividere in sei (con Lucci, sette) sarebbe stato una sfida.

La casa aveva una serie di magagne che l’avevano resa sfitta per molto tempo: gli infissi bianchi, così belli a vedersi, erano talmente vecchi che il venticello di primavera entrava dagli spifferi come se ci fossero state le finestre aperte; lo scaldabagno non scaldava un bel nulla, e l’acqua calda in bagno arrivava solo con uno stratagemma: qualcuno doveva sempre prima aprire il rubinetto della cucina, e solo così l’acqua calda sarebbe arrivata anche al bagno; chiudere una porta senza chiave era impossibile, perché le maniglie erano così allentate che bastava la minima corrente d’aria per spalancare tutto; il riscaldamento funzionava poco e male, ma la padrona di casa aveva promesso di chiamare il tecnico per aggiustare la stufa (tecnico che però nessuno avrebbe mai visto); il già nominato letto di Califa aveva assolutamente bisogno di manutenzione; le prese di corrente con i fili esposti erano un vero e proprio attentato, specie con la cucina che funzionava con una bombola del gas.

A causa di ciò, Kaku quel pomeriggio fu esonerato dal cercare lavoro.

« Credo che le prese e i letti abbiano la precedenza » gli suggerì Califa osservando la casa; strizzava un po’ gli occhi perché a Enies Lobby le erano volati via chissà dove gli occhiali, ma riusciva a vedere anche senza lenti che le correggessero quel suo fastidioso mezzo grado di astigmatismo.

« Lascia fare a me » la rassicurò il carpentiere, che si era già fatto prestare gli attrezzi dal padre di famiglia che abitava al piano di sopra; non erano utensili di prima categoria come quelli che usava alla Galley-La, però potevano essere utili a qualcosa.

« Se proprio ti piace fare la Cenerentola… » lo canzonò Jabura.

« Mi piace che la casa dove vivo sia in ordine e funzionale! Vuoi che ti spenga lo scaldabagno mentre sei sotto la doccia? » si difese Kaku.

 

Mentre camminavano verso il centro di San Popula, sempre sotto la pioggia ma stavolta con degli ombrelli (santa la padrona di casa), Hattori spiccò il volo dalla spalla di Califa e volò via senza voltarsi indietro.

« Il suo spirito avrà sentito qualche rumore portato dalla pioggia che noi umani non possiamo udire? »  si domandò Kumadori rallentando il passo e gesticolando in maniera molto teatrale.

« No » avversò Califa. « Va verso l’ospedale »

Fukuro, allarmatissimo, si scucì la bocca: « Ah! E se avesse sentito davvero qualcosa? Magari Lucci che gridava! Che soffriva! Che moriv-

« Piantala con queste cazzate!!! » urlò Jabura schiantandolo al suolo e facendolo finire in una pozzanghera. « È un fottutissimo piccione, cazzo! Sta andando dal suo padrone perché ha voglia di farlo, tutto qui! Chiuditi quella zip! » e con un gesto netto tirò la lampo del compagno.

« Non riesco neanche a immaginarmelo, Rob Lucci che grida. » osservò pacato Blueno, e tutti quanti annuirono.

 

San Popula non era una città grande, e in mezzo pomeriggio Califa, Blueno, Jabura, Fukuro e Kumadori riuscirono a girare anche quei quartieri che in mattinata avevano dovuto trascurare.

La risposta era stata quasi sempre la stessa: “Siamo al completo, lasciateci il numero e magari se serve vi chiamiamo”. Forse era per via di Califa che parlava di molestie sessuali quando un commerciante la chiamava “bella signorina”, o forse per l’aspetto minaccioso di Jabura che andava in giro senza camicia (per forza: l’aveva prestata a Califa), o forse ancora perché Kumadori tentava il suicidio spaventando i clienti dei ristoranti, vai a saperlo.

Dopo essersi separato, il gruppetto si ritrovò nella piazza principale di San Popula e si sedette sconsolato sotto il loggiato del municipio, dove come loro tante persone si riposavano dalla passeggiata pomeridiana nel quartiere dello shopping.

Dal campanile della chiesa davanti a loro planò un colombo bianco e si posò quieto in grembo a Califa.

« Hattori! » lo riconobbe la donna. « Hai notizie di Lucci? »

Il piccione la guardò fisso, poi zampettò un po’ sulle gambe dell’ex segretaria, poi tornò a fissarla. Abituati a sentirlo parlare, seppur con la voce di Lucci, adesso era un po’ strano che Hattori non rispondesse come un essere umano.

