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Autore: Ellery    09/12/2016    3 recensioni
Francia, Marzo 1942 - Un piccolo caccia della Royal Air Force viene abbattuto nella campagna francese, lungo il Fronte Occidentale. Per i due piloti non c'è alcuna speranza: catturati da una brigata tedesca, torturati per informazioni su una importante azione militare degli Alleati. Allo spietato capitano Weilman si contrappone il Maggiore Erwin Smith, altrettanto desideroso di ottenere informazioni; almen fino a che qualcosa non scatterà nella mente del giovane ufficiale, portando alla luce vecchi debiti e promesse.
Aveva cercato in tutti i modi di tenere su l’aereo, tirando al massimo la cloche, sterzando ripetutamente per non costringere il piccolo caccia allo stallo, ma era stato tutto inutile: le ali non riuscivano a catturare correttamente l’aria, trapassate come erano, mentre dal motore usciva una scia di fumo nero.
La ff, a più capitoli, si propone di partecipare alla Challenge AU indetta sul forum da Donnie TZ. Prompt: Historical AU! IIWW = seconda guerra mondiale.
Genere: Guerra, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Farlan, Church, Hanji, Zoe, Irvin, Smith
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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27. Mani che uccidono
 

Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Dintorni di Le Blanc.
 

Erwin finì di riporre i piatti sciacquati, lasciandoli sgocciolare accanto al lavabo. In cucina erano rimasti soltanto lui e Mike. Nanaba aveva distribuito i turni di ronda ai suoi uomini prima di sparire. Levi si era dichiarato troppo stanco ed Alain lo aveva accompagnato in una stanza sul retro, che fungeva da dormitorio.
Non gli era rimasto altro da fare che rassettare la cucina, sotto lo sguardo attento dell’amico, troppo intento ad arrotolare delle improvvisate sigarette per aiutarlo con le faccende.

«Da quando fumi?» chiese, rompendo il silenzio sceso nella stanza.

«Non sono per me. Ai ragazzi piace il tabacco. Quando riusciamo a recuperarne, lo sfruttiamo a dovere» un sorriso ad accompagnare quelle parole «Lo abbiamo trovato sul vostro camion. Non lo avevate visto?»

Scosse il capo. Non avevano frugato il mezzo tanto a fondo. Tornò verso il tavolo, accomodandosi:
«Come sei finito qui?» domandò, adagiando la schiena contro la spalliera della seggiola.

«Lunga storia»

«Abbiamo tutta la notte»

«Non sei stanco? Il tuo compare è già scappato a dormire» i tentativi di Mike di deviare il discorso caddero nel nulla.

«Non proprio. Perché sei scappato?»

«Per il tuo stesso motivo, te l’ho detto. Questa non è la Germania che sognavo, né quella che ci avevano promesso. L’avevo capito già allora, persino prima di te» un sorriso bagnò le labbra sottili «Devi ammettere che, per una volta, sono stato io quello più in gamba»

«Il che è strano…» Erwin non riuscì a trattenere un pizzico di ironia. Ricordava perfettamente il giorno della scomparsa. La notizia era risuonata per tutto il campo: il soldato semplice Zacharias era fuggito, abbandonando la branda in piena notte. Aveva lasciato soltanto una lettera, in cui spiegava sommariamente le proprie ragioni; soltanto gli ufficiali, però, l’avevano letta. Come avesse eluso i controlli rimaneva un mistero: forse aveva dei complici? Il sospetto era ricaduto immediatamente sugli amici più stretti: lui e Nile erano stati interrogati per giorni interi e, alla fine, dichiarati estranei ai fatti. I superiori, tuttavia, avevano immediatamente allertato la Gestapo, diramando l’identikit e l’ordine di cattura. Nile, coinvolto nelle ricerche, si era immediatamente adoperato per nascondere ogni possibile traccia «Che cosa hai fatto, dopo aver disertato?»