« Credo intenda “nulla di nuovo”. Se ci fossero problemi, sarebbe agitato » tuonò Blueno mentre Hattori si guardava intorno alla ricerca di briciole cadute ai bambini che mangiavano ciambelle a poca distanza.

« Almeno lui riesce a trovare cibo senza problemi » considerò Fukuro scucendosi la bocca. « Noi abbiamo fame, non mangiamo da stamattina e abbiamo mangiato solo un po’ di pane! Chapapa! » si lagnò.

« Piantala! Un po’ di contegno! » lo sgridò Jabura.

« Invero lui ha ragione! » si sollevò in piedi Kumadori brandendo il suo bastone. « E me ne assumerò tutta la responsabilità! »

Un bambino che mangiava il gelato sotto un ombrellino arancione si fermò.

« Giornate senza cibo, giornate senza gloria, e con il futuro che ci è stato sottratto… quale mai sarà il nostro destino? Non v’è onore, non v’è giustizia, né un luogo caldo dove tornare questa sera! »

« Chapapa, veramente quello l’abbiamo » obiettò Fukuro.

I capelli di Kumadori si irradiarono nel grande loggiato, colorando di rosa lo scenario grigio delle pietre del pavimento. « Inutile è continuare il periglioso cammino! Non ho più forze, né so reggermi in piedi: corro con l’aiuto delle mani, non con veloci gambe. Non è più nulla, è come un bimbo, una vecchia impaurita, così siamo ridotti dopo una vita di sacrifici per la giustizia che sempre abbiamo difeso! »

Si fermarono due signore con la cerata sopra il tailleur a guardare lo spettacolo.

Kumadori cominciò a fare la predica a se stesso: « Tu gemi, tu dormi: non ti alzerai al più presto? Quale altro compito ti è destinato se non fare del male? Sonno e stanchezza, potenti congiurati! Hanno spento l’impeto della feroce idra. In sogno tu insegui la preda, e latri come un cane che mai abbandona l’affanno della fatica! »

Jabura cominciò a notare che molta gente si avvicinava e osservava Kumadori muoversi e recitare.

« Che fai? Lévati! Non ti vinca la stanchezza! Non scordarti, illanguidita dal sonno, l’offesa subita! »

Poi si rivolse al pubblico, che ormai era così tanto che non si vedeva più l’altro lato della piazza antistante al loggiato: « Ahi, ahi, sciagura! Cosa patimmo, compagne! Sì, molti dolori io soffersi, e invano! Tristissimo danno subimmo ahimè, un’intollerabile pena: dalle reti è sfuggita la fiera, è scomparsa. Vinta dal sonno ho perduto la preda! »

A quel punto, nel silenzio, il bambino col gelato, incantato da tutti i capelli che fluttuavano minacciosi nell’aria, esclamò: « Mamma, guarda che bravo l’uomo con il polpo in testa! »

« POLPO? » perse l’aura aulica Kumadori. « Chiamami almeno… leoooneeee maestoso!!! »

Silenzio.

Il bambino era atterrito.

Poi si sentì il rumore come di una cascata… di applausi. Un lungo applauso scrosciante chiuse l’esibizione di Kumadori.

E poi piovvero monete.

 

~

 

« Non posso fare una cosa simile… » piagnucolava Jabura.

« Ma certo che puoi, non è difficile… » replicava Blueno. « Vogliamo aiutare Lucci, vero? E pensa all’affitto. »

« È imbarazzante! Forse porta pure male! » protestò l’agente.

« Che assurdità. » considerò Blueno. « Forza, riprovaci. Qui non ti vede nessuno. »

Erano in un vicolo solitario in periferia e Blueno stava cercando di far trasformare Jabura in un lupo meno minaccioso di quando combatteva. Jabura non aveva mai pensato di usare una forma ibrida che incutesse poco timore, anzi, amava guardare le sue vittime sudare freddo e urlare mentre si ingigantiva sulle zampe posteriori.

« Nessuno ti darà un centesimo se farai paura ai bambini! »

Jabura ringhiò e si sforzò di apparire più piccolo e più peloso.

« Non è malissimo. » gli concesse alla fine Blueno. « Ma staresti molto meglio con il pelo azzurro e con il naso più grande »

« Per chi mi hai preso? Per uno stupido lupo da striscia a fumetti!? » latrò Jabura avviandosi a quattro zampe verso una piazza gremita di gente, sempre sotto l’ormai fedele compagnia della pioggia.

« Venghino, venghino, signore e signori! Il lupo oggi salterà nel cerchio di fuoco! Il salto mortale che potrebbe costargli la vita e che verrà eseguito sotto i vostri occhi!! » declamò Blueno con una voce profonda che raggiungeva tutti gli angoli della piazza.

Evitiamo di riportare i pensieri di Jabura riguardo quell’imbarazzante situazione in accordo con il regolamento di EFP che limita l’invettiva e l’uso eccessivo di termini volgari: giustifichiamo Jabura concedendogli che è dura passare da temuto agente del CP9 a lupacchiotto ammaestrato, seppur solo per finta.

La vista degli spiccioli e di qualche banconota che cadevano nel piattino di plastica ai piedi di Blueno, però, lo consolavano dell’umiliazione.

 

~

 

« Devo proprio fare una cosa simile? » sussurrò Kaku a Fukuro.

« Chapapa! Non ti preoccupare! È facile! Per non ucciderli basta stare fermissimi! »

« Davvero anche Jabura lo sta facendo? » chiese ancora il carpentiere.

« Sì! Si vergognava da morire e non voleva farla! Anzi prima ha detto che Lucci si poteva pagare le cure da solo! Poi però ha fatto una faccia tristissima, anche se si è girato io l’ho visto, e… »

« Va bene, va bene. » sorrise forzato Kaku. « Allora forza. »

E si mutò velocemente in un’elegante e aggraziata giraffa. Guardò verso il basso: era ad almeno sei metri di altezza. Se gli fosse capitato un Frutto del Diavolo più gestibile, sarebbe riuscito a dare molto più filo da torcere a Roronoa! Invece l’aveva affrontato quando aveva ancora poca dimestichezza con quel corpo, così assolutamente sproporzionato rispetto a quello umano. Pazienza, sospirò Kaku. Almeno le giraffe gli piacevano. Per abituarsi alle nuove dimensioni e servirsene (avere una lingua di mezzo metro era una sensazione stranissima) avrebbe avuto tutta la vita.

Con falcate lente attraversò una strada e si fermò di fianco a una chiesa proprio mentre uscivano i bambini dal catechismo.

Fukuro canticchiò a tutti: « Lo scivolo giraffa! Lo scivolo giraffa! Scivolate sul collo e sul suo morbido pelo! Con il sole o con questa pioggia, nessun bambino piange se c’è in giro lo scivolo giraffa! Due monetine e scivolerete a volontà, cinque monetine e potete darle da mangiare! »

Kaku pensava che, all’età di quei bambini così festosi che lo accarezzavano e gli dicevano “ti voglio bene!” con allegria e facilità, lui si stava già allenando per diventare un agente segreto spietato e ligio al dovere.

Con le lunghe orecchie sentiva la pioggia scrosciare e le monete cadere nel suo berretto rovesciato sul marciapiede, e pensava che presto il suo compagno sarebbe stato fuori pericolo.

 

~

 

Califa era l’unica a non aver intrapreso la carriera artistica; alla fine un lavoro vero l’aveva trovato: puliva i tetti della città per una ditta di pulizie piccolina (era composta da un unico membro), ma grazie al suo Frutto del Diavolo il lavoro era diventato semplice e veloce, e la pioggia sciacquava via la schiuma lasciando i tetti così puliti e lisci che i gli uccelli non riuscivano più ad appollaiarsi lì come al solito.

« Tieni, ragazza cara! » la gratificò il proprietario della ditta consegnandole un sacchetto risuonante di Berry. « E torna anche domani, ci hanno chiesto di pulire il tetto della cattedrale! »

« Questa… questa decisamente è una molestia sessuale! » commentò Califa facendo scoppiare a ridere il suo datore di lavoro. Per fortuna lui aveva inteso quella frase ricorrente come una sorta di tic involontario, e non ci dava peso.

A sera il gruppo di agenti si riunì sul viale davanti all’ospedale di San Popula, e si accomodò su un tavolino di pietra dove gli anziani giocavano a carte durante i giorni di sole. Califa, seduta al posto di comando, si fece consegnare a turno tutti i soldi dai suoi colleghi; appuntava la cifra di ognuno su un foglio di giornale trovato per strada con un mozzicone di matita e infilava monete e banconote in un barattolo di vetro; era protetta da un grande ombrello che reggeva Blueno, mentre gli altri stavano chi sotto la pioggia che ancora scendeva, chi sotto un ombrellino pieghevole mezzo rotto.

« Ho guadagnato più di te » disse Jabura, mentre si strizzava i capelli, per stuzzicare Kaku.