«Ho raggiunto Reims ed ho cercato un passaggio per Parigi. Speravo di confondermi nel via vai della capitale e trovare un modo per arrivare nella Repubblica. Fortunatamente, non avevo nessun Weilman alle calcagna, ma solo un branco di poliziotti idioti» una pausa, mentre il fruscio delle foglie di tabacco spezzava, a tratti, la quiete calata nella cucina «Non ho mai raggiunto Vichy, naturalmente. All’altezza di Orléans mi sono imbattuto in Nanaba e… non so spiegarti cosa sia accaduto. Semplicemente, abbiamo deciso che valeva la pena combattere insieme»

«Che assurdità! Non tentare di rifilarmi una storiella da quattro soldi. Cos’è successo?»

«Usava la locanda di famiglia come base per la resistenza: registrava informazioni, nascondeva spie, smistava la corrispondenza e la indirizzava ai vari gruppi ribelli. Quando arrivai, capì subito che ero un fuggiasco. Mi mise sotto torchio e mi fece sputare la verità. Mi concesse di rimanere alla taverna per qualche giorno, in attesa di un passaggio per Vichy» un nuovo ghignetto, ad accompagnare quelle parole «Le sue attività, però, erano già nel mirino della Polizia Militare. Il mattino seguente, due soldati bussarono alla porta. Temevo fossero lì per me, ma dovetti ricredermi in fretta: avevano un mandato di perquisizione dei locali ed uno d’arresto per Nanaba. Chiunque avesse inviato quei due malcapitati, doveva essere un ingenuo ed uno sprovveduto: chi ha detto che una locandiera non può essere fonte di guai?»

«Cos’ha fatto?»

«Davanti all’ordinanza, si è finta spaventata e contrita, come una giovane contadinotta troppo ignorante e sottomessa per difendersi. Ha fatto accomodare i soldati in cucina, servendo loro zuppa calda e buon vino. Ha balbettato qualche scusa sulle camere in disordine, sui clienti esigenti e sulla possibilità di fare una piccola valigia. Era pronta a seguirli, ma le avrebbero concesso di portare con sé almeno un piccolo bagaglio? Quei due idioti hanno abboccato.

Ha fatto sgombrare il locale e con quella scusa è salita al piano superiore. Mi ha affidato la corrispondenza per gli insorti e mi ha fatto uscire insieme agli altri avventori. Nessuno si è accorto di me. Mi aveva lasciato una sola istruzione: incontrarci a Tigy, entro due giorni. Avrei dovuto cercarla nella bottega del maniscalco, l’unico rimasto in città.

Ha appiccato il fuoco al piano superiore e la sua stessa locanda. Nella confusione generale, è fuggita. Non so che fine abbiano fatto i due soldati: forse sono riusciti a fuggire oppure sono morti nell’incendio.»

«Una donna decisamente fuori dal comune»

«Non l’avrei sposata, se così non fosse» Mike aveva recuperato un paio di bicchieri e gli stava versando del vino corposo «Ci siamo ritrovati a Tigy e abbiamo proseguito fino a Le Blanc. Abbiamo raccolto alcuni compagni, in questo viaggio: reietti, per lo più. Ricercati, ladri e persino un prete! Alain ha appeso la tunica al chiodo per imbracciare il fucile. Ci siamo stabiliti qui ed abbiamo mantenuto i rapporti con la resistenza francese. Custodiamo il confine e ci sforziamo di complicare la vita ai tedeschi»

«Avete rapporti con la Repubblica?»

«Sì! Nanaba è abbastanza conosciuta a Limoges, e io stesso sono stato più volte alla base, per prendere consegne e recuperare materiale e munizioni. Attraversare il confine non è semplice, ma nemmeno impossibile. Ce la faremo, vedrai… vi porterò dagli Alleati sani e salvi»

Erwin studiò il vino nel bicchiere, prima di assaggiarlo. Era un rosso dal sapore intenso, che risvegliò immediatamente i suoi sensi intorpiditi:
«Buono» commentò, prendendo un secondo sorso «Non capisco cosa le sia preso, però, poco fa. Ha parlato di un debito che avrei nei suoi confronti, ma… temo di non aver compreso.»

«Mi dispiace, ma credo dovresti parlare direttamente con lei.»

«Sai a cosa si stava riferendo?»

Vide Mike alzarsi e ritirare i bicchieri, ancora mezzi pieni «Si è fatto tardi. È meglio andare a dormire, Erwin.»


***


La camera che li ospitava era piuttosto spaziosa e completamente sgombera di mobili: solo qualche vecchia valigia si intravedeva negli angoli, accompagnata da bauli e cumuli di vestiti. Dei giacigli erano stati allestiti al suolo, sfruttando paglia e foglie secche. Quando era rientrato dalla cucina, li aveva trovati quasi tutti occupati dai ribelli.

Aveva dovuto dividere il pagliericcio con l’inglese, rannicchiandosi sotto una coperta ruvida e pungente, affatto sufficiente a proteggerlo dal freddo notturno. La sala era troppo vasta per poter contare su un buon sistema di riscaldamento, anche se accanto alla porta stanziava una stufa a legna, ormai spenta.

Levi aveva nuovamente cercato di sfilargli le coperte, ma senza successo: aveva puntellato gli angoli della trapunta sotto i gomiti e le ginocchia, stringendoli per evitare che l’altro glieli rubasse. Dopo qualche ora di inutili lotte, l’inglese si era addossato alla sua schiena, probabilmente scambiandolo per una borsa dell’acqua calda. La nota peggiore, tuttavia, era stato il russare di Alain, a poca distanza.

Si era addormentato tardi, ma si svegliò troppo presto: la luce del sole, filtrata dalle vecchie imposte, cadde direttamente sui suoi occhi, strappandolo al sonno agitato.

Erwin si mise a sedere, stropicciando le palpebre e nascondendo uno sbadiglio col dorso della mancina. Che ore potevano essere? Non ne aveva idea, ma il colore rosato che si intravedeva dalle finestre annunciava una chiara alba.

Gettò una occhiata alla camerata. I giacigli erano tutti occupati, tranne uno: quello accanto a Mike era stato frettolosamente abbandonato.
Si alzò, infilando gli stivali.

«Dove vai?» la voce impastata di Levi lo fermò, costringendolo ad abbassare lo sguardo sull’aviatore che, da sopra il bordo della coperta, lo stava osservando.

«Qui fuori.»

«Non andartene. Resta con me. Eri caldo»

«Hai la coperta tutta per te. Non ti basta?»

«Ho freddo…»

Sbuffò, togliendosi la giacca scura e lasciandola sulle spalle dell’inglese:
«Che lagna sei, quando ti ci metti» mormorò con una sfumatura ironica, prima di scivolare via «Dormi ancora un po’, se vuoi. È pres…» non terminò neppure la frase: il compagno si era già riassopito.

Tornò sui propri passi, oltrepassando il corridoio principale della costruzione, gettando delle occhiate curiose tutt’attorno: la stanza da notte si trovava sul retro dell’edificio ed era collegata alle altre stanze tramite uno stretto e scuro corridoio. A destra, si trovava la ampia cucina, mentre sulla sinistra una camera da letto, un bagno ed un piccolo soggiorno. I mobili cadenti e polverosi capeggiavano in ogni sala, ingombri di lettere e mappe. In un angolo del tinello stanziava una cassa di munizioni, consumata per metà.

Poco oltre, una ripida scala di legno conduceva al piano superiore. Saggiò il primo scalino con la punta dello stivale, sentendolo scricchiolare.

«Che stai facendo?» la voce femminile si fece immediatamente sentire, mentre la figura di Nanaba spuntava dalla cucina: indossava una larga camicia color senape e dei pantaloni consumati, abbinati agli scarponi rovinati; senza dubbio, abiti di seconda mano.

«Ti cercavo» Erwin si affrettò a raggiungerla, ma la donna gli indicò l’esterno, prima di caricarsi un fucile sulle spalle.

«È il mio turno di guardia» fu l’unica spiegazione «Dove hai lasciato la tua giacca?»

«Levi aveva freddo»

«Congelerai in maniche di camicia»

«Farò del mio meglio per resistere»

Sgattaiolarono oltre la soglia, attraversando l’aia in direzione di una improvvisata torretta di guardia, ottenuta dai resti di un vecchio silos. Nanaba si arrampicò sulla scaletta esterna, facendogli segno di fare altrettanto. La seguì senza fiatare, pregando silenziosamente che i pioli arrugginiti non si staccassero all’improvviso e lo gettassero nel vuoto. Contò mentalmente i gradini, stimando l’altezza della costruzione: tre metri, prima che la salita verticale si concludesse in una piattaforma di legno consumato, più simile ad un balconcino privo di ringhiera.