« Sta’ zitto, guarda Kumadori! » lo rimbeccò il carpentiere guardando l’agente dai capelli rosa consegnare a Califa un rotolo di banconote con fare da gran signore.

Mentre gli uomini si scambiavano vari “com’è andata” e “dove ti eri messo”, Califa faceva i calcoli. Leggeva e rileggeva, faceva i conti a mano e non aveva neanche una calcolatrice, quindi fece anche le prove ma alla fine il risultato era uno solo.

« Cosa accade? Forse che i calcoli ti sono avversi? » disse Kumadori notando la donna fare e rifare le operazioni.

« Non sono sufficienti, vero? » si preoccupò Kaku.

« Lucci è salvo » asserì la donna reggendo il barattolo « Abbiamo guadagnato tutta la cifra! Intera, non a rate! »

« IL MIRACOLO! Gioia e tripudio! » esplose Kumadori « Avvinghiamoci orsù in un abbraccio collettivo » urlò avvolgendo tutti con i suoi capelli morbidi e rosa, anche se ormai tutti bagnati dalla pioggia « Yoyoi! Si porti in trionfo l’agognato premio nelle mani dell’infido direttore! »

« Ehi! Ehi! Questa è molestia sessuale! » protestò Califa, sballottata come una bambolina al petto del collega.

« Abbiamo di che essere soddisfatti. » ammise Kaku con sollievo.

Blueno era tranquillo, e lasciava che Kumadori si calmasse e si decidesse a metterlo giù.

« Jabura è finito vicino a Califa e sta arrossendo! » notò allegramente Fukuro con i piedi penzoloni.

« Chiuditi quella boccaccia! Non è assolutamente vero! » sbraitò il diretto interessato.

« E Califa indossa ancora la tua giacca, mentre tu sei costretto ad andare in giro nudo… » insinuò Fukuro.

« Questa giornata non sia lesa da litigi inutili! » proclamò Kumadori. « Lucci ci aspetta! » disse indicando l’ospedale dalle finestre illuminate.

Hattori si alzò in volo e li precedette verso la porta a vetri dell’ingresso.

 

~

 

« Dunque dunque dunque » cantilenò un chirurgo che aveva appena preso servizio, quella sera all’ospedale di San Popula. « Vediamo cosa c’è in programma oggi » mormorò guardando i fogli lasciati lì dalle infermiere.

Era un bravo chirurgo, in servizio da almeno vent’anni ed era stato persino mandato, in gioventù, a prestare servizio in zone militari dove ne aveva viste di tutti i colori. Tuttavia era un tipo allegro e non aveva permesso che tanta sofferenza e tanta morte lo rattristassero; portava una salopette sotto il camice sbottonato e una gran capigliatura di capelli afro, uno degli ingredienti fondamentali per la sua forza d’animo. Si chiamava Fitto, sia di nome che di cognome. Quando i suoi amici lo chiamavano, dicevano sempre: “Fitto-Fitto!”.

Entrò nella stanza il primario Charlotte Gelatine, salutò il chirurgo e disse tristemente: « La aspetto nella sala operatoria numero due, dottor Fitto. Operiamo un ragazzo arrivato stamattina, lei è il Primo Aiuto. »

« Capi d’accusa? » domandò Fitto.

« Si dice “sintomi”, o anche “diagnosi”, se vuole. Non che le due cose siano sinonimi, certo… » spiegò rassegnata Gelatine, poi sospirò: « Una rissa. È un codice rosso, e… »

Fitto-Fitto la interruppe stupefatto: « Un codice rosso arrivato stamattina?! E stavate aspettando me per operarlo? »

Charlotte Gelatine tentennò, lisciandosi i capelli neri striati di bianco, e il chirurgo continuò: « Fammi indovinare. Il direttore ha rotto il cazzo un’altra volta. »

« Ho scritto a mia madre, quell’uomo mette a rischio la vita di molte persone. » si rattristò. « Siamo riusciti a stabilizzarlo stamane, e i suoi amici sono stati bravissimi a trovare i soldi per l’operazione. »

« Certo certo certo. Basta parlare, quel poveretto sta aspettando da una giornata intera di essere salvato. Andiamo. Che schifo, che vergogna per noi… » si avviò indignato il chirurgo. « Mi lavo e arrivo in sala. » intendeva la disinfezione, di prassi prima degli interventi. « Lei mi preceda, e chiami l’infermiera Ann come assistente di sala e l’anestesista di turno. »

Charlotte Gelatine camminò lemme per il corridoio con la grazia di un fantasma fluttuante, e infine arrivò nella stanza che occupava Rob Lucci.