Si sedette accanto alla donna che, nel mentre, si era accovacciata per caricare il fucile.
«Posso…» attaccò, ma l’altra lo zittì con un’occhiataccia.

«Non ora»

Si strinse nelle spalle, tacendo nuovamente. Lasciò spaziare lo sguardo: la costruzione era una fatiscente cascina, abbandonata da chissà quanto tempo. Le tegole mancavano in più punti e le assi del tetto lasciavano intravedere la soffitta sottostante, completamente spoglia ed ostaggio di piante rampicanti.
L’edera si snodava per buona parte della facciata, correndo sino al primo piano, dove alcune imposte pendevano inerti dai cardini. Le finestre mostravano vetri troppo opachi, coperti di ragnatele e, in un paio di casi, completamente mancanti. Scendendo al piano terra, si notava soltanto la porta d’ingresso forata dal continuo lavoro dei tarli; la stessa sorte era toccata alle persiane ed agli infissi. L’intonaco color crema era scrostato in più punti e lasciava intravedere i mattoni sottostanti. La cascina non possedeva una recinzione, fatta eccezione per alcuni rovi che accompagnavano lo snodarsi del cortile sterrato. Il camion era fermo al centro di quest’ultimo, stretto tra un pozzo ed un pollaio abbandonato.

«Che cosa è successo laggiù?» chiese, indicando l’angolo destro della cascina: un tetto sporgeva a lato della costruzione, coperto di tegole spezzate.

I muri della costruzione, una volta a ridosso dell’edificio principale, apparivano completamente demoliti. Sotto la tettoia si apriva una sorta di voragine artificiale, profonda almeno cinque metri, che dal primo piano conduceva dritto ad una specie di scantinato. Delle scale, incastrate nel pavimento ruvido dell’aia, scendevano nelle viscere di quel cratere, cinte da una ringhiera malferma.

«Una bomba, durante la guerra del quattordici-diciotto. Abbiamo trovato una foto della cascina appena costruita e… quella era una rimessa, un tempo. L’esplosione l’ha completamente distrutta, scavando quel foro che vedi. Si è salvata soltanto la tettoia, qualche brandello di muro e null’altro.» l’indice di Nanaba indicò il primo piano e poi lo scantinato che si intravedeva sul fondo della voragine «Quella doveva essere la cantina dove tenevano le riserve di vino. Non c’è nulla, ormai, a parte la pila di calcinacci che vedi sul fondo»

Tornò a muovere lo sguardo, abbracciando il paesaggio circostante: la cascina era l’unica costruzione in una vallata stretta, accerchiata da colline dai pendii irti e boscosi. Solo a tratti si scorgevano delle zone più brulle e deserte, dove la fragilità del terreno aveva impedito agli alberi di porre solide radici, favorendo arbusti più bassi e rustici. Lungo il fondo della valle correva un ruscello minuto, accompagnato da un’unica strada sterrata che si snodava da nord in tre branche: la prima, quella più ripida, saliva lungo le pendici della collina e correva sino alla cascina, arroccata a circa metà versante. Le altre due correvano verso sud e sud-est; la prima portava dritta al confine da cui giungevano, da qualche ora, gli iniziali suoni della battaglia: il tuonare dei mortai e dei carrarmati si mescolava alle grida, disperdendosi in una eco leggera che attraversava l’intera vallata prima di annullarsi tra il sibilare della brezza mattutina. La seconda, al contrario, deviava lateralmente, fornendo una rapida via d’uscita dalla vallata e tornando a perdersi nella vicina campagna incolta.

Percepì uno scatto secco alla propria destra e scorse Nanaba adagiare il fucile sulle ginocchia.

«Ora posso?» domandò, riportando l’attenzione sulla donna.

«Se proprio devi…»

«Sì» non avrebbe ceduto, nemmeno davanti a quelle risposte fredde e scontrose «Perché ce l’hai con me? Ieri sera hai citato Hannut e hai parlato di un debito nei confronti della tua famiglia. Continuo a non capire, però»

«Non credo sia importante; e non voglio parlarne con te»

«Mi detesti, questo è evidente. Ho il diritto di sapere perché, non credi?»

«Affatto. In realtà, penso che non dovresti avere alcun diritto, né avanzare pretese.» una pausa, le dita affusolate ad accarezzare l’arma «È un miracolo se sei vivo, sai? Dovresti ringraziare Mike. Se non fosse stato per lui, ti avrei regalato un buco in pancia»

«Cos’hai contro di me?»

«Se anche te lo dicessi, non cambierebbe nulla»

«Forse, ma… vuoi il mio aiuto. Credo che una spiegazione sia dovuta»

La sentì sbuffare e produrre una risatina nervosa, quasi irritata:
«Maxime era un carrista, uno dei migliori. Si era arruolato nell’esercito soltanto sei mesi prima, ma aveva un talento innato nel guidare quei bestioni. Gli piacevano così tanto. Li aveva sempre ammirati, sin da piccolo: li trovava potenti, inarrestabili, mastodontici. Dei lenti giganti di metallo. Aveva dimostrato di saperli pilotare e gestire: nonostante fosse una semplice recluta, gli era stato assegnato un ARL 44.» gli occhi della donna si puntarono nei suoi «Te lo ricordi? Era in testa al piccolo convoglio che hai distrutto. Dieci carrarmati in marcia verso Hannut, come rinforzo per l’esercito francese, che hanno avuto la sfortuna di imbattersi in te. Ho letto i rapporti: hai distrutto i cingolati usando pece, calzini e polvere da sparo. Un piano geniale, senza dubbio.» Nanaba non lo stava più guardando «Max è stato uno dei primi a lasciare l’ARL 44, ma… non è riuscito nemmeno a scappare. I tuoi maledetti cecchini lo hanno falciato. Li avete uccisi tutti, senza nemmeno permettere una resa. Li avete massacrati.»

«Lo so» chinò il capo, fissando la punta dei propri stivali. Il vento umido del mattino sferzava la camicia, arrivando a ferirgli la pelle. Rabbrividì, senza comprendere se fosse per causa del freddo o del rimorso.

«Max aveva diciannove anni ed era mio fratello»

«Mi dispiace»

«Non è vero. Non mentire.»

«Sbagli» serrò i pugni, appoggiandoli sulle ginocchia. Evidentemente, le buone azioni non bastavano a cancellare i rimpianti, che rimanevano incastrati tra i fili di una coscienza troppo sporca per conoscere il perdono.
Scosse il capo, permettendo alla voce di sfociare con una nota risoluta:

«Credi che se potessi tornare indietro, non rimedierei? Non vado fiero di quello che ho fatto. Hannut è la mia più grande vergogna, ma non posso fare altro che portarne il peso. Non posso cancellarla, né nasconderla o dimenticarla. Posso solo conviverci: stringere i denti e guardare oltre, continuando in questo assurdo cammino che mi hanno imposto. Pensi che sia sereno? Che non abbia rimorsi? Sbagli, nuovamente. Li rivedo ogni notte, quei volti: non mi abbandonano mai, non mi lasciano neppure un’ora di tregua. Sono sempre lì, nascosti tra i veli dei sogni, a ricordarmi i miei peccati.»

«Non cercare compassione. Non mi fai pena. Ti detesto soltanto»

«Non posso biasimarti, ma non ho la pretesa di capire i tuoi sentimenti. Non tentare, quindi, a sminuire i miei. Ho provato tante volte a lavare queste mani troppo sporche, ma il sangue non può essere pulito con un semplice colpo di spugna. Scivola dalle mie dita sino al cuore, mescolandosi al mio. Non sono una persona, quanto più un mostro fatto di paura, urla e dolore; di famiglie distrutte, di amici spezzati e di amanti separati.