La luce era bassa, tutto taceva.

Si avvicinò al lettino e sfiorò con una carezza materna il volto dell’uomo.

Pensò al barattolo di soldi bagnati che uno squinternato gruppo di amici le aveva messo tra le mani. « Sei un giovanotto fortunato. E anche molto amato. »

 

~

 

Era notte quando l’equipe del dottor Fitto e della dottoressa Charlotte uscì dalla sala operatoria. Erano stanchi e molto arrabbiati con il direttore, che aveva rimandato pericolosamente il soccorso a quel ragazzo; non era la prima volta che quel burocrate rifiutava codici rossi per questioni economiche. Fitto, poi, non aveva smesso di imprecare finché l’infermiera Ann non gli aveva ricordato che il paziente avrebbe sofferto di più se lui non ritrovava la lucidità necessaria a operare.

Il primario Charlotte, tuttavia, ritenne che sarebbe stato gentile dare a quei bravi ragazzi notizie del loro amico. Si affacciò alla sala d’attesa del reparto di chirurgia e li trovò tutti lì: chi seduto, chi steso sulle sedioline di plastica, chi addormentato sul pavimento. Una colomba bianca, sul davanzale della finestra, battè le ali verso di lei.

Il ragazzetto biondo con i basettoni le si avvicinò subito, senza parlare, seguito dalla donna.

« È fuori pericolo. » annunciò la dottoressa Charlotte.

Kaku espirò, coprendosi il viso con le mani e rilassando le spalle. Califa tirò un grandissimo sospiro mentre, accanto a Kaku, ascoltava le parole della dottoressa. Cercò di mantenere un piglio serio e di arginare le emozioni, ma le parole del primario le suonavano distanti: dopo quel “fuori pericolo” la testa sembrava essersi spenta, l’adrenalina e la caparbietà che l’avevano sorretta parevano essere scomparse. Aveva solo una vaga percezione di Hattori, sulla sua testa, che volava festoso.

Non potete vederlo ancora... terapia intensiva... domani... una bella dormita... siete stati così bravi! L’avete salvato voi.

Mentre la dottoressa Charlotte si allontanava, la donna cadde in ginocchio per terra.

« Califa piange. » notò Fukuro scucendosi la bocca.

« Non è il momento, stupido. » lo rimbeccò Jabura. « Lasciala in pace. »

 

~

 

Dormirono sui materassi spogli e gli andava benissimo anche così.

La padrona di casa ne aveva recuperato solo uno, che Jabura e Fukuro trascinarono su per le scale e poi nella loro stanza; Jabura ci si schiantò sopra e cominciò subito a russare.

Califa dormì immobile tutta la notte con i piedi uniti e le braccia larghe, a pancia in giù, così come si era lasciata cadere sul letto.

Kaku sorrideva mentre ascoltava Kumadori recitare le prime strofe di una poesia sulla notte, ma si addormentò senza arrivare nemmeno al terzo verso; ma tanto, neanche Kumadori ci arrivò, che russò alla metà del secondo.

Blueno riuscì a caricare la macchinetta del caffè così da dover solo accendere il fornello la mattina seguente: certe abitudini sono dure a morire.

Hattori invece, lontano da quella casa, si ritagliò un angolino per dormire su un albero proprio di fronte alla camera di degenza di Lucci. Anche se la luce era spenta, il colombo sapeva che oltre quei vetri il suo amico stava guarendo e presto si sarebbe svegliato, e con questo pensiero nel cuore si addormentò così profondamente da non accorgersi che, nel frattempo, il temporale era finito.

 

 

 

 

Dietro le quinte…

Torniamo a parlare di Kumadori! Alla fine è quasi sempre per lui che devo scrivere tutte queste note a fine capitolo! 

Durante la scena nel loggiato recita alcuni versi tratti da “Le Eumenidi” di Eschilo. 

Grazie a Rob Lucci ho imparato un sacco di cosine su cosa succede quando una persona va in coma farmacologico e viene operata, cosa che mi fa pensare che piuttosto che sottopormi a qualcosa di simile scapperò come un missile... meno male che non dovrò mai venire alle mani con Rufy! 

Chi indovina l'allusione al "lupo con il pelo azzurro da striscia a fumetti" vince un biscottino ♥ gli/le sarà recapitato da Jabura.

Grazie per aver letto, coraggiosi eroi! 

A presto,

Yellow Canadair

  
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