Vuoi spararmi? Fallo, avanti! Vendica tuo fratello e libera il suo assassino. Confesso che, dopo tutto, la morte non mi spaventa più come un tempo: l’ho servita troppo a lungo, per poterla temere. Mi accoglierà come un vecchio amico, stringendomi tra le sue braccia ossute. Il pensiero di raggiungerla mi ha sfiorato molte volte, soprattutto dopo Hannut, ma… non è così semplice; come potrei abbandonare tutto, senza neppure provare a riscattarmi? Sarebbe l’ultimo gesto meschino di una vita codarda e non potrei sopportarlo. Non posso cancellare, né dimenticare o porre rimedio, ma forse posso ancora redimermi: non agli occhi di Dio, ma a quelli degli uomini.»

«Non vai fiero delle tue imprese, maggiore Smith?»

«Non voglio essere ricordato per il massacro di Hannut: non vi è nulla di geniale o di eroico; è solo l’ennesimo sbaglio di un peccatore. L’ennesimo sbaglio che mi costringe a calcare questa terra, a vagare per un perdono che mai otterrò. Puoi uccidermi, ma la mia vita non ti renderà quello che hai perso. Spara ed allevierai soltanto le sofferenze di un animo sconfitto ed umiliato; mi libererai dalla schiavitù delle colpe, che condividono il mio letto come amanti insidiose.»

La vide accarezzare nuovamente il fucile, ma senza sollevarlo:
«Pensi che morire sia una soluzione?»

«No. Non so cosa sia, sinceramente. Da un lato, sono pronto ad accoglierla; dall’altro vorrei rimandarla, ma non per paura. Vorrei trovare un modo per riparare ai miei torti, prima di andarmene. Preferirei essere in pace, quando la morte mi chiamerà. Però, capisco e condivido il tuo desiderio. Non mi opporrò alla tua scelta.»

«Inginocchiati»

Aggrottò la fronte a quell’ordine. Non ne comprendeva il senso, ma si limitò ad eseguire, in perfetto silenzio. Piegò le gambe, poggiando le rotule a terra e sistemando le mani sulla tela scura dei pantaloni. Colse la bocca del fucile premere sul suo petto, poco sotto la spalla sinistra.

Increspò le labbra in un sorriso amaro, mentre il cuore accelerava istintivamente. Si sforzò di mantenere una apparente calma, mentre nella testa si affollavano una miriade di pensieri: desiderava realmente morire? Forse, ma ora che il momento era giunto, non ne era del tutto certo. Sentiva d’avere ancora parecchie cose da fare, faccende in sospeso a cui porre rimedio: accompagnare Levi a Limoges, tornare a salutare Hanji, ringraziare Nile e Mike, congedarsi da quel mondo a tratti crudele e a tratti meraviglioso. Finiva così la sua vita, stretta nell’abbraccio di irte colline indorate dai raggi del mattino, cullata dalla brezza fredda che gli sferzava il viso e scompigliava i capelli.

«Guardami»

Rialzò le iridi, percorrendo l’intera lunghezza della canna dell’arma, prima di risalire ai contorni della donna, sino al suo viso. Si sforzò di non abbassare gli occhi, di non battere neppure le palpebre. Non le avrebbe concesso la soddisfazione di vederlo chinare il capo e tremare.

«Hai paura» il fucile si allontanò dal suo viso e venne nuovamente appoggiato al suolo.

Nanaba si accucciò di fronte a lui, scrutandolo con maggiore attenzione:
«Hai paura» ripeté «L’ho letta nei tuoi occhi. Hai paura di morire, come tutti. Fingi che non sia così; ostenti coraggio e risolutezza, ma… in fondo, non sei altro che un patetico essere umano. Come lo sono io, come lo è Mike, come lo era Max. Siamo uguali, in fin dei conti.» la donna scosse il capo, tornando a spiare l’orizzonte rosato «Non ti meriti nemmeno un proiettile in testa: sarebbe troppo semplice e sarebbe un favore. Non ti offrirò questa via di uscita. Rimarrai in questa prigione fino a che Dio vorrà. Continuerai a camminare con il peso delle colpe sulle spalle; ogni notte, le vite che hai rubato torneranno a visitarti, a distruggere i tuoi sogni, a ricordarti perché ancora esisti. Non c’è inferno peggiore di questo, per te.»

«Lo so»

«Vuoi fare la cosa giusta? Allora aiutaci.» il braccio della donna spaziò sulla valle «So che puoi farlo. I tedeschi arriveranno; cercheranno di passare per raggiungere il confine. Trova un modo per fermarli»

«Non so se ne sarò in grado. Non so nulla di questa zona»

«Non sarà un problema. Ti darò le mie mappe per studiare il territorio. Non conoscevi neppure Hannut, ma guarda cosa sei stato in grado di fare»

«Sono stanco di uccidere. Non ho fatto altro per tutta la vita. Forse non ho premuto direttamente il grilletto, ma ho ordinato di farlo. I soldati mi hanno soltanto obbedito; il sangue sparso non ricadrà sulle loro spalle, ma sulle mie e… non voglio più portare questa giara che, di giorno in giorno, si colma sempre di più»

«Le tue mani sono fatte per uccidere, maggiore Smith. Non puoi farci niente. Puoi solo scegliere da che parte stare. Tedeschi, francesi… siamo tutti sudici, in questa guerra che non accenna a finire. Ci sono morti, però, che servono a salvare altre vite.» Nanaba si voltò, raggiungendo il bordo della piattaforma «Sono i due lati di una amara medaglia: uccidere un nazista per noi è bene. Non ci soffermiamo mai a pensare che, senza dubbio, sotto la divisa nera e le aquile argentate si nasconde il figlio di un panettiere, il fratello di una sarta, un padre che cerca solo di sfamare la propria famiglia.

Uccidere un ribelle, per loro è bene: non possono sapere che i vestiti strappati e le mani callose celano un contadino stanco di vedere i propri raccolti distrutti; un prete che ha voltato le spalle alla sua canonica per liberare la Francia; una locandiera che ha bruciato la sua taverna per salvare un disertore. Siamo uguali, in fondo, anche se crediamo in ideali diversi. Sono questi ideali che ci portano a scontrarci, a massacrarci a vicenda, ad alimentare una guerra infinita. Possiamo cambiare le cose? Non dipende da noi, non del tutto. Siamo pedine che contribuiscono a giocare una enorme partita; però, anche una pedina, per quanto insignificante, può portare alla vittoria.
Combatteremo finché la Francia non sarà libera. Combatterete finché l’Europa non sarà in ginocchio davanti al Terzo Reich.

Devi soltanto scegliere una parte, ora: non restare indifferente per paura di macchiarti d’altro sangue. Sei già sporco, ma… a volte, rimanere inerti provoca più morti che combattere per una causa. Non c’è spazio, in questa lotta, per l’indecisione. Il sangue degli innocenti ricadrà sulle tue mani comunque, anche se non ti schiererai: apparterrà ai miei nuovi fratelli, alla mia nuova famiglia» accennò nuovamente alla cascina, dove il silenzio regnava ancora «Mi hai già rubato una vita, due anni fa. Non portarmi via anche queste. Proteggile, ti prego. Aiutaci e forse troverai la redenzione che cerchi.»

Erwin si limitò ad annuire, sigillando silenziosamente la promessa. Avrebbe fatto il possibile per cancellare quell’ennesima onta; per trovare un’occasione di riscatto.

Abbassò gli occhi sulle proprie mani: per un istante, riuscì ad immaginarle nuovamente pulite, completamente libere dal sangue e dalla vergogna. Poco dopo, però, macchie rossastre tornarono a punteggiare i palmi e le dita, come stelle scarlatte in un firmamento troppo pallido.


 


Angolino: immagino non riuscirò a tenere questo ritmo nell'aggiornare la long, purtroppo. In questi giorni, tuttavia, ero abbastanza ispirata e ne ho approfittato.
Non ho particolari appunti, mi sembra: ho passato buona parte della mattina a scegiere il modello di carrarmato più adatto per Max, in realtà. Volevo che fosse qualcosa di imponente e, al tempo stesso, adatto al contesto. Ho trovato quello - sempre grazie a Wiki *_*
Parlando di ringraziamenti, devo sempre ringraziare Shige e Auriga per le correzioni che mi hanno tempestivamente mandato e per aver approvato il capitolo: non oso pubblicare, ormai, senza il loro regale consenso <3
Come sempre, un grazie infinito se siete arrivati fin qui.
A presto

E'ry
  
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